Alessandro Baricco e lo Zeitgeist
di Emanuele Zinato
Criticare una voce autorevole di Repubblica equivale tout court a essere, più o meno consapevolmente, “di destra”? Credo di no, anche se molto è stato fatto, in Italia, negli ultimi vent’anni perché le cose potessero sembrare proprio così. Ultima: la larga ospitalità concessa da organi del berlusconismo, come “Il Foglio”, a voci del pensiero critico più indocile e eterodosso, come quella di Alfonso Berardinelli, che ai tempi di “Diario”, della satira contro Eco o Scalfari hanno fatto uno dei propri maggiori cavalli di battaglia. Ultimamente, nel mirino di questi ultimi, ai “guru” di “Repubblica” si sono aggiunti Fazio e Saviano. Personalmente, credo sia necessario distinguere. Credo a esempio che alla volgarità dei talk show urlanti e scosciati la sobrietà, sia pure “politicamente corretta” e talvolta stucchevole, sia di gran lunga preferibile. Credo, insomma, per dirla tutta, che i “socialdemocratici” fossero preferibili ai “fascisti”, che il parlamentarismo borghese, sia pure coi suoi infingimenti e il suo “terrore mite”, fosse più “abitabile” di una dittatura. Sulle responsabilità dei “consumi culturali” nella degenerazione populista e mediatica della nostra vita politica occorrerà, inoltre, prima o poi decidersi a spendere energie cognitive ideologicamente indipendenti e eticamente sensibili: servirà una storiografia critica, contro i luoghi comuni e contro l’oblio controllato, e una saggistica capace di partire almeno dagli anni Settanta (da Piazza Fontana, a esempio, film a parte). Ma non credo nemmeno all’utilità di un approccio adorniano fuori tempo massimo e so bene che le cose sono in generale più “complesse”: rinvio, per questo, alla mia verifica delle parole n. 1, Libertà e comunismo, pubblicata su LPLC.
Tuttavia… tuttavia non posso fare a meno parlare di Alessandro Baricco. L’ho già fatto, una volta, all’uscita di Oceano mare. Ho tentato in seguito in tutti i modi di convincermi che si trattava di un “efficace divulgatore”, uno tra gli altri, buono quanto e forse più di un altro.
Ho cercato di pensare, per attenuare e estinguere la mia allergia, alla mia stessa esperienza divulgativa e didattica, a scuola e poi all’università: alla mia necessità quotidiana di interagire con l’immaginario degli studenti, modellato dal rock e dai manga, di non lasciare intentate le vie, anche le più ibride, per far incontrare loro, in forme vitali, i classici.
Ora però Baricco è intervenuto alla bolognese “Repubblica delle idee” con una conferenza che prometteva “Le ultime indiscrezioni sui barbari”. A Piazza Santo Stefano lo ascoltava una folla attenta, onesta, ben disposta alla “civile conversazione”: non in venerazione ma in rispettoso ascolto. L’oratore, assai invecchiato rispetto ai tempi di “Pickwick,”, aveva dunque davanti a sé la sua senile e decisiva occasione per un’autocritica. Poteva dire “ebbene sì, le cose che ho scritto nel 2006 su Repubblica e che poi ho raccolto nel fortunato volumetto I barbari. Saggio sulla mutazione erano approssimazioni ad effetto, vere e proprie rimasticature di cose dette molto meglio da Benjamin, da Debord e poi persino da Lyotard svariati anni fa, e che io ho riadattato per il vostro immaginario distratto e incerto di lettori di gazzette. Confesso: in tal modo non ho rispettato la vostra parte più intelligente e attenta. Le mie rimasticature avevano, però, un pregio: bene o male divulgavano la “perdita dell’aura” e la condizione postmoderna, concetti che non tutti conoscevano. E’ vero: c’era già stato l’11 settembre, il postmoderno scricchiolava, la storia si faceva sentire di nuovo col suo volto di tritacarne, ma una bassa divulgazione ha pur sempre un suo quoziente di dignità. Ora, però, la crisi mondiale ha reso quei miei pretenziosi “bignami” già allora approssimativi e tardivi, completamente superati e del tutto inutili. Siamo mutati, ma assomigliamo di più, di nuovo, ai personaggi di Faulkner o di Conrad che a quelli di Walt Disney. Lo scenario è cambiato del tutto: ecco la vera indiscrezione sulla “mutazione” e sui barbari.
Così avrebbe restituito rispetto al rispetto ben percepibile nello sguardo franco dei suoi tanti ascoltatori. Invece no: Baricco esordisce col dire che quelle sue cose nel 2006 erano del tutto inedite, perfino pionieristiche, e solo ora, e proprio grazie al suo libro, sono diventate di dominio comune. Poi fa vedere su un maxischermo cinque minuti della partita Olanda/Uruguay del 1974 per mostrare in modo non confutabile come una delle due squadre in campo fosse a suo dire già “barbarica” e l’altra no, senza saperlo e anticipando i tempi. Infine riassume, malamente e senza pudore, i contenuti del suo vecchio libretto.
“Ciò che è percepito dai più, soprattutto da noi di sinistra, come un’apocalisse imminente è, in verità, il vero annuncio del futuro”. Per condensare questa oracolare verità in una efficace “immagine di pensiero” sottrae ancora una volta senza ritegno la metafora a Parise che, già nel 1975, nei suoi reportage da New York, parlava più o meno così della mutazione: “quelli che chiamiamo barbari sono una specie nuova, che ha le branchie dietro alle orecchie e ha deciso di vivere sottacqua”.
Nel supponente e ripetitivo discorso di piazza Santo Stefano, esattamente come nel volumetto edito da Fandango, è il palazzo imperiale di Google con i suoi milioni di links a fungere da emblema indiscutibile di mutazione. E la nota dominante di Baricco è, ancora una volta, l’euforia: “la mutazione è la fine delle mediazioni, ed è elettrizzante”: saltano le caste, evaporano gli intermediari mercantili, si dissolvono i critici letterari e i professori. Ma scompaiono anche i dirigenti d’azienda, i giornalisti, le guide turistiche e i preti. “Su e-bay puoi vendere la bici, l’auto, la moglie, su twitter le news girano da sole, e tutto questo è in sé liberatorio”. A dire il vero, tutta questa euforia sembra suscitare perplessità nel pubblico e lasciare di pietra lo stesso oratore, assai freddo nella mimica facciale, nel movimento oculare e nel timbro vocale. Perché ci sia da elettrizzarsi, infatti, non è dato sapere: il messaggio non passa per merito di un’argomentazione falsificabile o condivisibile ma grazie a un mix di sapienza oracolare e di brutale ricatto. Poiché tutti siamo nella metafisica della Grande Mutazione, non possiamo opporci a ciò che ci arriva addosso, che ci pervade, che è ignoto e che chiamiamo barbarie: se vogliamo vivere, dobbiamo sforzarci di considerarlo magnifico.
Una vignetta del grande Altan (ecco un vero “divulgatore”!) riassume e svuota esemplarmente la pochezza di questo assioma baricchiano: “E’ venuta l’ora di rivalutare la merda!” – dice un personaggio ‘rampante’ – “E quando mai è stata svalutata?” risponde Cipputi.
Tutto ciò che è accaduto di recente nel mondo ha cittadinanza per Baricco solo se assunto in questo schema euforico: la “primavera” araba, a esempio, è solo un riflesso dell’immaterialità di Google, della sua velocità e immediatezza. La pesantezza dei morti, il rumore degli spari, l’angoscia della disoccupazione, la tirannia del monetarismo, la democrazia umiliata a intrattenimento…Di tutto questo non c’è traccia alcuna nella meraviglia barbarica e nella elettrizzante fine delle mediazioni postulate da Baricco. Non c’è nemmeno, ovviamente, un briciolo di autocoscienza del proprio ruolo nel campo culturale, del fatto che chi parla è legittimato a farlo come mediatore, dunque come specie in estinzione, e che la stessa festa in cui ha preso la parola voleva essere un atto di mediazione culturale. Quanta mediazione nell’immediatezza! Quanta ideologia nella morte delle ideologie! “E sotto quella cera, senti il teschio” (Franco Fortini). L’argomentazione laica e democratica non doveva essere un connubio di retorica e prova? In Habermas, in Perelman in Ginzburg e già in Keynes? Qui, invece, e proprio come nei discorsi di Berlusconi, (un altro “grande comunicatore”!), si assiste al dominio assoluto della fiction, delle sequenze di asserzioni non disposte a essere smentite, del discorso inteso come puro spettacolo.
È legittimo a questo punto chiedersi: tutto ciò è di destra o di sinistra? Diciamo innanzitutto che è un imbroglio: è assenza di civile argomentazione, lamentata già da Leopardi. Ben esemplifica inoltre il penoso attardarsi di una parte della cultura italiana nelle mitologie del postmodernismo: un po’ come negli anni Settanta alcuni intellettuali erano in attesa di una “elettrizzante” rivoluzione maoista nel momento stesso in cui la Fiat riarticolava il lavoro e nella società prevalevano i ceti medi. Di certo, c’è solo il fatto che, nello spazio tragico spalancato davanti a noi, non c’è alcun futuro per Alessandro Baricco.