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Una premessa e otto tesi per essere (criticamente) molti in poesia[1] *

di Ennio Abate

Premessa Partiamo da qui: è crollata una chiara definizione dei confini della poesia, è stata svalutata dal prevalere della società dello spettacolo e dalla TV la lettura in generale  e lo studio di quei testi, che autorità riconosciute nel campo della critica e nella comunità dei poeti avevano fino a ieri garantito come  poesia. La poesia, come dopo un’esplosione, sembra disseminata  dappertutto: nelle canzoni,  nei testi di amici e conoscenti, nei poeti pubblicati dai massimi e dai minimi editori, nelle plaquette autoedite, sul Web…

Questa crisi ho cercato di leggerla attraverso il fenomeno dell’essere molti in poesia.Che è sotto gli occhi di tutti, ma rimosso, non pensato, poco indagato nei suoi aspetti ambivalenti, positivi e negativi. La proliferazione elefantiaca e  incontrollata delle scritture poetiche, parapoetiche o similpoetiche (Raboni) è dovuta a tanti fattori (sociali, economici e tecnologici) sui quali qui non posso fermarmi.[2]

Ma mi preme indicare come concausa anche il disarmo della critica. Che, tranne eccezioni, ha preferito affrontare la crisi della poesia (e di se stessa) tirando i remi in barca e vivendo di rendita, come fecero gli antichi mercanti borghesi che, durante il Seicento, nel periodo della rifeudalizzazione, diventarono proprietari fondiari e rinunciarono ai rischi “militanti”.

Il problema di cosa in tale produzione sia o non sia poesia (o se, non più dopo Auscwitz, ma dentro questa globalizzazione selvaggia, abbia ancora senso scrivere o fare poesia), non è stato neppure affrontato o non ha ottenuto  ragionevoli risposte. A sei anni  dai suoi inizi (2006) c’è da dire che il Laboratorio Moltinpoesia, nato per  capire proprio tale fenomeno, non è quello che dovrebbe essere: uno dei luoghi possibili della difficile progettazione di un essere (criticamente) molti in poesia; e neppure uno dei soggetti di una vera democratizzazione della poesia, un po’ diversa da quella deludente promossa dalla scuola di massa a partire dagli anni Sessanta e poi dall’industria culturale o spettacolare. In esso solo saltuariamente è stato possibile  discutere a fondo della crisi della poesia o delle sue cause (è dovuta al prevalere dei mass media, che poi sono una delle emanazione di Das Kapital o no? al venir meno delle Grandi Narrazioni, sulle quali la poesia in passato poteva appoggiarsi?  alla “mutazione antropologica” pasoliniana?  alla globalizzazione “selvaggia”  delle culture nazionali o locali?).

Non si è capito neppure a sufficienza che l’essere molti in poesia è uno dei segni della crisi della poesia e non la soluzione già trovata; e che una ipotetica democratizzazione della poesia (sulla quale mi va di scommettere, sapendo però che di scommessa si tratta…) è tutta da pensare; e richiederebbe di essere perseguita con strumenti adeguati. 

Se altrove la crisi della poesia si manifesta nelle ingessature elitarie o neosacerdotali, nel Laboratorio, data l’impronta democratica del suo progetto, s’è manifestata più spesso con spinte democraticiste. Che sono affiorate, ad esempio, in discorsi del tipo “tutto è poesia”, “ma a che serve la critica?”, “non esistono più canoni e, dunque, criteri per distinguere poesia da non poesia”. O in proposte (purtroppo astratte e mai seguite da iniziative conseguenti) di “evangelizzazione poetica” nei confronti di quanti “non leggono poesia” e andrebbero “sensibilizzati”. O ancora in vaghe intenzioni di fare del Laboratorio  uno strumento di rivalsa o di contestazione dei poeti esclusi o emarginati (che in effetti sono molti)  nei confronti di quelli affermati.

Non vorrei che  persino la scelta dell’immagine del Quarto stato di Pelizza da Volpedo come logo del fogliettone[3] o del blog, simbolo per me di un legame ideale con la tradizione del movimento operaio, avesse suggerito solo una facile e superficiale analogia con i molti in poesia
Il Laboratorio è stato vissuto perlopiù come una microcomunità più emozionale (come tante in verità) che operativa, nella quale si sta per uscire dalla solitudine, incontrarsi, leggere soprattutto i propri versi, ricevere incoraggiamenti. Non sarebbe una funzione in sé disprezzabile, ma certo è un suo uso improprio che non può essere predominante (a meno di non cercare nella poesia le consolazioni della religione o del gruppo terapeutico).
 
Nel 2012 l’ipotesi di partenza del Laboratorio Moltinpoesia pare reggere: esiste una nebulosa  di molti in poesia ampia, meno passiva rispetto al tradizionale pubblico della poesia ed essa può/deve cercare la sua strada in poesia (o accertarsi che è bloccata e  indirizzare altrove le sue energie). Ma lo deve fare tenendo conto che la poesia è in crisi; e che ambivalenze, velleità,  narcisismi, passiva adozione di modelli poetici assunti criticamente non giovano. Va detto onestamente e senza pietismi o diplomatismi che non tutti, ma molti dei molti, in poesia cercano di entrarci col piede sbagliato. È come se s’introducessero in una bottega artigiana, che non hanno mai visto o di cui sanno per sentito dire, ma subito pretendono di  usare gli attrezzi che lì  trovano, rifiutando il necessario studio che l’arte poetica di un tempo richiedeva anche solo per essere compresa. Va detto pure che molti dei molti spesso non entrano neppure nel reale terreno  storico che fu della poesia, ma seguono  piste diverse, quelle più di recente aperte dalle avanguardie o dalle neoavanguardie. In questi casi è come se la poesia la si afferrasse già nella vita (nelle emozioni,  in una sensazione, in un’intuizione) e che si  debba semplicemente trascriverla o esprimerla solo improvvisando e mescolandola con altre forme espressive: dal cabaret  al teatro, dalle arti visive alla vocalità o alla gestualità. E in molti dei molti, infine, è strabordante la coazione a partecipare, a pubblicare o a non aspettare, a non confrontarsi con  gli altri, a cercare soprattutto amici di solito dal facile applauso. Ci si occupa insomma della poesia in preda a passioni oscure che non  vengono mai, neppure nella scrittura, sufficientemente chiarite. Insomma, la discussione del Laboratorio Moltinpoesia  tra 2006 e 20012 ha mostrato quanto  un progetto (poco definito al suo nascere o poco inteso da chi vi ha aderito?) calamiti  ideologie e immaginari che potrebbero arricchirlo solo a patto che  si riesca a orientare le energie e a lavorare dentro la realtà, assumendosene la fatica e i rischi.
 
Parafrasando il Fortini del «Non esiste un Petrarca per tutti», dobbiamo dire  più decisamente che non esiste un Parnaso per i molti. Tra l’altro  esso oggi  è alquanto diroccato, anche se quelli che ci stanno o ci sono entrati per il rotto della cuffia effettivamente danno mostra di scacciare i molti  e di arruolare solo alcuni giovani sacerdoti per l’improbabile pomerio dei veri Spiriti Magni. E tuttavia, quelli che sono o si sentono esclusi e, come la volpe di Esopo, dopo alcuni salti vani rinunciano all’uva, possono autorizzarsi da soli e dichiararsi poeti o con una qualche pubblicazione o con una rivista o con un blog, insomma con un Parnaso  fai-da-te, che è evidentemente un surrogato di quello - ripeto - diroccato e cadente? O ricopiare sempre più stancamengte il gesto ribelle dell’avanguardismo?
 
In ogni caso il vero problema è che la crisi della poesia come istituto si fa sentire sugli uni e sugli altri, sui pochi e sui molti. È come se fossero impraticabili le strade sia del ritorno ad un passato idealizzato sia della proiezione in un futuro delineato almeno in alcuni suoi contorni. Siamo in mezzo al guado. E ci dibattiamo  tra mito delle origini e nevrosi della fine[4]   o   nello stagno della post-poesia e dell’epigonismo, come denuncia Giorgio Linguaglossa,[5] o tra rifondazione ed esodo (come tendo a dire io). Per riflettere assieme su questo blocco della ricerca poetica e critica ecco otto tesi tutte discutibili e da discutere…
 
 
1. Essere molti in poesia è prendere atto che non esiste  una sola poesia

Perché essere molti in poesia e non semplicemente essere in poesia[6] ? Perché la poesia non è (mai stata) una; e non è neppure il luogo dove una pluralità di soggetti la producono convivendo rispettosamente tra loro. Sono esistite in altri tempi (forse più limpidi se non tranquilli) le patrie lettere. Non esistono oggi. Né abbiamo una ONU della poesia mondiale né un internazionalismo poetico, ma solo una “Babele poetante” che ricalca in piccolo la Babele globalizzata. La poesia resta, almeno a partire dall’Ottocento, un campo disomogeneo in sé e dai confini variabili e di continuo ridefiniti sotto le spinte più varie (nobili e meno nobili). In poesia un’opposizione storica - pochi /molti - per me resta significativa. Il suo campo, infatti, ora sembra restringersi e iper-formalizzarsi per il prevalere nei singoli o nei gruppi organizzati che vi intervengono di una visione elitaria; e ora  sembra ampliarsi sotto la pressione di spinte democratiche. La crisi della poesia può essere letta, dunque, anche alla luce di tale opposizione. In poesia ci si aggrega e ci si divide, ci si confronta e ci si scontra anche nel voler essere pochi o molti a farla o a parlarne.[7]

Non esiste, insomma, una Casa della poesia nella quale abitare tutti in santa pace, come pur ciascuno nel profondo di sé magari desidera.  E perciò, come in tutti gli altri campi della vita,  le persone reali che, dall’epoca moderna in poi, s’occupano di poesia (poeti, lettori, pubblico che segue le iniziative, critici, contestatori della poesia) di continuo, generazione dopo generazione, stabiliscono e ristabiliscono valori, gerarchie e mode al posto di valori, gerarchie e mode concorrenti o opposte alla propria (elitaria o democratica), che del resto alludono a concezioni diverse non solo della poesia ma dei rapporti  sociali possibili nel mondo storico. 

 
 
2. Essere molti in poesia non significa che lo siamo già: è una contraddizione da gestire e un progetto da costruire
 
Il termine moltinpoesia contiene in sé una contraddizione. Essere molti in poesia è come  voler essere molti in cima a un monte (magari il Parnaso) o voler abitare dentro un vetusto edificio, costruito secoli fa e pensato per soddisfare le esigenze di pochi (malgrado  una secolare ideologia universalistica che va dal Convivio ai nostri giorni).  Non è possibile. Già Fortini ammonì: non esiste il Petrarca per tutti. E coerentemente le avanguardie artistiche del primo Novecento, quando assaltarono la Casa della Poesia di allora, mirarono a distruggerla non ad abitarla. Sapevano  bene che i molti non potevano starci e avevano bisogno d’altro. Mirarono a una rivoluzione, non a un cambio di proprietà. (Anche se poi, sconfitti, quando non si suicidarono, ripiegarono e si adattarono a spodestare  i precedenti inquilini per mettersi al loro posto. Anche se nessun esercito “proletario” raggiunse mai il terreno dove le avanguardie avevano distrutto/innovato. Anche se una poesia per tutti, sognata ad es., da Eluard non ci fu).
 
Va aggiunto  che la crisi non tocca solo i molti in poesia  ma anche i pochi in poesia. Dopo i tentativi rivoluzionari delle avanguardie primo novecentesche, non c’è stata  più la Poesia di prima o di sempre; e la crisi non ha fatto che prolungarsi fino ai nostri giorni. I molti che sono entrati in poesia hanno trovato un campo in crisi e comunque organizzato per le esigenze di pochi.  Hanno cercato dei maestri e non ce n’erano più.  Oppure i pochi  vecchi maestri sopravvissuti non davano risposte ai loro bisogni. S’era rotta, già  attorno agli anni Settanta, una continuità nella stessa trasmissione dei saperi poetici. E, dunque,  l’ingresso disordinato e inquieto dei molti in poesia ha trovato una situazione disordinata e caotica: la stessa,  di cui soffrono le pur recidive  corporazioni nepotistiche. (Un processo simile è  accaduto anche nella scuola. Dalla ventata del ’68, quando i molti, prima esclusi dalla scuola “di classe”, vi penetrarono tentando  senza riuscirci di cambiarla, la scuola non è più quella di prima, malgrado le  apparenze, ma geme in perpetua crisi. Per non parlare più in generale della democrazia…)
 
 
3. Essere molti in poesia è soprattutto essere laboratores di poesia (essere in laboratorio), più che oratores della Poesiasacerdotale o bellatores della Poesia d’avanguardia
 
Per correggere un’immagine ingenua o falsata dell’essere molti in poesia,  bisogna dare importanza all’idea di laboratorio (tra poeti e poeti, tra poeti e critici ed altre figure ancora…); e quindi al lavoro, ad un’attività niente affatto  naturale o spontanea, priva di ostacoli e soprattutto non romanticamente solitaria. Solo in un’attività di laboratorio le due spinte fondamentali del fare poesia - quella espressiva dell’ ‘io’ (privata, individuale, apparentemente libera) e  quella pubblica del ‘noi’ (sorvegliata, critica, pedantemente normativa) - potranno ritentare un confronto. Il laboratorio  può/deve funzionare da cerniera  tra il momento della ricerca in solitudine dei singoli poeti e il momento dell’incontro con gli altri. Avvertenza: ma non è facile costruire un buon laboratorio, farne un luogo di cooperazione, imparare da altri  ed insegnare ad altri su un piano  di rapporti tendenzialmente paritari, malgrado differenti orientamenti e tensioni inevitabili. Non basta avere delle buone intenzioni o rispettare con convinzione una logica democratica di comunicazione tra singoli e singoli, e poi  tra il singolo e il  gruppo (che ha dinamiche proprie), e infine del gruppo in rapporto  ad altri gruppi. Non basta concordare sull’obiettivo di moltiplicare le potenzialità costruttive reali  di tutti quelli che entrano nel  discorso  che si va costruendo. Anche nel laboratorio e nelle posizioni dei singoli echeggerà la medesima tensione tra molti e pochi.
 

4. Essere molti in poesia è ricongiungere il fare poesia col fare critica
 
Bisogna riaccostare il fare poesia al  fare critica e non, come accade oggi, separare o contrapporre le due funzioni. E non perdere di vista la ragione  profonda del loro “starsi addosso” anche in passato. Oggi si finge che non sia così o che non sia più possibile. Eppure  poesia come espressione e poesia come critica convivono quasi dall’inizio. Ciascuno s’accorge di stare tra due fuochi contrapposti: dell’esprimersi  e del censurarsi, del dire senza freno e del dire controllato, dell’ascoltarsi e del non ascoltare gli altri, del criticare e non criticare, del sottoporsi alla critica e dell’averne timore. Ma è solo  un’ideologia (romantica o classicista) che induce ad isolare l’espressione rispetto al controllo formale o viceversa.  È vero, oggi  l’alleanza, mai priva di contesa,  tra poesia e critica non è affatto facile. Entrambe sono boccheggianti. Né la situazione incoraggia. Ma bisogna insistere. Non si può poetare né criticare azzoppando uno dei due piedi o saltellare su uno solo.


5. Essere molti in poesia è rendere scorrevoli i rapporti tra livelli alti medi e bassi del fare poesia (o parapoesia o similpoesia)

Nei molti che oggi vogliono fare poesia ci sono differenze reali di preparazione e di consapevolezza dei problemi della poesia.  Parafrasando Spinoza, che si riferiva alla lingua, potremmo però dire che la poesia «è conservata contemporaneamente sia dal volgo che dai dotti» e che il suo senso è prodotto dall’uso che ne fanno sia i più «dotti» che i più «ignoranti». Se alcuni poeti o poetanti ne sanno più di altri,  questo non significa che la loro conoscenza debba servire a istaurare rapporti di obbedienza o di timore reverenziale. Eppure realisticamente è questo che accade il più delle volte. Il fatto che poeti di lunga pratica o con talento straordinario scrivano ottime poesie sarebbe un arricchimento per gli altri, perché accedono a un patrimonio di saperi di cui godere e da sfruttare. Ma, affinché i molti in poesia possano inoltrarsi sui percorsi aperti dai grandi poeti, c’è bisogno che venga corretta (non ci illudiamo di superarla a parole!) la divaricazione fra specialismo e dilettantismo, fra «eccellenza» e «mediocrità», fra «uomini di qualità» e «uomini senza qualità». E qui c’imbattiamo purtroppo nel’area scivolosa degli utopismi che hanno caratterizzato molto Novecento “democratico”; e che hanno fatto cilecca. Qui il discorso  sulla crisi della poesia va intrecciato per forza  di cose con dei bilanci severi della crisi del progresso, della democrazia e del fallimento del comunismo. Le semplificazioni e i dubbi sono in agguato. Come si fa a predicare la democrazia in poesia, se la stanno azzerando nella società? Che senso ha portare i molti in poesia mentre la poesia quasi non c’è più? Non  è possibile placare dubbi e scetticismi con risposte rassicuranti. È possibile solo  reggere la contraddizione, scommettere su ciò che pare il meglio  senza abbandonarsi al nichilismo e vedere cosa avverrà. Anche se  i tempi sono bui, almeno si può scommettere. E nel frattempo tentare di rendere fluidi i contatti tra espressioni e discorsi che si sviluppano ai piani alti, medi e bassi della ricerca. O mettere in relazione le singolarità “forti” e quelle “deboli”, affinché qualcosa possa pur scorrere in una direzione e in quella inversa, non irrigidire le differenze,  non ingessarle o  considerarle insuperabili, fino cancellarsi a vicenda e a chiudersi in pose identitarie o di superbia statuaria o di tragicità orgogliosa. Ecco perciò la necessità di una  presa di distanza da entrambi gli snobismi più incalliti  (quelli elitari e quelli democraticisti), refrattari entrambi non solo al confronto ma persino allo scontro; e alla fine tendenti al ghetto (o dorato o plebeo). Bisogna puntare agli scambi, alle dialettiche ( ma non più a senso unico, come quelle progressiste o pedagogiche, che spesso sono partite dall’alto di una Tradizione per depositarsi nel basso della quotidianità, verniciandone la miseria senza però rivitalizzarla).
 
 
6. Essere molti in poesia è costruire  una nuova estetica
 
Uno dei punti massimi di resistenza sta nella difficoltà di apprezzare  il bello di essere molti. Lo so che l’espressione è quasi scandalosa, perché nella cultura e nella poesia italiana persiste una illustre tradizione di  sensibilità anti-molti (ridotti a folla o a masse informi sempre e solo minacciose). Uno dei rappresentanti  di questa solidissimo pregiudizio fu Eugenio Montale. Ma tutta la storia letteraria e la storia tout court ci mostrano esempi a iosa di un elitarismo, ora occulto ora mascherato; e anche nella Sinistra che si è voluta democratica. E perciò è davvero arduo smantellare un monumento ideologico tanto imponente. Che esistano empiriche, storiche ed accertabili differenze di qualità fra i testi o fra le facoltà degli individui, che non si debbano negare le gerarchie fra bello e brutto, riuscito e non riuscito, mi pare indiscutibile e facile costatazione. Ma accettabile solo a due chiare condizioni: - che esse, da provvisorie e accertate nella realtà, non diventino permanenti e “naturali”; - che non si taccia sul grado di violenza che comunque fissano a livello simbolico (e quasi sempre a vantaggio dei pochi).
 
Potranno mai ‘eccellenza’ e ‘mediocrità’ avere un altro senso (includente e non escludente)? Non so dirlo. Diffido sempre più sia delle facili proiezioni utopiche sia del realismo statico. Mi pare giusto riconoscere e anche valorizzare tutte le possibili differenze, senza però irrigidirle per sempre  come fa il pensiero elitario (liberale, razzista, classista o sessista) e senza fissare - con un automatismo che ha profonde radici inconsce tutte da indagare - tale operazione  in gerarchie addirittura “naturali” del tutto indimostrate teoricamente. In poesia, dunque, mi  pare pensabile , anche se ardua come ho detto, una valutazione dei testi di chiunque secondo una dialettica fra riuscito e non riuscito. Come mi sembra possibile un andare avanti e indietro del pensiero critico fra livelli qualitativamente alti, medi, bassi e viceversa, senza limitarsi a  separare definitivamente e di netto l’eccellente dal mediocre (e dunque anche il poetico, dal parapoetico o dal similpoetico). Ripeto: non  si tratta di negare le gerarchie, ma di  non renderle statiche e respingenti. Non si può comunque continuare a difendere in poesia una qualità neutra, una bellezza neutra. Non solo perché a me pare continui ad avere  dei connotati troppo elitari. Ma anche perché le sue estensioni “democratiche” sono spesso soltanto un  annacquamento di valori nati dai modi di vita delle élite oggi impraticabili (insomma: il Petrarca per tutti). I modelli di questa bellezza neutra, continuamente riusati e quindi convalidati socialmente (prima attraverso la scuola e oggi soprattutto attraverso i mass media), diventano indiscussi e, automaticamente, con la loro evidenza materiale ed emotiva impediscono di porre il problema di una qualità e di una bellezza che sfugga a queste stereotipie consolidate. Certo una nuova estetica (che dovrebbe nascere da una nuova critica e da una nuova poesia) per affermarsi avrebbe bisogno di un linguaggio nuovo dei molti in poesia. Ma per ora è solo un auspicio. Non è certo quello semplificato sì, ma inerte, di cui i mass media c’invadono. E neppure, credo, vi possono rientrare quelli novecenteschi elaborati dalle neo e postavanguardie in lotta contro la banalizzazione mediatica inferta alla lingua di uso. O quelli neosacerdotali o orfici o neo orfici. Un linguaggio  nuovo (non oso dire ‘comune’ data l’inflazione ambigua  e appunto anch’essa democraticista del termine, specie negli ultimi anni) può forse venire solo da una piena espansione delle potenzialità positive (poetiche  e critiche) dei molti in poesia liberati dalle scorie di cui ho detto sopra.
 
 
7. Essere molti in poesia è  riusare criticamente ciò che è stato finora considerato poesia
 
 Non è stata mai esclusa dal Laboratorio una dimensione diciamo pure scolastica, educativa, pedagogica, che miri al “riuso” della poesia, come si faceva o si dovrebbe fare ancora in qualsiasi buona scuola o gruppo di lavoro. È una cosa semplice e ragionevole (o almeno lo fu in passato nei limiti  unidirezionali, che ho indicato, di una logica progressista e di un’educazione dall’alto verso il basso senza ritorno…). Avvicinare molti alla poesia resta un obiettivo “scolastico”, ma da prendere sul serio. Si tratta di capire però  che tipo di scuola non deve essere un Laboratorio che operi nella crisi della poesia. Questo per non illuderci che il contatto con la Bellezza dei capolavori ci faccia uscire dalla crisi della poesia (o per non farci ammaliare e distrarre …).
 
 
8 . Essere molti in poesia e essere pochi in poesia  sono ideologie della poesia
 
Questo dev’essere molto chiaro. Ci sono schiere di poeti pronti a giurare che la poesia c’è quando e  dove l’ideologia tace. E, quindi, a ritenere del tutto secondaria l’opposizione molti/pochi in poesia. Per loro  il problema della democratizzazione della poesia potrebbe riguardare al massimo la sua divulgazione e non il momento della sua produzione, che - dicono - è impensabile possa essere affidata ai molti; anzi è meglio che  sia attività in mano a quei pochi che la sanno davvero fare. Come ci sono schiere di critici pronti a sostenere che le loro argomentazioni teoriche  o estetiche sono neutrali  e al di sopra di qualsiasi ideologia. Come ci sono schiere di poeti o di poetanti che, stanchi di queste “chiacchiere” o “inutili polemiche” si rifugiano nella “poesia  fatta in casa”, nella poesia fai-da-te, espressione di  virtù private, solitarie o di esercizio che ciascuno esegue per conto suo e a modo suo, “liberamente”. Eppure, anche se il linguaggio poetico può allontanarsi di molto dalla lingua sociale fino a rarefarsi e la poesia è pensata e scritta da un singolo e non può essere, se non  per gioco,  costruita in immediata collaborazione con altri,  nel testo, alla fine di un complesso e mai  del tutto afferrabile processo, si sedimentano anche  (non dico solo o soprattutto) le ideologie dei molti o dei pochi, che il linguaggio sociale e persino quello poetico più rarefatto comunque conservano - o in modi evidenti o in modi celati - in sé nelle loro strutture più profonde. E poi , come tutte le altre pratiche umane,  la poesia è soprattutto istituzione pubblica. Poesia è solo ciò che in un determinato spazio e tempo certe istituzioni o comunità - quella dei poeti, quella dei critici, quella del pubblico o dei lettori -  autorizzano ad essere poesia; poi ciascuno  nel suo intimo potrà ritenere poesia un sospiro, un gesto, una sua parola, ma resterà poesia solo nel suo foro interiore  fino a che una qualche autorità - di governo o di opposizione della poesia,  ufficiale o antagonista - non riuscirà ad imporre quel sospiro, quel gesto, quella parola come poesia.
 

Nota. Sia lo schieramento dei molti (democratico) che quello dei pochi (elitario) possono essere portatori di  valide ragioni (o quantomeno di problemi irrisolti e magari rimossi dall’uno o dall’altro schieramento  o da entrambi). E sia un singolo (poeta o critico) che un gruppo possono ridimensionare di molto (ma mai abolire) l’ideologia di partenza, che comunque resta e permette di distinguere appunto testi e poeti anche secondo che siano portatori di un’ideologia dei pochi o dei molti.
 
*Una riflessione per la serata del 7 giugno 2012 Palazzina Liberty di Milano
 



[1] Il termine moltinpoesia è nato attorno al 2006, dopo un periodo di incubazione in cui avevo scritto sulla crisi della poesia da un’insolita angolazione: partendo cioè dal fenomeno dei  tanti “scriventi versi” o “poeti massa” o “similpoeti” o “irregolari”. In uno dei primi  incontri  di fondazione del Laboratorio, circolarono non senza scetticismo e autoironia i termini di “nebulosa poetante” e “moltitudine poetante”. Poi optammo per il più semplice (e augurale) molti in poesia assemblato alla fine in moltinpoesia.
[2] L’ho fatto in passato in Poesia moltitudine esodo pubblicato su Inoltre N.7 inverno 2003/2004 e ora leggibile qui: http://www.backupoli.altervista.org/IMG/POESIA_MOLTITUDINE_ESODO_2003.pdf
[3] Il fogliettone del Laboratorio Moltinpoesia è un foglio A4  stampato con brevi notizie, dizionarietto di poeti  e riflessioni. Ne sono usciti finora cinque numeri.
[4] Cfr. Gianluigi Simonetti sul blog Le parole e le cose: http://www.leparoleelecose.it/?p=5322
[5] Giorgio Linguaglossa, DALLA LIRICA AL DISCORSO POETICO, Storia della poesia italiana (1945-2010), Edilet, Roma 2011
[6] Come ha obiettato Patrizia Villani. Cfr. http://moltinpoesia.blogspot.it/2012/05/essere-moltinpoesia-in-vista-della.html
[7]La collocazione dei poeti o dei critici nell’una o nell’altra di tali categorie non è facile da stabilirsi perché in gioco non entrano solo fattori semplici  o accertabili sul testo (come ad es. la leggibilità o il contenuto), ma altri complessi o extratestuali (come ad es. il gusto, l’organizzazione della cultura, lo “spirito del tempo”, le mode spontanee o costruite). Spunti elitari e spunti democratici si possono ritrovare in varie misure in  autori di segno culturale e politico anche opposto.

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