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Le pieghe del mondo

Fabio Ciriachi

Non ho conosciuto di persona Franco Fortini, a parte una volta, ad Arezzo, nell’88, quando ha accettato di  partecipare alla rassegna di poesie “Confluenze”. Nel corso degli anni, però, ho letto molti suoi libri che qui elenco tanto per stabilire, fin da subito, una possibile bibliografia comune.

POESIA: Una volta per sempre, Mondadori, 1963; Poesie scelte 1938-1973, Mondadori, 1974; Foglio di via, Einaudi, 1980; Paesaggio con serpente, Einaudi, 1984; Versi scelti 1939-1989, Einaudi, 1990; Composita solvantur, Einaudi, 1994; Poesie inedite, Einaudi, 1997.

SAGGI: Verifica dei poteri, Garzanti, 1974; Questioni di frontiera, Einaudi, 1977; L’ospite ingrato - Primo e secondo, Marietti, 1985; Insistenze, Einaudi, 1985; Saggi italiani 1, Garzanti, 1987; Nuovi saggi italiani 2, Garzanti, 1987; Extrema ratio, Garzanti, 1990; Non solo oggi, Editori Riuniti, 1991; Attraverso Pasolini, Einaudi, 1993; Breve secondo Novecento, Manni, 1996; Disobbedienze 1, Manifestolibri, 1997; Un dialogo ininterrotto - Interviste 1952-1994, Bollati Boringhieri, 2003.

Per ridurre la mia incolmabile distanza dalla forza mentale di Franco Fortini, vera e propria voragine che mi rende difficile tradurne la ricchezza teorica a un livello di quotidiana applicabilità politica, mi gioverò dell’aiuto di Piergiorgio Bellocchio, che con Fortini ha condiviso la stagione dei Quaderni Piacentini (e non solo), e che è da questi ricordato nella poesia “Dove ora siete…”,

sorta di piccolo Pantheon di assenze ultime, compresa in Composita solvantur, la raccolta del congedo uscita pochi mesi prima della morte: “Dove ora siete, infelici studenti, / nelle sere delle nevi vane, / aule nere, Siena, di conventi, / trattorie di salsicce, cacio, pane… / * / E anche tu, Giacomo, te ne sei andato via / nel vello di te medesimo impigliato. / Piangere non sai più sai solo leggere / e in tuo terrore quasi piangendo leggi. // E vattene anche tu, Alfonso e tu Pier Giorgio / e tu Grazia che ormai / e Elio e Raniero e Vittorio / e quanti ancora. // Vengono, siedono nella poltrona sdrucita, / chiedono il portacenere, vogliono sapere. // Alla porta li accompagno con un benevolo sorriso. / E «tornate» dico a quelli che non torneranno”, testo che evoca dolorosamente, nell’intimità del solo nome proprio, figure fondamentali nella complessa storia politico letteraria di Fortini, quali Noventa e Berardinelli, Bellocchio e la Cherchi, e ancora Vittorini, Panzieri, Sereni.

Il brano di Bellocchio cui dicevo di voler chiedere mediazione è contenuto alle pagine 27 e 28 del suo Al di sotto della mischia - Satire e saggi, uscito nel 2007 presso Libri Scheiwiller. Ha per titolo “Che cosa si vuole cambiare” e dice quanto segue: ”Chiacchiere di stagione con un vecchio compagno: il congresso del Pci, le imminenti elezioni amministrative… Cerco di portarlo a convenire con me che ormai l’omologazione dei valori è totale e che non c’è nel Pci, né in alcuna altra forza politica d’opposizione, la minima idea e la minima volontà di cambiamento. Il vecchio compagno è rimasto – caso raro – il ragazzo di trent’anni fa. Non ha mai perso la fede né il gusto della militanza: nel Pci, con cui ha spesso avuto aspri scontri senza mai abbandonarlo, e in qualunque nuova causa o istanza purché di sinistra, dal movimento studentesco ai radicali, dai palestinesi ai sandinisti, dalla guerriglia alla non violenza, dalla teologia della liberazione ai verdi; sempre all’opposizione, senza averci mai guadagnato niente (neanche il prestigio di piccolo leader locale); invulnerabile a tentazione di carriera e soldi, povero senza invidie o risentimenti. Non controbatte i miei argomenti, sembra condividere le mie contestazioni. Alla fine, prima di salutarci, mi dice: «Lo so che non c’è da aspettarsi niente da questi qui, anche se continuo a votarli. È da una vita che ci litigo, a molti gli ho tolto la stima…». Una pausa, e poi con un sorriso che non riesce a non essere amaro: «Ormai desidero solo questo, che le stesse cose che fa la nostra giunta comunale di pentapartito le facesse una giunta rossa, e le stesse cose che fa il governo di Andreotti e Craxi le facesse un governo con Occhetto e Ingrao… Di più non posso sperare, ma mi basterebbe…». Credo che le sue ingenue, disarmate parole esprimano sinceramente il sentimento e le convinzioni di moltissimi uomini e donne di sinistra, dall’operaio al padroncino, dalla casalinga all’intellettuale. Ma quanti di costoro (di noi) ne sono consapevoli e disposti ad ammetterlo? Per quanti di noi, e in che misura, il fatto che non si voglia il cambiamento rappresenta una sconfitta, una delusione, un rimorso, o non coincide invece con i nostri interessi? Da quanto tempo le cose stanno in questi termini?”.

La domanda che Bellocchio si pone – e conforta che se (e ce) la ponga, anziché scagliarsi, con sufficiente scorta di munizioni e anatemi, contro il compagno che sbaglia – apre uno scenario di ulteriore decifrazione nell’ampio panorama del confronto/scontro teorico politico a sinistra che ha contraddistinto – tra diaspore, rotture, scissioni, condanne irrevocabili – buona parte della seconda metà del secolo scorso e in parte anche gli inizi del presente; e che, temo, dividerebbe altrettanto aspramente, oggi, quanti tentassero di dare a quegli eventi una qualche aggiornata collocazione. La non facile sincerità di Bellocchio, d’altronde, ben si sposa con l’altrettanto esplicita – quasi ostentata, a volte – sincerità di Fortini. Si legga, a riprova, cosa dice il capitolo “Carte bianche” di Extrema ratio (pag. 16): “Doveva essere proprio lui (T.S. Eliot, n.d.r.), uno dei poeti che mi sono più odiosi (al punto di farmi godere con bramosia ogni riga critica che lo diminuisca) ad aver detto, in Sweeney Agonistes, il fascino orrido del telefono e in quei versi di Animula una verità oggi tangibile: carte disordinate e stanza polverosa”. Cosa colpisce di questo passo? Intanto la contraddittoria copresenza di odio e ammirazione nei confronti di Eliot, un odio che spinge Fortini a “godere con bramosia di ogni riga critica che lo diminuisca”, diminutio che egli non si limita ad agire in prima persona (non gliene mancherebbero certo gli strumenti), ma che vive soprattutto in maniera mediata, fin quasi a trasformarsi in una sorta di committente occulto, e più che compiaciuto (“con bramosia”) di condanne altrui. Consideriamo un attimo, a riprova dell’alta eticità che ha sempre contraddistinto la vita di Fortini, la valenza, proprio in campo etico, di questa affermazione. Nessun timore di rendere pubblico un poco gratificante ritratto di sé colto in pieno esercizio di invidia; quindi la scelta di non nascondere il problema, come farebbero i più, ma di assumersene la responsabilità attraverso confessione pubblica, così da non rendersi complice del proprio difetto e, già solo per questo, da depotenziarne la portata. Quanto all’utilizzo di “odioso”, non lo considererei grave. Mi torna in mente, in proposito, un documentario sull’IRA visto a cavallo tra i Sessanta e i Settanta. Rispondendo a una domanda sui criteri di selezione nell’arruolamento dei volontari, un dirigente del movimento racconta che, a conclusione delle prove, veniva rivolta ai candidati la seguente domanda: “Per quale ragione vuoi far parte dell’IRA?”. Chi avesse risposto “perché odio gli inglesi” sarebbe stato scartato. “L’odio è un sentimento” spiega l’intervistato “e come tale mutevole. Una lotta armata non può fondarsi su ragioni così labili”. Ecco, pare chiaro, allora, quanto il labile odio di Fortini assuma una funzione davvero secondaria di fronte alle fondate buone ragioni che, invece, sostengono la sua ammirazione per Eliot, e che nel passo prima citato lo costringono ad ammettere, con incontenibile rammarico: “Doveva essere proprio lui…”, rendendo la sua sincerità davvero esemplare per quanto specchiante coraggio essa c’insegna.

La rilettura di Fortini, concentrata ora soprattutto sulle due ultime opere non postume, Extrema ratio e Composita solvantur (significherà qualcosa che entrambe portino titoli in latino?), oltre a porre di fronte al Fortini delle conclusioni spesso amare ma mai rassegnate (“Mutare il ribrezzo in lucidità, la speranza in certezza” recita, tra l’altro, il sottotitolo di Extrema ratio) mi spingono, malgrado sappia di essere in irrimediabile ritardo, a riconsiderare con maggiore (se)verità la mia lunga partecipazione (una vita, direi) nelle vicende per lo più periferiche della sinistra (non parlerei di militanza per il modo sostanzialmente edonistico e improvvisato del mio impegno); partecipazione che ha sempre oscillato – me ne rendo conto solo ora, o meglio, solo ora me lo so riconoscere – tra essere l’ultimo degli interlocutori possibili nell’area più alta e rovente del dibattito teorico (per difetto di competenze particolari e di vera passione nei confronti dello specifico), oppure stare tra i più avveduti e informati nella eletta e maggioritaria schiera dei compagni che – spesso, anche se non volentieri – sbagliano, e i cui errori, però, sono intessuti della stessa onesta e disinteressata coerenza con cui ha condotto la sua vita il compagno raccontato da Bellocchio. È solo ora, e grazie a una di quelle forme sussidiarie di insegnamento, implicite nel dettato di chi ha forte vocazione didattica e indubbie qualità maieutiche (Fortini le comprende entrambe), che posso legittimamente decidere di non più oscillare e, stabilita la non appartenenza ai luoghi dove risiedono quelli (sempre meno, oggi) che elaborano le analisi giuste e le linee guida conseguenti, collocarmi infine tra quanti tali linee, poi, avallano o respingono, e di cui i compagni che non sbagliano devono, se non vogliono scollarsi dalla base, tenere conto. D’altronde è stato dal cuore di uno di quei lontani paesaggi psicosociali, che solo ora mi decido a riconoscere come mio (allora lo vivevo alla cieca), che recensendo Insistenze nel numero 9 del 1985 di “Chimera – mensile aretino di politica e cultura” ho scelto di citare un brano (uscito nel ’78 sul Quotidiano dei Lavoratori) che, forse non a caso, mi sembra eloquente anche oggi. Scrive Fortini dopo il rapimento Moro: “Rifiuto di associarmi al coro unanime che dall’Osservatore Romano al Corriere della Sera, passando per l’Unità, chiede di non sottilizzare, di non distinguere, di non offrire coperture intellettuali al terrorismo. Il coro domanda in realtà la sospensione del giudizio critico. Vuole atti di fede. Non li compio. Non ho nessuna difficoltà a chiamare assassini gli assassini e a ritrarmene con disgusto. Ma rifiuto il tentativo di usare le parole unità, democrazia, nazione, bene pubblico come copertura di una azione politica, di quella, voglio dire, che ha portato ad un governo senza opposizione, dove convivono i rappresentanti degli sfruttatori e degli sfruttati, gli interessi degli assassini e quelli degli assassinati […] Un poeta ebbe a scrivere che, alla liberazione di Parigi, nel ’44, per non punire i colpevoli si rapavano le puttane. Per non punire o per non saper punire i colpevoli si dice oggi alle folle di scendere in piazza a sdegnarsi sugli assassini e a siglare il patto di unità nazionale. Bene, voto contro”. Più chiaro di così.

Ma oggi, oggi, quale voce può levarsi con altrettanta nettezza e rigore e autorevolezza dal campo pensante della sinistra per incitare a opporsi a una massificazione del consenso non dissimile da quella tentata al tempo? O ancora, sempre oggi, quanti, alle prese col nodo inestricabile israelo-palestinese riescono a sottrarsi alla tentazione di stagnare nella prospettiva etnico religiosa e tentano, invece, di ricondurre il problema, come Fortini ha fatto, in una dimensione di scontro di classe? E ancora, chi ha il coraggio, oggi, in ambito critico, di mettersi contro i canoni del contemporaneo coniando giudizi trancianti e però ineludibili come è possibile leggere in Breve secondo Novecento a proposito di Manganelli, di cui scrive: “La fatale monotonia di Manganelli, che annulla la novità sostituendola con la perenne sorpresa”, e di Gadda: “Gadda mi è sempre stato antipatico. L’eminente critico e filologo Gianfranco Contini afferma che di quello scrittore il centro è nella «lacerante delusione di un uomo d’ordine smentito dalla storia sua e di tutti». Non per nulla Gadda, nel suo Diario di guerra si scagliava contro i soldati che non avevano nessuna voglia di affrontare il pericolo e la morte. Certe laceranti delusioni, ecco, non mi commuovono affatto”, posizione, questa, che non gl’impedisce, poco dopo, di riconoscere l’eccezionale qualità de La cognizione del dolore che dice di preferire al Pasticciaccio “intriso di troppa piacevolezza” (quanto a quest’ultimo punto mi riservo ulteriori verifiche perché il discorso del coraggio non sussisterebbe, almeno non con queste motivazioni, se gli scritti fossero stati inediti fino alla loro pubblicazione in volume, avvenuta due anni dopo la morte di Fortini).

È anche per queste ragioni (e se ne potrebbero elencare ancora) che, come parte non significativa ma inesausta di una marcescibile base sempre più chiaramente orfana di teste pensanti, invito, in assenza di voci autorevoli che ci aiutino a mantenere una direzione, a tornare con urgenza a Fortini (che parli ancora in noi e fuori di noi, il più possibile), a quanto di illeso dal tempo, e non è poco, è contenuto nelle migliaia di lucide pagine che ci ha generosamente lasciato in eredità e che aspettano solo di riprendere a interrogare, puntuali, le pieghe del mondo che non sappiamo decifrare.

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