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Nuovo cinema paraculo

Romanzo di uno strascico

di Christian Raimo

Come trasformare un film animatissimo di buone intenzioni in un roba deludente? Basta fidarsi troppo delle buone intenzioni (le strade per l’inferno, si sa, ne sono lastricatissime). Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana è un film che avrebbe potuto essere bello, e non lo è. Per moltissimi motivi. Per primi, certo, quelli legati all’affidabilità della ricostruzione vedono contrapposte tante versioni diverse: il libro-inchiesta di Paolo Cucchiarelli che sostiene la tesi delle due bombe contemporanea (una bombetta-civetta anarchica e una bomba devastante di marca neofascista) e a cui si è ispirato Giordana, viene considerato molto molto discutibile da vari altri, tra cui per esempio Adriano Sofri che in questi giorni ha scritto un istant-book precisamente polemico contro libro e film.

Ma Giordana, come Sofri stesso fa notare, non sposa neanche completamente la tesi del libro, tessendo una narrazione che non si assume dei rischi. In nome di un auto-ricatto, riconosciuto o meno che sia, di un fare semplicemente un film utile, o come si usa dire oggi civile. Civile, utile alle nuove generazioni che magari non sanno nulla della bomba a piazza oppure pensano che ce l’hanno messa le Brigate Rosse.

Ma limportante è parlarne in questo caso ovviamente non basta, oltre a essere impossibile. L’intento del film di non urtare la sensibilità di nessuno finisce per non sfiorare nemmeno un pezzettino di cuore nello spettatore. L’intento del film di non incorrere noie legali finisce per avvalorarne solo le paranoie.

Il punto più problematico di questa intricata vicenda (Piazza Fontana-morte di Pinelli-omicidio Calabresi-delitto Moro), ovvero il buco nero italiano per eccellenza, è che molto spesso nelle ricostruzioni piuttosto che andarci a trovare una verità storica, i nodi mai affrontati della democrazia italiana, ognuno ci scopre il suo buco nero, il suo rimosso, la sua biografia con fantasmi revisitata, la sua personale visita agli inferi. Capita così che dalle prime reazioni al film ognuno si lamenti perché c’è un pezzo che manca: una prospettiva, un dettaglio…

Le più indicative di reazioni sono state quelle di Eugenio Scalfari e di Mario Calabresi (ossia il modo in cui la Repubblica e il Corriere decidono di presentare il film prima che il film sia nelle sale): il primo dà il suo placet per dire che insomma sì la storia d’Italia tutta coincide con la sua storia personale, quindi il film è degno perché parla della sua storia personale. Se qualcuno ha dei dubbi su quello che è successo nella Prima Repubblica, può fare uno squillo a Scalfari, la sua verità è tripla (di giornalista, di inteprete, e di testimone oculare): lui meglio di Forrest Gump era sempre là. Il secondo, Calabresi figlio, si lagna perché questo film non è ancora di più la biografia del padre. Ma, per dire, chi ha visto Romanzo di una strage ne esce con l’impressione di un Luigi Calabresi eroe (lui e Moro-Cristo sono gli unici a indovinare qualcosa nel garbuglio contro tutti gli altri) e martire, ma questa pseudo-santificazione al figlio non è ancora bastata.

È interessante proprio questo dunque: come nel momento in cui si pensa che la ricostruzione artistica debba lenire i traumi personali di una generazione, l’operazione in sé sia per forza di cose destinata al fallimento, programmaticamente. Nella narrazione del terrorismo, Marco Tullio Giordana è stato un pioniere di quella che oggi è una specie di rappresentazione egemone: l’idea che le lotte di quegli anni con tutti i loro estremismi fossero dovuti in parte a dei traumi personali, psicologici.

Se uno si guarda questa scena di Maledetti vi amerò (esordio di Giordana, 1980)

https://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=Elp4FlZqsZ0

vede un David Riondino con trentadue anni di meno che si confronta con un Flavio Bucci con trentadue anni di meno. Riondino interpreta Beniamino, un compagno che cerca di guidare Bucci-”Svitol” a capire qualcosa di quell’Italia sospesa tra rivoluzioni fallite e lotte armate tanatofile. In una sede di Lotta Continua, non si parla più di politica, ma di tragedie intrapsichiche. A un certo punto Riondino dice: “Ne ammazza più la repressione della depressione”. Questa idea di una generazione che si dà al terrorismo perché animata da una cupio dissolvi ritorna nella Caduta degli angeli ribelli; di Giordana, e in maniera quasi ideologica nella Meglio gioventù, dove il personaggio di Sofia (Sonia Bergamasco) decide di darsi alla clandestinità abbandonando il figlio semplicemente perché depressa.

Il grande assente di questo film di Giordana in fondo è il logos, la razionalità, la possibilità che le persone hanno di fare delle scelte che non siano imprigionate dalle catene della propria psiche. Insomma un’idea dell’essere umano come responsabile, soggetto logico e morale, e non come vittima o pedina, o peggio ancora psiche sofferente da curare. Nella rappresentazione di cosa successe in quegli anni, non si vede mai una scena in cui si dibatte delle idee. Le riunioni degli anarchici erano dei covi di poveri illusi e infantili oppure c’era gente che qualche ragione ce l’aveva? E gli scioperi dell’autunno caldo 1969 avevano delle ragioni o erano animati dal desiderio di fare a botte? E Feltrinelli era solo un ricco guascone narciso oppure un intellettuale credibile?


Così il vero rimosso di Romanzo di una strage finisce per essere non la verità giurdica ma semplicemente lo sguardo sulla società. L’errore prospettico è proprio quello di aver ancora una volta sganciato quello che accadeva in piazza, nelle manifestazioni, nelle università, nelle fabbriche, nelle assemblee dalla Grande Narrazione del Potere. Di quella stagione logorroica, di quelle riunioni fino alle quattro di mattina, di quell’instancabile flusso di discussione politica qui c’è pochissima traccia.

Anche pochissima traccia fonica. Perché già a partire dall’uso che si sceglie di fare del sonoro, noi abbiamo a che fare con un film è praticamente insonorizzato. La sensazione che si ha, è di stare dall’inizio alla fine all’interno di una stanza anossica. Allo stesso modo l’utilizzo della colonna sonora di Franco Piersanti rende ancora più ricattatoria questa sensazione: provate anche semplicemente a guardarvi il trailer

https://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=SIDBMbNMdnM

Ci si rende subito conto come questa trama sonora perennemente angosciante è come se togliesse vita alla rappresentazione dei fatti per fare emergere invece una strana vitalità di inconsci impazziti, di fantasmi archetipici che stanno incombendo su di noi. La stessa sensazione si ha con i movimenti degli attori: in quasi tutte le scene (le microscene – la sceneggiatura divide il film in brevi capitoli dai titoli evocativi a loro volta divisi in frammenti che spesso si riducono a pochi scambi di battute) sembra che il regista abbia voluto imporre agli attori una specie di ralenti diffuso. Non soltanto i movimenti di macchina sono rallentati – molti più dolly che steadycam per capirci – e una quantità di campi e controcampi che alle volta sembra di stare a guardare le interviste doppie delle Iene; ma ancora di più delle inquadrature, sono i movimenti: tutto avviene lentamente, i gesti, le parole pronunciate, le camminate, salire o scendere le scale, tutto assorbito in una bolla di strana solennità che assomiglia a un eterno presagio un po’ asmatico.

Insomma Romanzo di una strage (a dispetto del mestiere di chi l’ha confezionato) non sembra credibile (quasi) mai. Assomiglia piuttosto a una ricostruzione in vitro, una piccola sfera con la neve in cui invece di esserci una slitta con scritto Rosebud ci sono le macchinine della polizia, vestiti vintage, mentre il racconto di quello che accade nel mondo ridotto a un paio di pezzi musicali di sottofondo: Patty Pravo e Raffaella Carrà.

La colpa di questo mai è che si sceglie di lavorare sull’astrazione. La storia diventa un puro piano platonico. I dialoghi si vorrebbero fare ipersignificanti, onnisimbolici, e così l’effetto è che spesso gli attori sono costretti a pronunciare battute tipo: “Noi infiltriamo destra e sinistra come il burro”, “Ora siamo proprio noi figli di queste province grigie e smemorate, “Quando ero nella ridente isola di Ventotene”. Più che calati in un’azione scenica, accade che gli attori siano facce truccate benissimo chiamati a leggere le dichiarazioni ritagliate dai giornali del tempo.

Il fatto che l’esito di questo sforzo non sia ridicolo deriva proprio da chi ha il merito di quel quasi, ossia gli attori. Favino anima da solo per antifrasi scene di una staticità da plastico di Bruno Vespa. Fabrizio Gifuni dà un’interpretazione di Moro da prova da attore. Ma anche Michela Cescon. Anche Valerio Mastandrea. Anche Stefano Scandaletti. Anche Denis Fasolo. Anche Omero Antonutti. Anche Fabrizio Parenti. Insomma tutti. (Tutti a dir la verità a parte Laura Chiatti, così chiaramente non portata per questo mestiere attoriale da sospendere ogni volta che partecipa a una scena quella sospensione di credulità dello spettatore; era già accaduto nell’Amico di famiglia per dire, rovinato dalla sua presenza eternamente fuori luogo). Ma la cosa che non funziona è che in questo film ognuno recita per conto suo. Ognuno con il suo registro, ognuno facendo leva sulla sua bravura e suoi mezzi espressivi. Favino su una recitazione naturalistica, Mastandrea tutto raggelato per mimare la compressione di una psiche praticamente bipolare, Gifuni calcando su un mimetismo che ne fa quasi un Noschese tragico, Fabrizio Parenti o Michela Cescon hanno una forza brechtiana, Giulia Lazzarini è profondamente commovente all’interno di un film in cui teatralità assume la sua accezione peggione… È come se ognuno avesse girato un film diverso e poi qualcuno avesse montato le scene insieme raccordandone i pezzi. E, non sentendo la forza dell’altro in scena, ciascun attore avesse cercato di fare il meglio che poteva. Il risultato è che la hall of fame degli attori italiani è come se facessero tutti dei cameo (in alcuni casi lunghissimi). Ma questa frammentazione di stili drammatici non si capisce sia un difetto di regia, o – più probabilmente – sia anche questo un difetto di una sceneggiatura tutta costruita in modo atomizzato (in nome forse anche qui delle buone intenzioni di raccontare tante cose, di dover sottolineare tanti particolari, etc…).

Così la domanda che uno si fa di continuo, mentre il film cerca di mettere insieme le tesi, è: dove sono le persone? Persone che non siano personaggi. Persone che non siano pupazzi che prendono le manganellate della polizia all’inizio o che vengono lanciate dalle finestre frantumate della Banca dell’Agricoltura.

No, non basta quell’elenco di quattordici nomi all’inizio, non basta l’intenzione di fare un film dedicato alle persone per fare un film sulle complessità della storia italiana. Perché la complessità è frutto non soltanto delle tante ferite che ci portiamo dietro, ma anche delle tante idee che ci siamo fatti crescendo in questi anni.

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