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Perché l’Unione Europea non funziona

di Vladimiro Giacchè

Il caos intorno alla Grecia è la spia di un problema strutturale: si è impedito che l’Europa potesse avere una politica fiscale comune nell’illusione che fosse sufficiente il libero mercato

Il conflitto scoppiato all’interno dell’Unione europea sul caso greco è soltanto l’ultima e più clamorosa dimostrazione dell’assoluta incapacità delle istituzioni europee di gestire la crisi economica in corso. I motivi di questo disastro non sono contingenti, ma affondano le loro radici nel processo di costruzione dell’Europa e nella sua architettura istituzionale. Di cui questa crisi sta mettendo in luce tutti i limiti. La crisi ha in effetti evidenziato, e aggravato, un’accentuata divergenza tra le economie della zona euro: in termini di crescita, di inflazione e di incremento del debito pubblico.

Quello che sta accadendo è l’incubo dei fautori dell’unità economica dell’Europa: il prodursi di choc asimmetrici, ossia di una crisi che colpisce in misura molto diversa i paesi dell’Unione, con i più deboli tra essi ormai impossibilitati ad adoperare la leva delle svalutazioni competitive per raddrizzare le loro economie. E che quindi rischiano di avvitarsi in una spirale drammatica: crisi economica, debito fuori controllo (anche per la riduzione delle entrate fiscali a causa della crisi) e necessità di una terapia d’urto contro il debito che ha l’effetto di aggravare la crisi.

L’Unione europea non è in grado di impedire che si producano situazioni del genere. Questo perché c’è l’Unione monetaria, ma non c’è una politica economica integrata a livello europeo.

E non può esserci, per un motivo ben preciso: perché una politica economica comune è impossibile in assenza di una politica fiscale comune. Ma le politiche fiscali dei Paesi dell’Unione sono tutt’altro che omogenee. Anche perché il Trattato di Lisbona prevede che sull’armonizzazione delle politiche fiscali (come del resto sulle politiche sociali) l’Unione possa decidere soltanto all’unanimità (vedi gli artt. 114, 192, 194). Conseguenza: è sufficiente che siano contrari Paesi come la Gran Bretagna o la Lettonia (che oltretutto non fanno parte neppure della zona dell’euro) per impedire che l’Unione europea armonizzi le diverse legislazioni fiscali. All’origine di questa situazione vi è un presupposto teorico, o meglio ideologico: la bizzarra idea secondo cui il “libero agire delle forze di mercato”, unito al coordinamento delle politiche monetaria e di bilancio, sarebbe la ricetta giusta per conseguire la crescita economica. Su questa idea sono stati costruiti tutti i trattati, almeno da Maastricht in poi. Un secondo motivo è più concreto, ed è rappresentato dagli interessi delle imprese: che, in assenza di regole fiscali comuni (ossia di soglie minime di tassazione), hanno potuto fare arbitraggio fiscale, creando o spostando filiali operative nei Paesi in cui la fiscalità era più conveniente (vedi alla voce Irlanda). Questo a sua volta ha ingenerato una concorrenza al ribasso tra le fiscalità e quindi una tendenziale riduzione delle tasse medie sulle imprese su scala europea.

Tutto questo ha avuto effetti perversi di breve e di lungo periodo. Quelli di breve – siccome i vincoli di Maastricht imponevano comunque soglie basse di deficit – sono consistiti in un aggravio del carico fiscale sulle persone fisiche (e in particolare sui lavoratori dipendenti) e in una riduzione delle prestazioni sociali erogate dagli Stati, indebolendo anche per questa via la domanda interna nei Paesi dell’Unione. Quelli di lungo periodo, li stiamo vivendo adesso, e consistono appunto nell’impossibilità di una politica economica comune: anche per Paesi che hanno una moneta comune, e anche in presenza di una crisi devastante.

Possiamo concludere che si è dimostrata sbagliata l’idea che la formula per lo sviluppo economico consistesse nel lasciare briglia sciolta al mercato e alle imprese, chiedendo al tempo stesso ai cittadini europei di rinunciare a fette sempre più consistenti del welfare e delle prestazioni sociali, quasi che fossero lussi di cui vergognarsi.

Per intendere come gran parte della classe dirigente europea, anche nei suoi esponenti più illuminati, abbia condiviso questa idea, basterà citare un articolo di Tommaso Padoa-Schioppa (allora nel board della Bce) pubblicato sul Corriere della Sera del 26 agosto 2003: “Nell’Europa continentale, un programma completo di riforme strutturali deve oggi spaziare nei campi delle pensioni, della sanità, del mercato del lavoro, della scuola e in altri ancora. Ma dev’essere guidato da un unico principio: attenuare quel diaframma di protezioni che nel corso del Ventesimo secolo hanno progressivamente allontanato l’individuo dal contatto diretto con la durezza del vivere, con i rovesci della fortuna, con la sanzione o il premio ai suoi difetti o qualità”. Rilette oggi, quando oltre il 10 per cento della popolazione europea è a diretto contatto con la “durezza del vivere ” nella forma umiliante della disoccupazione, e certamente non a causa dei propri “difetti”, queste frasi fanno una certa impressione. Ma soprattutto consigliano di cambiare priorità rispetto a quelle che hanno caratterizzato in questi anni la costruzione europea – e che oggi ne mettono in discussione la stabilità, se non la stessa sopravvivenza.

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