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L'affermazione della sovranità nazionale popolare di fronte all'offensiva del capitale

R. Morgantini intervista Samir Amin

crisis estructural rebelion popular transnaci L Rbui tLe analisi che riguardano la crisi che scuote - in modo strutturale – il sistema capitalista attuale, risultano essere di una pietosa sterilità. Menzogne mediatiche, politiche economiche anti-popolari, ondate di privatizzazioni, guerre economiche e "umanitarie", flussi migratori. Il cocktail è esplosivo, la disinformazione è totale. Le classi dominanti si fregano le mani di fronte a una situazione che permette loro di conservare e affermare la loro superiorità. Proviamo a comprendere qualcosa. Perché la crisi? Quale è la sua natura? Quali sono attualmente e quali dovrebbero essere le risposte dei popoli, delle organizzazioni e dei movimenti interessati a un mondo di pace e di giustizia sociale? Intervista con Samir Amin, economista egiziano e studioso delle relazioni di dominio (neo)coloniale, presidente del Forum mondiale delle alternative.

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Da molti decenni i tuoi scritti e le tue analisi ci consegnano elementi di analisi per decifrare il sistema capitalista, le relazioni della sovranità nord-sud e le risposte dei movimenti di resistenza dei paesi del Sud. Oggi, siamo entrati in una nuova fase della crisi sistemica capitalista. Quale è la natura di questa nuova crisi?

La crisi attuale non è una crisi finanziaria del capitalismo ma una crisi di sistema. Non è una crisi a "U". Nelle crisi ordinarie del capitalismo (le crisi a "U") le stesse logiche che conducono alla crisi, dopo un periodo di ristrutturazioni parziali, permettono la ripresa. Sono le crisi normali del capitalismo. Invece la crisi in corso dagli anni '70, è una crisi a "L": la logica che ha condotto alla crisi non permette la ripresa. Ciò invita a riflettere sulla precisazione seguente (che è del resto il titolo dei miei libri): uscire dalla crisi del capitalismo o uscire dal capitalismo in crisi?

Una crisi a "L" segnala l'esaurimento storico del sistema. Ciò non vuole dire che il regime morirà lentamente e in modo pacifico della sua bella morte. Al contrario, il capitalismo senile diventa cattivo e tenta di sopravvivere intensificando la violenza. Per i popoli la crisi sistemica del capitalismo è intollerabile, in quanto conduce alla crescente diseguaglianza nella ripartizione del reddito e della ricchezza all'interno delle società, perché si accompagna a una stagnazione profonda da un lato e all'approfondimento della polarizzazione mondiale dall'altro. Benché la difesa della crescita economica non sia il nostro obiettivo, occorre sapere che la sopravvivenza del capitalismo è impossibile senza crescita. Le disuguaglianze con stagnazione, diventano insopportabili. La disuguaglianza è tollerabile quando c'è crescita e quando tutti ne beneficiano, anche se ciò avviene in modo disuguale. Come durante i suoi 30 anni gloriosi. C'era allora diseguaglianza, ma senza impoverimento. Invece la diseguaglianza nella stagnazione si accompagna necessariamente all'impoverimento e questo diventa socialmente inaccettabile. Come siamo giunti a una tale situazione? La mia tesi è che siamo entrati in una nuova fase del capitalismo dei monopoli, che qualifico come quella "dei monopoli generalizzati", caratterizzata dalla riduzione di tutte le attività economiche allo status de facto del subappalto a vantaggio della crescita esclusiva della rendita dei monopoli.

 

Come valuti le risposte attuali alla crisi da parte dei paesi e dei vari movimenti?

Prima di tutto amerei ricordare che tutti i discorsi degli economisti convenzionali e le proposte che avanzano per uscire dalla crisi, non hanno alcun valore scientifico. Il sistema non uscirà da questa crisi. Vivrà o proverà a sopravvivere, al prezzo di distruzioni crescenti nella crisi permanente. Le risposte a questa crisi fino ad oggi, per lo meno quelle che si possono definire tali, sono limitate, incerte ed inefficaci nei paesi del Nord.

Ma ci sono risposte più o meno positive nel Sud, che si esprimono con ciò che chiamano "dell'emergere". La questione che si pone allora è: emergere di cosa? Emergere di nuovi mercati in questo sistema in crisi controllato dai monopoli della triade (da imperialismi tradizionali, della triade Stati Uniti, Europa occidentale e Giappone) o emergere delle società? Il solo caso positivo in questo senso è quello della Cina che tenta di associare il suo progetto dell'emergere nazionale e sociale alla prosecuzione della sua integrazione nella globalizzazione, senza rinunciare ad esercitare il suo controllo sulle condizioni di quest'ultima. È il motivo per cui la Cina è probabilmente l'avversario potenziale principale della triade imperialista. Ma ci sono anche i semi-emergenti, cioè coloro che amerebbero esserlo, ma che non lo sono veramente, come l'India o il Brasile (anche al tempo di Lula e Dilma). Paesi che non hanno cambiato nulla delle strutture di integrazione nel sistema mondiale, rimangono ridotti allo stato di esportatori di materie prime e di prodotti dell'agricoltura capitalista. Sono "emergenti", nel senso che registrano a volte tassi di crescita non malvagi, accompagnati da una crescita più rapida della classe media. Qui a emergere sono i mercati, non le società. Poi ci sono gli altri paesi del Sud, più fragili e in particolare i paesi africani, arabi, musulmani e altri qua e là in America Latina e in Asia. Un Sud sottoposto a un doppio saccheggio: quello delle sue risorse naturali a profitto dei monopoli della triade, quello delle incursioni finanziarie per derubare i risparmi nazionali. Il caso argentino è a questo proposito emblematico. Le risposte in questi paesi sono spesso purtroppo "pre-moderne" e non "post-moderne" come ci vengono presentate: ritorno immaginario al passato, proposto dagli islamisti o dalle confraternite cristiane evangeliste in Africa e in America Latina.

O anche risposte pseudo-etniche che sottolineano l'autenticità etnica di pseudo-comunità. Risposte che sono manipolabili e spesso efficacemente trattate, benché abbiano basi sociali locali reali (non sono gli Stati Uniti che hanno inventato l'islam o le etnie). Tuttavia il problema è serio, perché questi movimenti dispongono di grandi mezzi (finanziari, mediatici, politici, ecc.) messi a loro disposizione dalle potenze capitaliste dominanti e dai loro amici locali.

 

Quali risposte si potrebbero immaginare, da parte dei movimenti della sinistra radicale alle sfide poste da questo capitalismo pericolosamente moribondo?

Una delle tentazioni, che allontanerò immediatamente, è che di fronte a una crisi del capitalismo globale, la risposta ricercata debba anche essere globale. Tentazione molto pericolosa, perché ispira strategie condannate al fallimento certo: "la rivoluzione mondiale", o la trasformazione del sistema mondiale dall'alto, con decisione collettiva di tutti gli Stati. I cambiamenti nella storia non sono stati mai realizzati in questo modo. Sono sempre partiti dalle nazioni che costituiscono gli anelli deboli nel sistema globale; l'avanzamento irregolare da un paese all'altro, da un momento all'altro. La decostruzione si impone prima della ricostruzione. Ciò vale per l'Europa ad esempio: decostruire il sistema europeo se si vuole ricostruirne in seguito un altro, su altre basi. Occorre uscire dall'illusione della possibilità "di riforme" condotte con successo all'interno di un modello che è stato costruito in cemento armato, al fine di essere qualcosa di diverso da quello che è. La stessa cosa per la globalizzazione neoliberista. La decostruzione, che si chiama qui interruzione, non è certamente un rimedio magico e assoluto, che implica l'autarchia e la migrazione fuori del pianeta. La disconnessione significa inversione dei termini dell'equazione; anziché accettare di adattarsi unilateralmente alle esigenze della globalizzazione, si tenta di costringere la globalizzazione a regolarsi sulle esigenze dello sviluppo locale. Ma attenzione, in questo senso, la disconnessione non è mai perfetta. Il successo sarà glorioso se si realizzano soltanto alcune fra le nostre rivendicazioni principali. E ciò pone una questione fondamentale: quella della sovranità. È un concetto fondamentale di cui dobbiamo riappropriarci.

 

Di quale sovranità parli? Credi nella possibilità di costruire una sovranità popolare e progressista, in opposizione alla sovranità come concepita dalle élite capitaliste e nazionaliste?

La sovranità di cosa? Ecco la questione. Siamo stati abituati dalla storia a conoscere ciò che è stata chiamata sovranità nazionale, quella messa in atto da parte delle borghesie dei paesi capitalisti, da parte delle classi dirigenti per legittimare il loro sfruttamento, in primo luogo dei propri lavoratori, ma anche per rafforzare la loro posizione nella concorrenza con gli altri nazionalismi imperialisti. È il nazionalismo borghese. I paesi della triade imperialista non hanno mai conosciuto fino ad oggi un nazionalismo diverso, soltanto quest'ultimo. Invece nelle periferie abbiamo conosciuto altri nazionalismi, che avanzano con la volontà di affermare una sovranità antimperialista, operante contro la logica della globalizzazione imperialista del momento.

La confusione tra questi due concetti di "nazionalismo" è molto forte in Europa. Perché? Ebbene, per ragioni storiche ovvie. I nazionalismi imperialisti sono stati all'origine delle due guerre mondiali, fonti di devastazioni senza precedenti. Si capisce come questi nazionalismi siano considerati nauseabondi. Dopo la guerra, la costruzione europea ha lasciato credere che ci si sarebbe potuti permettere di superare questo genere di rivalità, predisponendo un potere sovra nazionale europeo, democratico e progressista. I popoli hanno creduto a tutto ciò, cosa che spiega come la popolarità del progetto europeo continui a tenere nonostante tutte le sue devastazioni. Come in Grecia ad esempio, dove gli elettori si sono pronunciati contro l'austerità, ma allo stesso tempo hanno conservato la loro illusione di un'altra Europa possibile.

Parliamo di un'altra sovranità. Una sovranità popolare, per opposizione alla sovranità nazionalistica borghese delle classi dirigenti. Una sovranità concepita come veicolo di liberazione, che fa arretrare la globalizzazione imperialista contemporanea. Un nazionalismo antimperialista dunque, che nulla ha a che vedere con il discorso demagogico di un nazionalismo locale che accetterebbe di iscrivere le prospettive del paese interessato nella globalizzazione in atto e che considera il vicino più debole come suo nemico.

 

Come si costruisce dunque un progetto di sovranità popolare?

Questo dibattito lo abbiamo già condotto diverse volte. Un dibattito difficile e complesso tenuto conto della varietà delle situazioni concrete. Credo con buoni risultati, in particolare nelle nostre discussioni organizzate in Cina, in Russia, in America Latina (Venezuela, Bolivia, Ecuador, Brasile). Altri dibattiti sono stati più difficili, in particolare quelli organizzati nei paesi più fragili.

La sovranità popolare non è semplice da immaginare, perché è attraversata da contraddizioni. La sovranità popolare si dà l'obiettivo del trasferimento del massimo dei poteri reali alle classi popolari. Questi possono essere colti a livello locale, ed entrare in conflitto con la necessità di una strategia a livello dello Stato. Perché parlare di Stato? Perché piaccia o no, si continuerà ancora a vivere del tempo con gli Stati. E lo Stato resta il luogo principale di una decisione che pesa. Ecco lo sfondo del dibattito. Ad uno degli estremi del dibattito abbiamo i libertari, che dicono che lo Stato è il nemico che occorre a tutti i costi combattere, che bisogna dunque agire al di fuori della sua sfera d'influenza; all'altro polo abbiamo le esperienze nazionali popolari, in particolare quelle della prima ondata di risveglio dei paesi del sud, con i nazionalismi antimperialisti di Nasser, Lumumba, Modibo, ecc. Questi leader hanno esercitato una vera tutela sui loro popoli e pensato che il cambiamento potesse venire soltanto dall'alto. Queste due correnti devono dialogare, comprendersi per costruire strategie popolari che permettano autentici progressi.

Cosa possiamo imparare da quelli che sono più avanti? Come in Cina o in America latina? Quali sono i margini che queste esperienze hanno saputo mettere a profitto? Quali sono le forze sociali che sono o potrebbero essere favorevoli a queste strategie? Con quali mezzi politici possiamo sperare di mobilitare le loro capacità? Ecco le riflessioni fondamentali su cui noi, i movimenti sociali, i movimenti della sinistra radicale, i militanti antimperialisti e anticapitalisti, dobbiamo lavorare e alle quali occorre rispondere per costruire la nostra sovranità, popolare, progressista e internazionalista.


Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

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