Print Friendly, PDF & Email

Un metodo pericoloso

Sabina Spielrein e il femminile rimosso della civiltà

di Leni Remedios*

Ogni uomo porta in sé la forma intera dell’umana condizione
Michel de Montaigne
[1]

Nel 1977, in uno scantinato del Palais Wilson di Ginevra, vecchia sede di un prestigioso Istituto di psicologia, viene ritrovato uno scatolone colmo di documenti. Il ritrovamento è il frutto casuale di un paziente lavoro di ricerca capeggiato dall’analista italiano Aldo Carotenuto. Di cosa si tratta? Lo scatolone contiene frammenti di diario e un carteggio importante fra tre soggetti: il padre della psicanalisi Sigmund Freud, il suo discepolo Carl Gustav Jung, in seguito allontanatosi per fondare una nuova teoria e una certa Sabina Spielrein, psicanalista ed autrice del diario.

Il materiale porta ad emersione particolari finora sconosciuti sulle vicende storico-biografiche dei tre personaggi, vicende che hanno inciso in maniera inequivocabile sugli sviluppi teorici di ognuno di loro. Ciò che viene alla luce turba e sconvolge talmente il mondo intellettuale da stimolare una lunga serie di saggi, opere teatrali e cinematografiche, di cui il film di Cronenberg, Un metodo pericoloso, rappresenta solo l’ultima appendice. Insomma, anche figurativamente parlando, Sabina Spielrein – dimenticata, rimossa, incompresa – emerge dal sottosuolo della civiltà, dall’inconscio della storia della psicologia, simboleggiato così bene dallo scantinato del palazzo ginevrino, per rivendicare la sua verità.

Sabina Spielrein è il perturbante [2] della storia della psicoanalisi. Il primo dei lavori a lei dedicato è naturalmente il libro di Carotenuto, Diario di una segreta simmetria. Sabina Spielrein tra Jung e Freud.

Uscito nel 1980 e presto tradotto in numerose lingue, esso contiene le lettere scambiate fra i tre [3], quanto ritrovato del diario di Sabina Spielrein ed ovviamente la propria visione critica dell’intera vicenda. Fondamentalmente su questo testo si basa il film di Roberto Faenza Prendimi l’anima, uscito nel 2002.

Ma chi era Sabina Spielrein? E la sua testimonianza parla a noi, uomini e donne della civiltà contemporanea? A malincuore ella rimane per i più “l’amante di Jung”. Aldo Carotenuto riporta, con profondo rammarico, il fatto che la principale preoccupazione del pubblico, ad ogni sua presentazione del libro, fosse se Jung e la Spielrein avessero avuto rapporti sessuali. Intendiamoci: quello a cui si rivolge Carotenuto non era un pubblico generico, egli si rivolge ad intellettuali, principalmente psicologi e psicanalisti. “Dobbiamo domandarci perché gli analisti sembrano ossessionati (corsivo mio) da questo punto che delle volte sembra essere non un problema, ma il problema per eccellenza” [4]. Non è questo il punto, dice Carotenuto. Ed infatti l’eventualità non avrebbe aggiunto o tolto nulla, ad un rapporto che di sicuro aveva la dimensione totalizzante dei grandi amori, in cui le due personalità erano in una simbiosi animica sorprendente.

Senza contare che da un pubblico di intellettuali ci si aspetta che si indaghi a fondo sulle ripercussioni teoriche che una personalità come Spielrein abbia avuto sui fondatori rispettivamente della psicoanalisi e della psicologia analitica, discipline in cui, lo puntualizzo per il lettore non avvezzo a certi temi, sussiste un corto circuito assente in tutte le altre scienze: il soggetto e l’oggetto dell’indagine sono lo stesso, è l’uomo che indaga l’uomo [5].

Il film di Cronenberg prende spunto da un libro uscito nel 1993, A most dangerous method, scritto da John Kerr, uno psicologo clinico americano. Christopher Hampton, sceneggiatore di Cronenberg, ne trasse una piece teatrale che il regista canadese volle in seguito portare sul grande schermo. Il testo di Kerr, che appone al titolo una sottile differenza enfatica rispetto al film (“Un metodo molto pericoloso”, tratto da un’espressione di William James), parte dalla scoperta di Carotenuto per avventurarsi in una favolosa opera di contestualizzazione storica del materiale emerso. Già qui si rivela infatti una differenza fondamentale fra il testo ed il film: il lettore sappia che si tratta di due cose profondamente diverse e forse, nella leggera modifica del titolo, Cronenberg intende già manifestarlo.

Il film di Cronenberg – per inciso, non certo uno dei suoi migliori – prende il triangolo Jung-Spielrein-Freud e lo isola completamente dal contesto. I pochi altri personaggi che compaiono nella scena, come la moglie di Jung oppure Otto Gross, che mise seriamente in crisi Jung sulle proprie inclinazioni poligame, sono delle mere tangenti rispetto a quel che interessa della storia.  Il testo di Kerr, al contrario, è infatti corale: esso esamina tutti gli attori che hanno movimentato le scene di quegli anni fatidici per la storia delle dottrine psicologiche e, osiamo dire, per la storia della civiltà occidentale [6]. Il pregio di questo testo risiede nel ricostruire dettagliatamente e scientificamente i fatti di quegli anni, con la resa narrativa di un romanzo.

Una delle scene chiave del film, che manifesta l’intento del regista, è quella in cui Freud sviene dinanzi a Jung (secondo svenimento, il primo avvenne alla vigilia del viaggio in America): qui Cronenberg sceglie di ambientare la scena alla fine di un imprecisato incontro fra studiosi, dove, nell’atto di raccogliere le proprie carte, tutti se ne vanno lasciando soli Freud e Jung a discutere. Potrebbero essere delle macchie indistinte ad andarsene, sarebbe la stessa cosa. Nella realtà si trattò di una riunione molto vivace che si tenne in un hotel di Monaco, dove tutti presero la parola, soprattutto in merito alla figura egizia del faraone Amenhotep, che secondo Freud covava desideri parricidi. Freud fece ovviamente di tutto, nell’occasione, per rimarcare l’ingratitudine del “figlio ed erede” Jung, sempre più orientato verso una propria nuova teoria e i dietro le quinte di questa riunione sono anche più interessanti al riguardo [7]. Alla fine della discussione la tensione sfocia nello svenimento.

Una metafora efficace per far capire la dinamica della storia di Sabina Spielrein all’interno di questa coralità, è quella del telaio: dobbiamo immaginare la Spielrein come la navetta che si muove fra le trame e gli orditi, ovvero fra i fili tenuti assieme dal telaio. Ogni trama ed ogni ordito – i singoli protagonisti – vengono accuratamente esaminati e sviluppati da Kerr. Non solo Freud e Jung: Bleuler, Forel, Flournoy, Riklin, Abraham e molti altri…tutti vengono in qualche modo solcati dalla navetta che li attraversa e che, fino alla fine degli anni ’70, sarà relegata nel buio, costringendo a lasciare una matassa di fili non del tutto decifrabile [8].

Moltissimi aspetti potrebbero essere esaminati nella storia (nelle storie) che Sabina Spielrein porta ad emersione. Di questi ne scelgo due, riassumendoli simbolicamente in due parole cariche di significato: silenzio e femminile. “Il silenzio che così a lungo ha atteso la sua storia è emblematico di un silenzio ancora più insidioso che gradualmente ha sorpreso la psicoanalisi durante questo tempo[9]. “…Sabina, pioniera della psicoanalisi, figura fino a poco tempo fa negata, rimossa o fraintesa…[10]. Ed è proprio la parola rimossa, evocata da Lella Ravasi Bellocchio nel suo bel libro sulle madri, il termine più appropriato in merito alla figura di Sabina Spielrein, ma soprattutto in merito a quel che essa incarna e simboleggia.

Sembra un paradosso per la psicoanalisi, no? Prima di avventurarmi nelle mie speculazioni vorrei richiamare l’attenzione del lettore, soprattutto di quello digiuno di nozioni psicoanalitiche e della contestualizzazione storica in cui esse nacquero, ricordando come la vicenda documentata da Kerr e ritratta da Cronenberg si svolga all’inizio del XX secolo, un periodo in cui i rapporti e i costumi familiari in seno alla borghesia – in primis quelli matrimoniali – non sono molto dissimili da quelli descritti pochi decenni prima negli ottocenteschi romanzi di Thomas Hardy [11].

Mi piace iniziare la mia riflessione sulla psicanalisi e il femminile prendendo in considerazione non certo le parole di una femminista militante, tutt’altro. Scrive Romano Màdera in relazione a Freud: “La femminilità, insieme all’infantile, all’arcaico, allo psicopatologico, designa il territorio, ancora non bonificato, che si estende oltre le dighe sullo Zuidersee: il mondo dell’inconscio. La metafora scelta da Freud per parlare dell’oscurità che la femminilità oppone alla ricerca psicoanalitica, il “continente nero”, condensa, ben al di là di una attenta disamina critica, il pregiudizio che accomuna l’intellettualità euroamericana maschile della prima metà del Novecento[12]. Riporto inoltre le parole dello stesso John Kerr riguardo all’epoca in cui vivono i tre protagonisti principali, accanto ai lati oscuri, alle ipocrisie, alle falsità: “Era parimenti un mondo di grandezza immaginata, di importanti destini che aspettavano di essere esauditi […] Ovunque, dai caffè di Vienna ai club degli ufficiali dell’esercito del Kaiser, gli uomini immaginavano di poter diventare il prossimo Darwin o il prossimo Bismarck o il prossimo Nietzsche. Nell’avere il suo proprio destino eroico da esaudire, Spielrein era figlia del suo tempo. L’unica differenza era che era una donna[13].


Una ragazza qualunque?

Sabina Spielrein giunge dalla nativa Russia all’ospedale Burgholzli di Zurigo, Svizzera, nell’agosto del 1904. E’ appena diciannovenne, ma è malata già da diversi anni. La diagnosi del medico che la prende in cura, Carl Gustav Jung, è di isteria psicotica. Nel giugno del 1905 viene dimessa, continuando la terapia da paziente esterna. Vive da sola in un appartamento a Zurigo, in seguito all’iscrizione alla Facoltà di Medicina. Considerando i tempi lunghi della malattia e la sua gravità, la guarigione è stata straordinariamente veloce ed efficace: “L’avvenimento più significativo nella giovane vita della Spielrein fu che, qualsiasi cosa fosse avvenuta nel corso della terapia con Jung al Burgholzli, questa la guarì [14]”.

La malattia di Sabina affonda le sue radici nell’atteggiamento punitivo del padre, il quale usava percuoterle il sedere nudo (particolare che Jung censurerà nella sua lettera a Freud, dicendo che la ragazza fu traumatizzata nel vedere il fratello percosso). Questo fatto probabilmente ingenera strane fantasie anali nella ragazzina, la quale non può sedersi a tavola senza immaginare i familiari al tavolo con lei nell’atto di defecare. Cerca inoltre, bizzarramente, di stimolare e al contempo bloccare la propria defecazione rannicchiandosi e puntando il tallone sull’ano. In età adolescenziale non riuscirà più a guardare le persone negli occhi e la situazione si aggraverà con l’insorgere di ripetuti atti masturbatori, accompagnati da un pesante senso di colpa.

Ma è degno di nota anche l’atteggiamento perverso di una madre anaffettiva, la quale, per di più, sfogò la propria rabbia verso il mondo maschile sulla figlia, entrando in competizione con i suoi corteggiatori e vietando, nel modo più assoluto, qualsiasi tipo di educazione sessuale, tanto da intervenire segretamente presso le autorità scolastiche russe per far evitare alla figlia la lezione di biologia sulla riproduzione umana. Sabina arriva quindi, adulta, a non sapere nulla della sessualità e di questo particolare fondamentale, unito al rapporto malsano con la madre, non vi è sorprendentemente alcuna menzione nella diagnosi di Jung, né  nelle sue lettere a Freud.

L’altro dettaglio determinante è che Sabina è una ragazza colta: nella Russia dell’epoca l’emancipazione femminile era molto più all’avanguardia di alcuni paesi europei, permettendo alle donne di frequentare il liceo (anziché accontentarsi di un tutore privato) e di iscriversi all’università.

Le pazienti del Burgholzli, vengono da famiglie povere o della medio-bassa borghesia, hanno generalmente un’educazione minima. La paziente venuta dalla Russia è quindi molto più acculturata delle coetanee svizzere e, oltre a ciò, rivela fin da subito un’intelligenza e un’intuizione non comuni. Insomma, si capisce subito che Sabina Spielrein non è una ragazza qualunque, tanto che sarà lo stesso Jung ad incoraggiarla sulla strada della carriera scientifica come psicoanalista. Il giovane Jung infatti pensa bene di coinvolgere questa sua straordinaria paziente come assistente nei suoi esperimenti col reattivo verbale, in cui ha modo di verificare le teorie freudiane.

Dopo la dimissione, Sabina continuerà la terapia con Jung, recandosi settimanalmente nel suo studio: probabilmente è lì che queste due sensibilità straordinarie entreranno in un più profondo rapporto animico, in cui non è improprio nominare la parola amore. In Sabina Spielrein, Jung rintraccia dunque molte parti di se stesso e se, in alcuni suoi passaggi giovanili, si nota un certo atteggiamento e una posa di superiorità maschile verso la mente femminile più facilmente impressionabile, Kerr mette in evidenza quelli che erano i fantasmi di Jung: le fantasie anali della Spielrein diventavano così ben poca cosa rispetto alle fantasie del giovanissimo Jung, in cui Dio defecava spudoratamente sul tetto della cattedrale di Basilea e un enorme fallo compariva all’interno di un’oscura caverna [15].

In entrambi vi è inoltre un forte anelito spirituale assolutamente collegato, non sganciato, alle immagini oscene scatenate dalla loro fantasia ma naturalmente il rapporto fra i due nasce sbilanciato, asimmetrico [16] : non bisogna dimenticare che, per quanto abbia avuto un’evoluzione, è pur sempre un rapporto medico-paziente, in cui il primo deve tenere saldamente in mano le redini e far sì che l’emotività e le dinamiche affettive del paziente non travolgano entrambi.

Le redini sfuggono però dalle mani e Jung decide di chiedere aiuto a colui che ha designato come padre e maestro: Sigmund Freud.


La mediazione

Jung chiede aiuto a Freud, ma in maniera alquanto contorta: un po’ confessa e un po’ no, un po’ mente, un po’ omette e lo fa comunque molto tardi (la prima lettera è del 1906, la “quasi confessione” solo nel 1909!). Freud dal canto suo lascia capire che ha intuito la situazione ma cerca di muoversi in maniera diplomatica, suggerendo alla Spielrein di lasciar perdere la faccenda per il bene di tutti: “le ho suggerito una dignitosa liquidazione, per così dire, endopsichica di tutta la faccenda[17] e soprattutto cerca di assolvere Jung il più possibile, adducendo la responsabilità del problema alle giovani pazienti: “la capacità di queste donne di mettere in moto come stimoli tutte le astuzie psichiche immaginabili, finché non abbiano raggiunto il loro scopo, costituisce uno dei più grandiosi spettacoli della natura[18].

Insomma, oltre alla relegazione del femminile nella sfera del primitivo, siamo alla mentalità della donna come Eva tentatrice. In questo frangente, prima della rottura, bisogna ricordarsi che il rapporto Freud-Jung si può scindere in due parti: una parte contrassegnata da una forte carica affettiva, dove i due si compiacciono genuinamente dei ruoli di padre e figlio, e una parte schiettamente utilitarista.

A Freud, Jung appare come l’erede ideale del suo impero teorico per una miriade di ragioni. Si potrebbe dire brutalmente che Jung gli serva: non è ebreo, come tutti i suoi seguaci viennesi e a Freud serve uno psicanalista “ariano”, che dia una più vasta risonanza alle sue teorie. Jung è, inoltre, geniale. Freud non ha una grande stima dei suoi seguaci viennesi, nello svizzero Jung, giovane, intraprendente e con una formidabile capacità intuitiva, vede dunque una grande speranza e forse, viene ipotizzato, una proiezione di quel che avrebbe voluto essere da giovane.

Da parte sua Jung è all’inizio della sua carriera e Freud gli serve per lanciarsi nel mondo scientifico. Le sue teorie, da subito, destano la sua sincera attenzione tanto da portarlo ad applicarle in ambito clinico sui pazienti del Burgholzli ma Jung, come sottolineano sia Kerr sia Carotenuto, era consapevole sin dall’inizio delle proprie divergenze dal maestro, soprattutto sul concetto freudiano di libido, spiegato come mera energia sessuale, cosa che Jung considera fortemente riduttiva rispetto ad altre istanze dell’essere umano, legate al proprio destino e essenzialmente di natura spirituale.

Un po’ per la sua propria confusione interiore (“Io ero pieno di dubbi!” [19]), un po’ perché, appunto, Freud gli serve, Jung persevera nel mantenere un atteggiamento di venerazione verso il maestro, a tratti quasi servile: ogni volta infatti che Freud lo redarguisce, egli assume un atteggiamento remissivo, scusandosi e premurandosi di ribadire quanto il rimprovero sia stato per lui prezioso. Una dinamica, dunque, quella fra i due che oscilla fra i contenziosi padre-figlio ed il mantenimento dei rapporti diplomatici perché ambedue si servono l’uno dell’altro. Logico quindi che un rapporto così non possa essere genuino fino in fondo, schietto. Per quanto forte e viscerale avrà inevitabilmente dei coni d’ombra.

Sabina Spielrein non si pone nessuno di questi problemi, non si lascia raggirare dalle parole dei due psicanalisti che cercano di “liquidare” il suo caso in maniera affrettata e maldestra. Una cosa è certa: né Freud aveva bisogno di uno scandalo riguardante il suo erede designato, né tantomeno Jung aveva bisogno di rovinarsi una carriera appena iniziata.

Il grosso errore che fanno Freud e Jung è quello di non aver mai smesso di considerare la Spielrein una paziente e di averne grossolanamente sottovalutato le doti intuitive.

Sentiamo un po’ come la Spielrein redarguisce addirittura Freud, ad un certo punto della vicenda: “Ma anche lei è astuto, Professore [...]. Si desidera però evitare un momento sgradevole, no? Neppure il grande ‘Freud’ riesce sempre a rendersi conto delle Sue debolezze[20]

Non è necessaria una laurea in psicologia per intuire l’effetto dell’ammonimento della studentessa Spielrein, giustamente impertinente e che punta dritto alla verità, su un uomo della statura di Freud: un uomo che considerava le donne alla stregua di una dimensione primitiva, infantile, non del tutto sviluppata. La scossa deve essere arrivata pungente, anche perché si insinuava dritta dritta fra le pieghe di un assordante silenzio fra lui e Jung.

E non sarà l’unica volta in cui Sabina Spielrein si dimostrerà molto più perspicace dei due [21].


La non – conversazione

John Kerr, con una efficace espressione, afferma che accanto alle lettere e al rapporto ufficiale, fra Freud e Jung si sviluppò negli anni una non-conversazione [22].

Il peso del non-detto verrà squisitamente rimosso fino all’estremo, quando si farà strada da sé ed imploderà tragicamente, nel frangente che porterà poi alla definitiva rottura fra i due [23].

Uno dei non-detti riguarda direttamente lo scambio di lettere di cui sopra: solo anni dopo Freud darà quella “risposta mancata[24], in Osservazioni sull’amore di traslazione del 1914. Qui ammetterà la totale responsabilità dell’analista nel cadere in un eventuale errore, laddove prima, come si è visto, spostava tutto sulla “diabolicità della paziente che induce in tentazione l’analista, cercando di far leva sui nodi conflittuali e irrisolti” [25].

E’ un non-detto che riguarda Jung molto da vicino e che permette a Freud di assolvere il suo erede per tutta la durata del loro idillio. Lo assolve in quello che fu senz’altro un errore umano commesso con scarsa destrezza, confuso dall’emotività, ma pur sempre un errore. Chiariamo una volta per tutte: lo sbaglio di Jung non fu certo quello di innamorarsi di Sabina Spielrein. Per quanto un analista debba evitare il più possibile il coinvolgimento emotivo, è pur un essere umano come tutti gli altri e innamorarsi può succedere. Bisogna inoltre tener presente, come ben puntualizza Carotenuto, che gli analisti dell’epoca che vedeva la psicoanalisi nel suo nascere non erano sufficientemente preparati ad affrontare qualcosa di così potente come il transfert e, soprattutto, il contro-transfert, ovvero il coacervo di emozioni che il paziente proietta sul medico e, specularmente, i nodi emotivi irrisolti che il paziente può risvegliare a sua volta nell’analista.

L’errore di Jung fu nel modo in cui gestì questa sua vicenda emotiva, in relazione al mondo esterno. Sono tanti gli episodi, in questo frangente, che ritraggono il giovane Jung comportarsi davvero in maniera poco onorevole. Bisogna ricordarsi che qui stiamo parlando di uno Jung trentenne, molto ambizioso e al contempo emotivamente instabile. Poco dopo la rottura con Freud e il distacco da Sabina Spielrein (due delle persone più importanti della sua vita!) avrà un tracollo psicologico che lo porterà ad affrontare per parecchi anni i suoi fantasmi interiori, la cosiddetta nekya [26].

Ma un altro clamoroso non-detto riguarda molto da vicino Freud e su questo la comunità scientifica degli psicoterapeuti e degli studiosi ha dimostrato una forte, incredibile resistenza.

Il triangolo

Nel 1957, durante un incontro in casa sua con il professore americano John Billinsky, Jung fa un’esternazione che sconvolge non poco la comunità psicanalitica: rivela di essere a conoscenza di un rapporto extra matrimoniale che Freud avrebbe intrattenuto, per molti anni addirittura, con la cognata e segretaria Minna Bernays. Successivamente rivelerà questo particolare ad altre due persone e le rivelazioni etichetteranno con l’appellativo di “pettegolo” il vecchio Jung. Io non sono proprio di questo avviso, dato che una persona che si dica pettegola non aspetta certo cinquant’anni prima di sbarazzarsi di un segreto. Jung si tiene infatti dentro questa cosa per un periodo considerevole poi, finalmente, la rivela. E’ come se si fosse liberato da un peso, infatti potrà parlarne liberamente anche con altri [27].

Esaminiamo più da vicino la vicenda: nell’estate del 1909, Freud e Jung vengono invitati a tenere delle conferenze in America, dove troveranno ad accoglierli un pubblico entusiasta. La rottura si stava già consumando però come una ruggine che erode silenziosamente ma inesorabilmente un pezzo di metallo e il seguente aneddoto rappresenta proprio il punto di rottura: durante il viaggio di andata Jung, Freud e Ferenczi si analizzano vicendevolmente i propri sogni. Freud racconta del suo sogno in cui compaiono lui, la moglie e la cognata; Jung chiede maggiori delucidazioni, ma Freud si rifiuta, adducendo la giustificazione che ne avrebbe perso in autorità. Questo simboleggia per Jung l’inizio della fine, per lui è inconcepibile che la verità venga sacrificata nel nome di una autorità personale. Jung, che sapeva del triangolo amoroso di Freud dalla stessa Minna, in realtà si aspettò sempre una confessione, che avrebbe reso da una parte l’amicizia più genuina, dall’altra avrebbe contribuito a chiudere correttamente la cerniera fra biografia e teoria, così fondamentale in queste discipline (Jung ne farà una bandiera del suo impianto teorico, tanto che Màdera parla di mitobiografia). E’ evidente che Jung, sotto sotto, si augurava che le sue mezze confessioni su Sabina Spielrein aiutassero a suscitare una confidenza dall’altra parte. Ma la confessione non arrivò mai.

La cosa curiosa è il silenzio e l’imbarazzo degli studiosi quando Billinsky riportò le rivelazioni di Jung [28]. C’è chi minimizzò la vicenda, sottolineando l’inutilità di questo dettaglio, chi non ne accennò nemmeno nelle proprie pubblicazioni, pur occupandosi dettagliatamente della biografia di Freud. Per la cronaca: nemmeno nel film di Cronenberg si accenna sia pur minimamente a questo. Insomma: il mondo degli studiosi applicò fino in fondo quella preservazione dell’autorità che Freud aveva evocato come una barriera nei confronti di Jung, continuò anche in questo frangente a difendere la persona, non le idee [29], portando avanti quel tragico dogmatismo che purtroppo contraddistinse in senso negativo la nascita della psicoanalisi e che le procurò dure e giuste critiche sin dalla sua nascita [30].

Non bisogna dimenticare due cose: che l’amore per la verità non ha nulla a che vedere con la predisposizione al pettegolezzo e che stiamo parlando del padre della psicoanalisi, colui che ha fondato il suo impero sulla teoria della sessualità. Faccio mie le parole di Carotenuto, dedicate al caso Spielrein ma valide anche qui: “[...] documenti non avevano a che fare con gente comune, che ha il diritto a conservare l’anonimato e la riservatezza della propria vita, ma con persone le cui idee hanno cercato di cambiare il mondo, offrendo dei paradigmi per interpretarlo[31]. I silenzi e le omertà fra i due grandi della psicologia hanno, secondo Kerr, inficiato al massimo grado la pericolosità già insita nel metodo e ciò in un periodo così delicato come la sua origine [32]. La pericolosità, a cui allude primariamente il titolo, risiede nel fatto che in realtà quello psicanalitico non sia un metodo, poiché Freud non ha mai fornito gli strumenti necessari al resto della comunità scientifica per applicare le sue teorie in ambito clinico. L’ha sempre promesso ma non l’ha mai fatto, implicando che chi volesse utilizzare le sue teorie dovesse prima di tutto rivolgersi all’origine, cioè a se stesso. Un atteggiamento fortemente anti-scientifico, che lasciò spazio a numerose ambiguità e margini interpretativi.


Sabina psicoanalista freudiana

Quel che manca prepotentemente nel film di Cronenberg è una visione prospettica della storia: il film si chiude con la separazione definitiva di Sabina Spielrein da Jung e sembra che la parabola di vita importante di Spielrein si concluda lì. In comparazione, il film del nostro Faenza ha questo pregio: sviluppare la parabola di Spielrein in quasi tutta la sua interezza, compreso l’esperimento dell’asilo bianco in Russia, dove ella applicò i principi freudiani fino a che la cecità e la stoltezza dello stalinismo non mise al bando la psicanalisi.  

Nel 1911, Sabina Spielrein si laurea e nel 1912 esce un suo importante lavoro, forse il più importante: La distruzione come causa del venire all’essere, testo comunemente ritenuto precursore del concetto freudiano di pulsione di morte. In realtà, precisa John Kerr, in questo c’è una grande ambiguità culturale e sembra tuttora esserci abbastanza confusione ancora su questo punto, complice lo stesso Freud. Quando infatti egli pubblicò Al di là del principio di piacere, nominò in nota la Spielrein (l’unico riconoscimento che lei ebbe: una citazione in una nota a pie’ di pagina), ammettendo di non aver ben compreso del tutto le sue teorie. Almeno in questo Freud è onesto, intanto però, dopo aver inizialmente opposto resistenze alla tesi della Spielrein, la rende sua e, in realtà, non è la prima volta che Freud adopera questo meccanismo, opporsi o dimostrarsi indifferente all’idea di un altro per poi rielaborarla e farla propria [33]. Ma è interessante vedere – aiuterà a capire la natura di questa ambiguità – come le idee della Spielrein furono accolte la prima volta in cui le presentò a Vienna, presso l’Associazione Psicanalitica. Ciò ci illuminerà ulteriormente sul rapporto distorto col femminile che aveva quel che Màdera definisce “l’intellettualità euroamericana maschile della prima metà del Novecento”.


La falsità organica della donna

Come si evince anche dal film, Sabina Spielrein, dopo aver assimilato gli insegnamenti junghiani, inizierà il suo percorso come psicanalista freudiana. John Kerr ricostruisce abilmente, grazie ai verbali dell’epoca, l’atmosfera dei famosi incontri del mercoledì, inizialmente tenutisi in casa di Freud, poi nei caffè di Vienna. La Spielrein, seconda donna ad entrare nella società psicoanalitica viennese, viene introdotta nel circolo l’11 ottobre 1911, in una delle parentesi più miserabili della storia della psicoanalisi: sul piatto è la posizione di Adler e della sua gang, ritenuti colpevoli di allontanarsi dalla strada maestra e quindi meritevoli di ostracismo. Ma non è l’unica novità della serata. Per un soffio non si ripete ciò che si verificò circa un anno prima con Margarete Hilferding, prima donna membro del gruppo, la quale provocò un acceso dibattito sull’opportunità o meno che le donne entrassero nella società. La cosa fu addirittura messa ai voti [34]. Questo fatto la dice lunga sul maschilismo imperante nel mondo intellettuale dell’epoca e ci illumina più di qualsiasi dissertazione filosofica, ma non sorprende considerando che pochi anni prima, nel 1903, Otto Weininger aveva pubblicato uno scritto, intitolato Sesso e carattere, in cui ritraeva le peculiarità del maschile e del femminile: il primo contraddistinto dal poteri intellettuali, moralità, genio, etc; la seconda contraddistinta da amoralità, impulsività, desiderio sessuale. Una delle sue conclusioni è che l’isteria sia “la crisi organica dell’organica falsità della donna[35]. Complice anche il clamore suscitato dal suicidio dell’autore, poco dopo l’uscita del libro, Sesso e carattere vendette moltissimo ed ebbe una vasta diffusione. Al lettore non sfuggirà che gli stessi uomini i quali inquadravano in questo modo il femminile (abbiamo visto come Freud, con la “diabolicità della donna” non si discostasse molto dalle tesi estremiste di Weininger) non mancassero, essi stessi, di numerose nevrosi e nodi conflittuali.

Ma Sabina Spielrein è una che cerca di cogliere il meglio anche dalle situazioni più penose, o meglio, cerca di depurare le persone e le situazioni positive dalla componente negativa, come dimostra un bel passaggio del suo diario, dopo il vergognoso e traditore comportamento di Jung nei suoi confronti: “[...] volevo togliere dalla sua anima ciò che aveva giustificato il suo brutto comportamento nei confronti miei e di mia madre[36]. Perciò non si lascia tramortire e continua imperterrita i suoi studi, perchè vuole perseguire quel “grandioso destino” a lei riservato, come i suoi antenati le avevano comunicato in sogno. Ma la sera in cui presenta il suo importante lavoro, La distruzione come causa della venuta all’essere, è forse ancora più penosa e sintomatica: il suo concetto di componente distruttiva della sessualità viene spiegato come una parte intrinseca dell’istinto sessuale, il cui apice è la fusione con l’altro; da qui le resistenze dell’Io, che si oppone all’istinto sessuale in quanto può appunto portare alla dissoluzione-distruzione dell’Io in nome della fusione.

Tutto questo viene completamente travisato e incasellato dagli uditori in una dinamica masochista, tipica dell’atteggiamento femminile, di contro alla componente sadica eminentemente maschile, che il caso vuole esposta da Tausk poco prima dell’intervento di Spielrein. Ma ovviamente la Spielrein non voleva dire questo. Successivamente Freud e Jung sosterranno, in via epistolare, che le teorie di Spielrein risentono dei suoi propri complessi [37]: come se la cosa non fosse vera applicata a loro stessi!

Talvolta una persona non è sentita perché non viene ascoltata”, afferma John Kerr: “[...] la sua incapacità di ottenere il riconoscimento della sua intuizione nel tema della repressione non fu un suo errore; fu l’errore di Freud e di Jung. Preoccupati con le proprie teorie e preoccupati l’uno dell’altro, i due uomini semplicemente non si fermarono persino per capire le idee di questa giovane collega lasciata da sola a chiedere aiuto nel trovare un’espressione più felice al suo pensiero[38]. E’ bene sottolineare, come fa John Kerr, che nell’ambito della sua vita Sabina Spielrein conobbe personalmente e collaborò con un numero considerevole di personalità chiave della scienza e civiltà occidentale: dopo essere stata allieva di Jung e Freud (ed aver contribuito allo sviluppo delle loro teorie), collaborò col giovane Jean Piaget, che fu in analisi con lei durante gli anni passati presso l’istituto di Ginevra. Quando tornò in Russia, nel 1923, portò naturalmente in patria le migliori intuizioni e teorie europee nel campo, offrendo spunti importanti a personalità chiave della psicologia come Luria e Vygotsky: se la parola “saccheggiare” può risultare eccessiva, bisogna dire però che alcune loro idee erano straordinariamente simili a quelle “importate” da Sabina Spielrein [39]. Insomma, in finale il grande destino a cui l’avevano chiamata i suoi antenati dal profondo del suo inconscio, in un certo modo si avverò ma il giusto riconoscimento da parte della compagine umana a lei contemporanea invece non ebbe riscontro. In ogni caso, dopo la sua partenza per la Russia, la figura di Sabina Spielrein cade definitivamente nell’oblio.

Dopo questa esposizione, purtroppo non esauriente dei fatti ma sufficiente, si potrebbe asserire che l’intelligentia maschile euro-americana applicò, sul femminile, categorie di comodo per esercitare la propria dominanza, confermata ulteriormente dal fatto che dei prodotti intellettuali migliori del femminile si servì abbondantemente appropriandosene. E’ l’atteggiamento inclusivo dell’invasore, del colonialista che dimostra di disprezzare lo straniero e di considerarlo inferiore, tranne poi invaderne i territori e impossessarsi delle materie prime [40]. Prima di concludere con delle domande che rivolgo al lettore-spettatore, torno sulla mia perplessità iniziale e mi vien da concludere che le vicende qui sopra descritte non siano affatto paradossali rispetto alla psicologia del profondo, tutt’altro: esse sono l’ulteriore riprova e conferma di quelle geniali teorie. Bisogna fare come fece Spielrein: depurare l’impianto teorico dal dogmatismo e dal sessismo di Freud o dalla spavalderia giovanile di Jung, trattenendo invece le perle preziose. Bisogna ricordarsi anche che, per quanto l’essere umano sia educato e allenato a tenere un distacco verso le passioni, parlare sulle emozioni umane ed esserne direttamente coinvolti rappresentano due cose profondamente diverse.

La prima domanda, che “rubo” da un intervento di una giornalista americana, è la seguente: il film di Cronenberg rende giustizia alla figura di Sabina Spielrein [41]? La risposta è evidentemente negativa, ma bisogna anche distinguere un approccio storico-documentaristico effettuato da un esperto, rispetto ad un’opera artistica che, oltre a fornire informazioni su una storia, punta anche alla resa estetica. Da questo punto di vista il film di Cronenberg è quasi perfetto nella ricostruzione di fatti e ambientazioni. L’unico appunto è l’assenza di pathos, di emozione, nonostante tutti gli sforzi di Keira Nightley di rendere plausibili gli isterismi di Spielrein e gli sforzi di Fassbender di essere credibile come Jung. Ho trovato intrigante invece la recitazione flemmatica di Viggo Mortensen nei panni di Freud, un attore che cresce sempre di più e Cronenberg se n’è reso ben conto, utilizzandolo in ben tre film. Piacevole anche la prestazione di Vincent Cassel, mai eccessivo in un ruolo, quello di Otto Gross, che poteva facilmente sfuggire di mano. Al contrario, il film del nostro Faenza, pur peccando d’ingenuità rispetto a certe scelte stilistiche, offre diversi momenti che coinvolgono emozionalmente lo spettatore. A confronto con quest’opera, Un metodo pericoloso è un film freddo.

Il merito che hanno entrambe le opere, tuttavia, è quello di aprire una breccia: esse hanno portato al grande pubblico una storia che altrimenti sarebbe rimasta appannaggio dei soli addetti ai lavori e hanno messo per esempio la sottoscritta nelle condizioni di interessarsi ed approfondire la storia di Sabina Spielrein [42].

La domanda che pongo in finale, e che lascio aperta, è questa: stando al fatto che la psicoanalisi ha condizionato fortemente la civiltà occidentale – nelle sue espressioni culturali ma anche nell’analisi spicciola dei comportamenti umani – quanto la mentalità dipinta agli albori di queste teorie è lontana dalla contemporaneità? Il lettore non si lasci condizionare dalle oggettive conquiste della civiltà in ambito di diritti umani, parità, etc. Qui parliamo di dinamiche profonde della psiche, e tutti noi sappiamo, se non dalle teorie di Jung per esperienza personale, che nella nostra vita quotidiana, le consuetudini consolidate e le convinzioni razionali intersecano meccanismi ancestrali che affondano le radici in un passato remoto ed irrazionale.

Le conquiste delle donne sul piano legislativo e del diritto, non sempre collimano col nostro modo profondo di pensare e di sentire – in una parola vivere – il maschile e il femminile. In questo senso, come e quanto ci parla la storia di Sabina? La mia risposta è già parzialmente nell’analisi qui sopra, ma in realtà la mia intenzione è lanciare un sasso nello stagno e riproporre, ad libitum, quel sano stupore e quella catena di riflessioni che hanno suscitato la comparsa dei suoi documenti.  Dal sottosuolo della civiltà occidentale.

* Articolo già apparso su Speechless Magazine n. 1 – 2012

____________________________________________

[1] Michel de Montaigne, Saggi, Adelphi, Milano, 1996, p. 1068.
[2] Si veda Sigmund Freud, Il Perturbante, 1919 ( “Il perturbante è quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare”).
[3]A parte le lettere scritte da Jung, di cui si hanno al momento solo alcuni frammenti per via del veto posto dai discendenti.
[4] A. Carotenuto, Diario di una segreta simmetria. Sabina Spielrein tra Jung e Freud, Astrolabio, Roma, 1980, pag. 34.
[5] Lo scienziato che si occupa per esempio di fisica nucleare o di biologia svolge le sue ricerche in un ambito oggettivo, dove né la sua psiche né la propria sfera emotiva vengono coinvolti.
[6] Basti solo la considerazione apparentemente banale di come alcuni termini come rimozione, complesso di Edipo, inconscio collettivo, siano entrati di fatto nel linguaggio comune.
[7] Per esempio l’episodio apparentemente banale del rimprovero “paterno” che rivolge a Jung, lamentandosi che non gli abbia chiesto notizie sullo stato di salute della madre (si veda J. Kerr, A most dangerous method, Atlantic Books, London, 1993, pagg. 427-428).
[8] Nel 1974 era già stato pubblicato il carteggio fra Freud e Jung, in cui emergeva saltuariamente il nome della Spielrein. Carotenuto intuì l’importanza di questa persona ma in base al materiale in possesso “i conti non tornavano” si veda A. Carotenuto, op. Cit., pag. 40.
[9] J. Kerr, op.cit., pag. 13.
[10] Lella Ravasi Bellocchio, L’amore è un’ombra, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2012, edizione Kindle.
[11] Si veda un mio articolo su Tess D’Aubervilles, in cui accenno alla naturalità infranta dei rapporti fra i personaggi, in nome delle ipocrisie sociali. Considero il testo suddetto e il suo autore psicanalitici ante litteram. Si veda Dalla carta alla celluloide:“Tess D’Urbervilles” riletto da Roman Polanskiin  www.leniremedios.blogspot.com
[12] R. Màdera, Carl Gustav Jung. Biografia e teoria, Bruno Mondadori Editore, Milano, 1998.
[13] J. Kerr, op. cit, p. 479.
[14] Bruno Bettelheim, Scandalo in famiglia, contenuto in A. Carotenuto, op. cit., p. 29.
[15] Si veda A. Jaffè, a cura di, Ricordi sogni riflessioni, pp. 37, 64 e sg.
[16] “Ora, nella situazione analitica non può esistere, in particolar modo all’inizio, alcuna simmetria” A. Carotenuto, op. cit., p. 101.
[17] Lettere fra Freud e Jung, Boringhieri, Torino, 1974, p. 252.
[18] Ibid., p. 248.
[19] Si veda l’intervista di John Freeman per la tv americana “Face to face”, 1959, video rintracciabile su Youtube.
[20] Lettera di Sabina Spielrein a Freud del 20 giugno 1909, in A. Carotenuto, op. cit., pp. 120 e 242.
[21] In un tentativo imbarazzante di minimizzare la cosa, Jung ad un certo punto dice a Sabina Spielrein un’autentica fesseria: ovvero di aver avuto prima di lei un’infatuazione per la figlia di Freud, spiegando l’affetto verso Sabina come uno spostamento di sentimento verso un’altra giovane ebrea. Sabina pensa invece che la ragazza ebrea a cui si riferisca Jung sia la cugina Helene Preiswerck, la medium su cui basò la sua dissertazione universitaria e verso il quale nutriva una forma di affetto molto vicina all’amore. Tale verità sarà ammessa dallo stesso Jung in una lettera a Freud (si veda A. Carotenuto, op. cit., p. 126-127).
[22] J. Kerr, op. cit., p. 409.
[23] Mi è doveroso precisare che per motivi di spazio non posso qui approfondire la tematica di Sigfrido, figlio che Spielrein avrebbe volute da Jung, ma anche simbolo del loro rapporto nonché del destino di vita di Spielrein.
[24] A. Carotenuto, op. cit., p. 20.
[25] Ibid. p. 121.
[26] Discesa agl’Inferi. Termine mutuato dall’Odissea.

[27] J. Kerr, op. cit, p. 135 e sg.
[28] In realtà non è che Jung dicesse una novità assoluta: da quel che sappiamo l’intreccio presente in casa Freud era tutto sommato abbastanza evidente nella società viennese.
[29] Si veda A. Carotenuto, op. cit., p. 32.
[30] Molteplici furono gli episodi di intolleranza verso coloro che mossero un minimo di critica alle teorie del maestro, tanto da spingerlo a creare una Commissione Segreta volta unicamente ad individuare coloro che ne mettessero in crisi i presupposti. Questo episodio della Commissione, durata ben 12 anni, secondo Kerr non ha avuto ancora un’adeguata attenzione da parte degli studiosi.
[31] A. Carotenuto, op. cit., p. 33.
[32] Si vedano le ultimissime battute del libro, J. Kerr, op. cit., p. 511.
[33] Il caso più clamoroso fu quello di Fliess, riguardo alla teoria della bisessualità, non certo farina del sacco di Freud. La vicenda, che coinvolse altra gente, finì con processi e la rottura dell’amicizia con Freud.
[34] J. Kerr, op. cit., pp. 353-354.
[35] Citato in J. Kerr, op. cit., p. 75.
[36] Diario di Sabina Spielrein, 11 settembre 1910, contenuto in A. Carotenuto, op.cit., pagg. 293-294.
[37] Argomentazione di bassa caratura a cui Freud ricorse spesso per liquidare teorie o persone con cui non concordava, definendoli di volta in volta paranoici o nevrotici (vedi il caso Fliess).
[38] J. Kerr, op. cit., p. 405.
[39] Ibid., pag. 498.
[40] Il parallelo con la mentalità colonialista viene introdotto da Romano Màdera qui: “non era il continente nero della geopolitica il terreno di conquista al quale il colonialismo europeo portava i doni della civiltà?” si veda R. Màdera, op. cit, p. 130.
[41]  Margaret Wheeler Johnson in http://www.huffingtonpost.com/women/
[42] Esiste anche una terza opera del 2002, un documentario della regista svedese Elizabeth Marton, intitolato Mi chiamavo Sabina Spielrein.
 
 
 

Add comment

Submit