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anticitera

Schiavitù senza padroni

di Alessandro Della Corte

c38fd11c10f722670c1cc704a15cc2eaQualche tempo fa sono capitato su un articolo divulgativo che parlava di un recente esperimento di fisica fondamentale[1]:

Prendete un pallone. Da calcio, da basket, da pallamano; non importa. Sparatelo con un cannone e riprendete la scena con telecamere ad altissima definizione. […] Ora è il momento di fare un passo in avanti: rimpicciolite il pallone fino a farlo diventare un oggetto quantistico (un elettrone, un fotone; non importa) e ripetete l’esperimento con un mini-cannone e una mini-telecamera. Vi accorgerete che le cose cambieranno parecchio. Senza tirarla troppo per le lunghe, non riuscirete più a concludere la misura come prima. Perché la vostra mini-telecamera perturberà irrimediabilmente la traiettoria del mini-pallone, diventando di fatto parte integrante e attiva dell’esperimento. […] Piccola pausa: cosa vuol dire entangled? Il termine entanglement, che non ha una precisa traduzione italiana, definisce un bizzarro (l’ennesimo) fenomeno quantistico in cui due o più particelle sono intrinsecamente collegate tra loro in modo tale che le azioni o le misure eseguite su una di esse abbiano effetto istantaneo e irreparabile sulle altre. Con questo in mente, torniamo all’esperimento.

Eccetera, eccetera. Testi di questo tipo mi deprimono. Non perché l’esempio scelto (abbastanza a caso) sia particolarmente cattivo nel suo genere; si trovano facilmente cose molto più invereconde. Il mio problema è il genere stesso, e in particolare lo stile tipicamente usato. Si avverte l’ansia, il terrore che il lettore si spaventi, o peggio ancora si annoi e smetta di leggere. Lo si percepisce dal periodare convulso, dall’abbondanza di espressioni tipiche del parlato che dovrebbero dare sollievo tra una parola difficile e l’altra, dai grassetti distribuiti generosamente e un po’ a caso.

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doppiozero

Ok, Boomer! Per una vecchiaia meno seria

di Mauro Portello

2122913 clint1Fermo restando che “rendere la vita meno seria è una fatica immane e una grande arte”, come dice John Irving, vale comunque la pena insistere nella riflessione sulla vecchiaia per la semplice ragione che solo facendolo possiamo pensare di riuscire a escogitare qualcosa di meglio che ce ne possa difendere. Chissà, magari proprio nella vaghezza del qualcosa sta il “meno serio” di cui abbiamo bisogno.

“Ok, boomer!” si è sentito rispondere sarcasticamente un anziano deputato neozelandese qualche settimana fa dalla sua giovane collega venticinquenne Chlöe Swarbrick che intendeva dire “Adesso tocca a noi”. E così il baby-boomer diventa il nuovo soggetto sulle spalle del quale dovrà compiersi il salto evolutivo della concezione della vecchiaia, piaccia o no. Con la cultura disinvolta, spregiudicata e ribelle della sua umanità rock dovrà affrontare la sfida. E, per questo in particolare, sono convinto che François Jullien abbia ragione quando dice che “quel che viene prima è la dimensione culturale”, che ciò che si pensa, oggi, può essere più determinante di ciò che si fa, più di quanto si creda. Personalmente sono convinto che la nuova vecchiaia ne sia un’importante verifica.

È un vero tourbillon antropologico con cui stiamo facendo i conti. Tutti possono verificare che nella propria vita quotidiana degli ultimi tre decenni sono apparse nuove abitudini alimentari, linguistiche, estetiche, economiche, morali, provenienti appunto da quel mondo globale che non sempre per tutti è ancora facile identificare e utilizzare. E l’interazione con l’informazione globalizzata che la Tecnica ci mette a disposizione è probabilmente la maggiore fonte di questi cambiamenti. Gli adattamenti culturali sono in corso.

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labottegadelbarbieri

Se accuso questo «J’accuse»

di Fabio Troncarelli

Sul bel film di Polanski, sul caso Dreyfuss, sullo sciagurato Harris, sui rasoi e sugli scriba-lecchini

310px JaccuseFinalmente è uscito nelle sale il film di Polanski sul caso Dreyfus. Dico finalmente perché è stato giustamente molto apprezzato (da critici e pubblico a Venezia) e perchè effettivamente è molto bello. Polanski è uno dei pochi registi che sa fare ancora cinema, quello di una volta non il “birignao” dei patiti dei pupazzi animati. Però non è detto che gli riesca sempre tutto. Farlo notare non significa rompere le uova nel paniere per il gusto di farlo. Vediamo perché.

In originale il film si chiama «J’accuse» riprendendo il titolo di un famoso articolo di Emile Zola. In italiano si chiama invece «L’ufficiale e la spia» che riprende – in omaggio agli editori di libri sempre più assatanati di quattrini facili e sempre più a corto di idee originali – il titolo del best seller del giornalista e scrittore inglese Robert Harris da cui la pellicola è stata tratta. Il legame con il romanzo di Harris non è secondario: come ha scritto Mauro Donzelli: «sulle [sue] pagine era tutto descritto, inquadratura per inquadratura, gesto per gesto1». Ecco, il punto è proprio questo: per alcuni, come Donzelli, ciò significa che Harris è un genio «che meriterebbe più attenzione». Per altri invece, come me, Harris è una palla al piede che fa sprofondare il fim in una palude. Come del resto tutti i romanzieri che vogliono “romanzare” la storia e pretendono di ficcare la fiction dove non serve, anzi stona, come un attore che recita sopra le righe e aggiunge versi inutili a capolavori.

Una volta da ragazzo ebbi la disgrazia di vedere Romeo e Giulietta di Shakespeare nell’orrenda, catastrofica versione di un regista famoso: un bric-a-brac esagerato e sgangherato che intendeva solo imbambolare, ridurre a uno straccio l’innocente spettatore.

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doppiozero

Elena Ferrante. La vita bugiarda degli adulti

di Stefano Jossa e Viviana Scarinci

amica genialeFerrante mon amour

di Stefano Jossa

È possibile confrontarsi con la Ferrante (con l’articolo al femminile perché è un brand: come la Lego e la Coca Cola) senza risultare invidioso se la si critica, gregario se la si celebra e vigliacco se la si ignora? Per provarci, ho indossato simultaneamente i panni del critico, che guarda sospettoso, e del lettore, che s’immerge appassionato, fondendo due identità in una. Comincerò quindi da quella del critico, che crede di aver individuato la chiave per leggere La vita bugiarda degli adulti, passando subito dopo a una dichiarazione di amore sviscerato per la sua scrittura, che mi ha fatto leggere il suo nuovo romanzo, come i quattro precedenti, tutto d’un fiato.

Nel romanzo c’è due volte, alle pagine 132 e 142-3, una sequenza di un triplice io, che rivela la natura del libro: una lunga confessione intimistica, in presa diretta, dell’esperienza di crescita di un’adolescente, che si trova ad affrontare il cambiamento del suo corpo, la fine della sua famiglia e la scoperta del sesso. Non diventerà adulta se non simbolicamente, alla fine del libro, che già sembra preludere a un successivo. Al centro c’è lei e solo lei, come si addice a un’adolescente, ma soprattutto con l’occhiolino rivolto al lettore, che si sente voyeristicamente abilitato a farlo anche lui, un racconto simile della propria vita, in prima persona e al passato. Nell’era del narcisismo di massa, quale strategia più vincente per raggiungere il numero più alto possibile di lettori? Chi non ha mai scritto un diario, o desiderato di farlo?

Lei è Giovanna, Giannì, come la chiamano tutti, ma soprattutto è Elena Ferrante, un nome di cui non si può che essere invidiosi, per il successo che ha e il mistero che l’avvolge, che le consentono di essere libera: libera da vincoli di appartenenza, libera dai ricatti del mercato, libera dai condizionamenti del chiacchiericcio intellettuale.

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paroleecose2

Il clown senza padre

di Sergio Benvenuto

Intervento tenuto al convegno Il padre oggi, 26-27 ottobre 2019, presso la Facoltà di Medicina e Psicologia dell’Università La Sapienza di Roma. Il convegno è stato organizzato dall’IPRS (Istituto Psicoanalitico per la Ricerca Sociale) e dall’IREP

l uomo ride film ispirato personaggio joker1.

Il film Joker di Todd Phillips, che circola attualmente in Italia, è tratto dai fumetti di Batman, ma in realtà è ispirato sia al romanzo di Victor Hugo L’uomo che ride, sia al film V for Vendetta di James McTeigue.

Il protagonista di Joker, Arthur, è un giovane comico fallito, con ricoveri psichiatrici nel suo pedigree, che si adatta a fare il clown di strada. Questo quasi-psicotico vive da sempre con la madre stramba, non ha mai conosciuto suo padre. A un certo punto Arthur si convince, credendo a rivelazioni della madre, di essere il figlio di un grande magnate, Thomas Wayne (questo è il nome del padre di Bruce Wayne, alias Batman, nei famosi fumetti; un padre assassinato). Wayne si candida a sindaco di Gotham, alias fumettistica di New York. La madre sostiene di essere stata l’amante di Wayne da giovane e di aver avuto da lui Arthur, figlio che il padre non ha riconosciuto. Ma secondo un’altra versione, Arthur sarebbe stato adottato dalla madre, che da piccolo avrebbe abusato di lui, fino a finire lei in manicomio. Non sapremo mai, fino alla fine del film, se Wayne è davvero il padre di Arthur o no. Arthur è marcato come figlio di NN.

Arthur, una sera, spara a tre yuppies che lo aggrediscono in metropolitana e li uccide. Si diffonde la voce in tutta l’America che uno mascherato da clown è l’assassino dei tre brokers. Ben presto questo clown giustiziere diventa un eroe per la massa dei diseredati di Gotham, che protestano contro il potere indossando tutti una maschera da clown che ride. È interessante che tutti i mascherati da clowns siano uomini. L’intera città è messa a ferro e fuoco da migliaia di clowns. Arthur, che nel frattempo ha ucciso la madre e varie altre persone, viene riconosciuto come l’assassino dei tre yuppies e glorificato dai clown ribelli. Nel frattempo un uomo, anch’egli mascherato da clown, uccide Wayne. Non dico il finale.

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doppiozero

Remo Bodei ha lasciato andare la gomena della vita

di Francesca Rigotti

61mqtzfws2lOgni tanto lo si incontrava a festival e congressi filosofici un po' ammaccato; una volta zoppicava un po', un'altra aveva un braccio al collo; ognuno sarebbe rimasto a casa, invece Remo no. Se Remo Bodei aveva preso un impegno, lo rispettava fino in fondo, appena possibile: «Sono coriaceo», diceva di sé, da bravo stoico; coriaceo come la suola di una vecchia scarpa. Ma questa volta non ce l'ha fatta neanche lui e se ne è andato e ci ha lasciato tutti orfani, filosofi e no. Soprattutto i non filosofi, perché più di ogni altro Bodei era riuscito a portare la filosofia nelle strade e nelle piazze, come Socrate. E l'aveva fatto con quell'invenzione geniale che fu, anche nel nome, il Festival della Filosofia di Modena, Carpi e Sassuolo, così che dal 2001 strade e piazze e chiese e palazzi di quei luoghi ospitano le migliaia di persone che dedicano anche soltanto un poco del loro tempo alla riflessione filosofica. Viene allora da chiedersi: ma veramente anche tutte quelle persone che sono state sedute su quelle migliaia di sedie di plastica nella piazza Grande di Modena infuocata dal sole, o nella immensa spianata di Carpi in nome di Socrate, Kant e Arendt, opteranno per il verbo pupulista, sovranista, primanostrista, mettendo il loro voto nelle mani dei promotori della chiusura, della discriminazione e dell'odio?

Tra le tante altre aree di interesse, Bodei si è occupato anche delle passioni: passioni calde come l'ira, bollente, furiosa, rossa. E passioni tristi come l'odio, gelido e calcolato, alimentato e accudito costantemente. L'odio fa parte di quelle «passioni tristi» di cui parla Spinoza, il grande filosofo olandese del '600, le quali, insieme all'invidia e all'avarizia, deprimono la nostra voglia di vivere.

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paroleecose2

Maschere del populismo: su "Joker" di Todd Phillips

di Antonio Tricomi

Joker 800x450A ben vedere, già l’ambiguità sociale, ancor più che morale, del Batman rimodulato da Nolan si rivelava anche l’esito dell’estrazione di classe del personaggio. Specie nel primo episodio della trilogia sull’uomo pipistrello realizzata dal cineasta inglese, notavamo infatti una Gotham City, e dunque – fuor di metafora – una New York e un Occidente intero, scivolati sull’orlo del baratro per due ragioni sì diverse e, tuttavia, complementari. Perché minacciati, è vero, da uno spietato nemico esterno. Ed è forse superfluo ricordare che Batman Begins intendeva anche proporsi quale implicita, e comunque partigiana, riflessione sul clima da “guerra dei mondi” generatosi, negli Stati Uniti come in Europa, all’indomani dell’11 settembre 2001. Noi occidentali, compiutamente moderni e democratici, da un lato; i musulmani, fanaticamente medievali e assassini, dall’altro: questo allora postulava, né manca oggi di ribadire, un’incresciosa retorica pubblica affermatasi sia nel vecchio sia nel nuovo continente. E però, se il film di Nolan le immaginava a un passo dalla catastrofe, è in primo luogo perché riteneva le nostre società governate da clan, sempre meno nutriti, di spregiudicati capitalisti abili a consacrare, quale sola legge in esse vigente, quella del mero profitto. Una legge per di più reputata universale da simili schiere di eletti e quindi da loro parimenti imposta a tutte le civiltà altre, in tal modo ridotte alla mercé dell’Occidente.

Di qui, in Batman Begins, la particolare configurazione assunta da Gotham City. Abitata da una cospicua massa di individui privati dei diritti civili appunto perché estromessi dal mercato del lavoro o comunque immiseritisi, dunque incapaci di produrre o consumare ricchezza.

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sinistra

Retorica e realismo di un (grande) poeta borghese: Giosuè Carducci

di Eros Barone

foto bolgheri 031«Il signor Settembrini è letterato» commentò Joachim, un po’ impacciato. «Ha scritto per giornali tedeschi il necrologio di Carducci... Carducci, sai?» E rimase ancora più impacciato, poiché suo cugino lo guardò stupito come per dire: che ne sai tu di Carducci? Tanto poco quanto me, suppongo.

Thomas Mann, La montagna incantata, Cap. III, “Satana”.

Scrive Pietro Gibellini nella sua pregevole Introduzione a Tutte le poesie del Carducci: «La fortuna di molti scrittori ha l’andamento delle montagne russe dei vecchi luna-park: qualche ondulazione e sobbalzo all’avvio, quindi una ripida ascesa in vita (e di solito nell’immediato ‘post mortem’) fino ai vertici della gloria, poi una caduta precipitosa verso l’abisso del discredito o, peggio, dell’oblio. Si pensi a Monti, la cui fama grandissima, durante l’esistenza, mai compromessa dal tempestoso alternarsi dei regimi, fu intaccata dopo la morte dal confronto obbligato con Foscolo (...). Si pensi a D’Annunzio, asceso alla gloria letteraria e al successo mondano durante la sua “vita inimitabile” e precipitato poi, con le polverose rovine del regime cui, a ragione o a torto, era stato associato, nel vallone oscuro dove è rimasto fino a tempi recenti. Il diagramma della fortuna del Carducci appare ancor più nitido, poiché alla linea progressivamente ascendente succede, con netto contrasto, quella discendente altrettanto progressiva. Le sue quotazioni si mantennero alte come quelle dell’ammirato Monti, ma per un periodo ancor più lungo; il suo declino, a differenza di quello di D’Annunzio, appare, almeno sino a ora, irreversibile (...). Da decenni Carducci non ha quasi più lettori, nemmeno nel luogo deputato delle aule scolastiche. Bello scacco, per quello che da Thovez in poi si suole chiamare il “poeta professore”!». 1

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doppiozero

Il Nobel a Peter Handke

Vivere imparando a vivere

di Luigi Grazioli

81yrj9veull. sl1500 Il Nobel a Peter Handke è una sorpresa. Sembra un Nobel di recupero, specie perché assegnato in coppia insieme a Olga Tokarczuk. Un Nobel di doppia riparazione: a una donna, senza voler minimamente sminuire il suo valore, dopo lo scandalo per molestie relativo al marito di una giurata che aveva causato la mancata assegnazione dello scorso anno; e a un autore che avrebbe dovuto vincerlo molto prima, non fosse stato per un altro scandalo, quello delle sue prese di posizione in difesa della Serbia in occasione delle guerre della ex-Jugoslavia. Il ritorno sulla scena di Handke, che in verità non era mai sparito perché ha continuato a pubblicare libri splendidi anche negli ultimi 20 anni; o meglio: il ritorno dell’accettazione pubblica, era stato annunciato dall’assegnazione degli importanti premi “Thomas Mann” e “Kafka” nel 2008 e ribadito dal premio “Ibsen” nel 2014, dopo che nel 1999 egli aveva restituito il premio “Georg Büchner” a causa dei bombardamenti della NATO contro i serbi.

Per uno che aveva iniziato con il libretto teatrale Insulti al pubblico (1966) e opere narrative e poetiche provocatorie e al limite dell’illeggibilità (su questo primo periodo vedi il mio articolo qui) arrivare all’ufficialità planetaria del Nobel, che pure ha trascurato nomi fondamentali a volte per ragioni discutibili e preso abbagli che non depongono a favore della sua infallibilità, potrebbe sembrare un’ironia del destino. Ma per i lettori che lo seguono da 50’anni è solo un atto dovuto.

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paroleecose2

Preghiere esaudite

Saviano e l'abdicazione della letteratura

di Walter Siti

[Questo saggio di Walter Siti è tratto dal quinto numero di «L’età del ferro» (Castelvecchi Editore), uscito lunedì passato]

Saviano immagine campagna maki galimberti 1.

Difendere la letteratura non è meno importante che difendere i migranti. Mi sono domandato più volte se fosse il caso, oggi come oggi, di discutere pubblicamente il lavoro letterario di Roberto Saviano, ho anche interpellato amici comuni; il timore era che, criticandone alcuni aspetti, potessi oggettivamente dare una mano a chi lo odia e non perde occasione per screditarlo politicamente – insomma se queste mie opinioni potessero (come si diceva quand’ero giovane) essere strumentalizzate dalla destra. Dico subito, anche se non basterà, che stimo e ammiro il coraggio civile di Roberto, la sua dignità nel vivere sotto scorta, e che ritengo assurdi (oltre che moralmente sgradevoli) gli attacchi di chi lo accusa di essere un furbastro che si è arricchito denigrando la propria terra, un para-guru che spara sentenze buoniste dal suo attico di Manhattan[1], un plagiario, o velatamente minaccia di togliergli la protezione dello Stato. Ciò nonostante, è proprio per l’autorevolezza che Saviano si è conquistato col proprio coraggio che mi decido a intervenire: perché da tempo, con le sue dichiarazioni, Saviano ha preso le distanze da quella che lui considera la “pura letteratura” e dai letterati che si accontentano di “fare un buon libro, costruire una storia, limare le parole sino a ottenere uno stile bello e riconoscibile” – già in La bellezza e l’inferno dichiarava “preferirei non scrivere né assomigliare a queste persone” e nell’articolo sulla Politkovskaja si spingeva fino a un “non mi interessa la letteratura come vizio”; recentemente, di fronte all’emergenza dei migranti che rischiano di morire nel Mediterraneo, la sua insofferenza nei confronti dei ‘puri letterati’ si è fatta più acuta, fino a espliciti rimproveri di “codardia”.

Prendo sul serio la strigliata: personalmente mi ritengo piuttosto codardo, sono (quasi) sempre pronto al compromesso, preferisco l’eccepire al combattere – e poi sì, perdo molto tempo a “limare le parole”.

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roars

Una difesa degli studi classici

di Paolo Di Remigio

SanGerolamoChe agli alunni sfugga la natura della difficoltà della versione mi appare evidente: appena consegnato il testo da tradurre, i candidati si precipitano a cercare i significati delle parole sul vocabolario. I risultati sono univoci: per la maggior parte le versioni consistono in una assurda sequenza di frasi quasi tutte senza senso. Lo studio delle lingue classiche finisce per suggerire agli studenti che la frase sgrammaticata e informe, il discorso insensato e privo di contenuto siano espressioni linguistiche accettabili. Per noi il periodo complesso, la ricchezza lessicale, l’etimologia e il senso storico sono i vantaggi più evidenti dello studio delle lingue classiche. Anche nel mondo tedesco a cavallo tra Settecento e Ottocento sembrava che la cultura moderna dovesse rendersi autonoma e che lo studio delle opere antiche si perdesse in un’erudizione oziosa. A questa contestazione Hegel replicava innanzitutto dal lato del contenuto. A chi sosteneva che l’attività didattica si può esercitare su qualunque materia, Hegel rispondeva che l’esercizio non è indifferente alla materia: solo un contenuto valido e significativo corrobora la mente, le procura contegno, saggezza, presenza di spirito, senza le quali essa non acquisisce la versatilità. “Chi non ha conosciuto le opere degli antichi ha vissuto senza conoscere la bellezza”. Il nutrimento offerto dalle opere antiche non è però soltanto nel loro contenuto; non meno importante è la forma in cui è realizzato. Il rigoroso studio grammaticale delle lingue classiche si raccomanda così – questa la conclusione di Hegel – come uno dei mezzi didattici più nobili e universali. Se la didattica gentiliana era guastata da intenzioni classiste; l’attuale scuola pubblica non fa meglio sotto il profilo sociale: disprezzando gli obiettivi didattici, essa mantiene ignorante chi la frequenta.

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iltascabile

La vita delle scienze

Giancarlo Cinini* intervista Bruno Latour**

latourI filosofi sono sul sentiero di guerra”, c’è scritto sulla maglietta che indossa Bruno Latour. Come sia fatto questo sentiero di guerra è la domanda che non gli abbiamo fatto, ma ci viene da pensare a quei percorsi che un tempo, tra il ’15 e il ’18, si inerpicavano sopra i monti dell’Adamello e dell’Ortles e sui quali si confondevano i soldati, le nevi, le ferrate, la roccia e le pallottole: l’antropologo francese il suo sentiero filosofico l’ha percorso proprio dove i segni della natura e della cultura si sono sempre mescolati. Si è occupato soprattutto delle pratiche con le quali gli occidentali costruiscono la conoscenza su ciò che chiamano oggetti della natura, indagando come un etnografo i modi e i miti del fare scienza.

È l’autore della Actor-network theory, la teoria secondo cui ogni fatto sociale e ogni oggetto scientifico è il prodotto di un’intricata rete di relazioni e alleanze, tra umani e non-umani. Ha cominciato nel 1979, con Laboratory Life, studiando una particolare tribù del mondo occidentale: i neuroendocrinologi del Salk Laboratory di La Jolla, in California. La ricerca etnologica fu condotta a quattro mani con il sociologo Steve Woolgar e mirava a ricostruire i protocolli di ricerca, le tecniche di misura, gli strumenti, i miti dei ricercatori, che si mescolavano agli oggetti studiati.

Dieci anni dopo scriverà il suo primo saggio teorico, un’introduzione alla sociologia della scienza: La scienza in azione (1987), dove propose di “aprire la ‘scatola nera’ di Pandora” e di entrare nelle pratiche della tecnoscienza, un calderone fatto di laboratori, istituzioni e peer-review di riviste internazionali. Si è occupato del caso di Louis Pasteur in MicrobiUn trattato scientifico-politico (1984). Il grande scienziato Pasteur, racconta Latour, è un uomo abile, capace di spostarsi dai problemi dell’igiene pubblica alla fermentazione delle birre industriali, dalle malattie negli allevamenti alla pastorizzazione; Latour ne descrive il gioco di alleanze dentro e fuori le scienze, il modo in cui Pasteur trova ogni volta nuovi alleati, microbi, politici, allevatori, urbanisti preoccupati per l’igiene della città, produttori di birra.

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marx xxi

Vorrei poter chiedere a Pasolini

di Norberto Natali

pasolini fronteLa mancanza di Pasolini mi pesa sempre di più quando sento, per esempio, parlare Saviano. Due figure opposte.

Il grande poeta friulano sapeva farci misurare con i nostri punti di vista con l’abilità -direi da grande artista- di ricorrere alla provocazione graffiante, mai banale né fuorviante, con un sapiente uso del paradosso e dell’iperbole. Riusciva sempre a non lasciarci assopire sugli stereotipi accomodanti verso cui voleva indirizzarci il moderno potere borghese, riusciva a farci domandare cosa ci fosse veramente dietro le apparenze superficiali (e che futuro preparassero).

Come dimenticare l’imprevedibile difesa dei poliziotti figli dei contadini meridionali (quindi della disoccupazione e della povertà provocate dal fascismo e non risolte dalla DC) o certi discorsi “corsari” i quali, apparentemente, sembravano snobbare l’antifascismo ma in realtà servivano ad evitare che questo divenisse un comodo alibi per il potere.

Soprattutto non posso dimenticare la lezione di “Petrolio” e quando diceva (dovremmo ricordarcene tutti, oggi) di sapere che i criminali fossero al potere pur senza averne le prove.

Ovviamente, bisogna utilizzare questa sua eredità sapendo che si tratta degli interventi rapidi ed “educativi” di colui che era, in primo luogo, un grande poeta e come tale ci parlava della realtà. Sarebbe un errore interpretare alla lettera quelle sue incursioni morali, come fossero una posizione o, peggio, un programma politico: è evidente che egli fosse contro la repressione e la sua violenza, così come era un antifascista degno fratello di un partigiano ed un sostenitore convinto e fermo -lo è sempre stato- del PCI.

Lui scrisse una toccante cronaca -da par suo- dei funerali di Di Vittorio che era, in realtà, un tributo alla grande folla di lavoratori, di poveri ed emarginati che si erano radunati per l’ultimo saluto al “capo” della CGIL, in un certo senso un loro eroe.

Chissà se Pasolini confermerebbe (come vuole oggi parte importante della stampa e degli intellettuali, anche della politica) che la “capitana” tedesca protagonista delle cronache di queste settimane, là nella terra di Pio La Torre e Rosario Di Salvo, può essere considerata una specie di eroina della causa dei poveri e degli oppressi, della lotta contro la prepotenza e la corruzione degli sfruttatori.

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micromega

Contro Zeffirelli: la necessità del dissenso

di Tomaso Montanari

Pubblichiamo un testo che ancora solo pochi anni fa sarebbe sicuramente stato pubblicato come editoriale di prima pagina da qualche grande quotidiano italiano o sarebbe stato al centro dei principali talk show. Quantum mutatus ab illo! Ormai il conformismo culturale e politico ha talmente saturato la vita del paese, che un articolo esemplare nella valutazione di meriti e mediocrità culturali e nella semplicità di adesione ai valori della nostra Costituzione, trova spazio solo in testate minoritarie di resistenza eretica democratica. (pfd'a)

franco zeffirelli tomaso montanariVorrei provare a tracciare un provvisorio bilancio della vicenda (sgradevole, ma in fondo assai istruttiva) provocata dal cortocircuito tra una mia frase iconoclasta contro il defunto Zeffirelli e l’uscita di un mio testo tra le tracce della maturità. Una vicenda sfociata nel dubbio privilegio di un attacco personale contro di me da parte del ministro Salvini, e dunque nell’immancabile pestaggio mediatico da parte dell’ormai larghissima corte di boia, capre e ballerine che circonda (più o meno consapevolmente) il Ministro della Paura.

Il fulcro su cui ruota tutta questa vicenda ha un nome: dissenso. L’orizzonte che essa dischiude è, invece, quello del conflitto.

 

1. Necessità del dissenso

Come ho spiegato altrove tutto parte da un mio tweet.

Si può avere naturalmente un’opinione assai critica verso l’uso dei social media. Io stesso mi sono chiesto se sia giusto usare un mezzo che per sua natura impedisce riflessioni articolate, e produce una buona dose di fraintendimenti ed equivoci. Ma alla fine penso che sì, che sia giusto starci. Da papa Francesco a Salvini, è anche lì che si combatte una battaglia di opinione e di pensiero.

Ed è del resto la dinamica stessa di questa vicenda a dimostrare che anche un tweet può essere uno strumento utile, se il fine è la ricostruzione di un qualche pensiero critico diffuso.

L’aspetto più clamoroso della vicenda è proprio l’esiguità di quelle due mie righe di fronte alle centinaia di pagine e di spazio mediatico dedicati all’esaltazione di Franco Zeffirelli.

La morale è che il sistema non è disposto a tollerare nemmeno quelle due righe: nemmeno un atomo di dissenso. Il senso comune su cui poggia il consenso al potere è così fragile, sul piano razionale e argomentativo, che non si può permettere che qualcuno dica che il re è nudo.

Il dissenso è dunque pericoloso: e diventa pericolosissimo quando chi lo esprime rischia di acquistare autorevolezza mediatica, per esempio attraverso la sua inclusione nel ‘canone’ della maturità (tanto più insopportabile perché fatta da ‘burocrati’ ministeriali di un ministero controllato dalla Lega!). Ed è proprio allora che scatta il pestaggio.

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carmilla

Nemico (e) immaginario. La morte, l’oblio e lo spettro digitale

di Gioacchino Toni

666yyy661Il sopraggiungere della morte comporta per ogni essere umano un, più o meno lento, scivolamento nell’oblio. Per certi versi ciò che sembra spaventare maggiormente gli esseri umani, per dirla con Antonio Cavicchia Scalamonti, è «la morte in quanto oblio»1 e, proprio per differire l’oblio, nel corso del tempo l’umanità ha tentato in ogni modo di costruire una memoria duratura.

Anche a causa dell’entrata in crisi delle promesse religiose, almeno in Occidente, il rischio di scivolare nell’oblio velocemente pare essere percepito dall’essere umano con crescente inquietudine. Risulta pertanto particolarmente interessante, in una società iperconnessa come l’attuale, interrogarsi circa il significato che assume il concetto di “immortalità” sul web.

Spunti di riflessione su tali questioni, ed in particolare sulla Digital Death, sono offerti da alcuni episodi di Black Mirror (dal 2011), produzione audiovisiva seriale ideata da Charlie Brooker che, scrive Alessandra Santoro nel libro collettivo dedicato alla serie curato da Mario Tirino e Antonio Tramontana,2 con acume e lucidità disarmante sembra «portare iperbolicamente all’esterno le paure, le dissonanze, le ferite aperte e le crepe di un mondo dominato da una crescente deriva tecnologica. Deriva che riflette non tanto una società governata dai media, quanto un futuro distopico e pessimista dominato dagli uomini attraverso i media» (p. 157).

Affrontando nel volume il lemma “Morte”, scrive Santoro: «la cultura digitale, oggi, sembra […] impegnata nel tentativo di mettere in discussione la stasi che deriva dall’interruzione che la morte porta nello scorrere del tempo, e lo fa offrendo la possibilità concreta di accumulare tracce con l’intento di conservare una memoria digitale (o eredità digitale) di quello che siamo stati e, in alcuni casi, si propone di rielaborare l’insieme dei tratti accumulati nel corso dell’esistenza nel tentativo di realizzare una sorta di immortalità digitale: far sopravvivere i defunti sotto forma di “spettro digitale”, fornendo tecnologicamente un’autonomia vivente ai nostri dati, i quali, sottratti dalla sostanza corporea che li animava e incarnando la nostra identità personale, proseguirebbero la vita, in versione digitale, che la morte ha spezzato» (pp. 159-160).