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Ciò che è vivo e ciò che è morto

Il paradosso situazionista

Mario Perniola

Che cos’è il movimento situazionista?

Occorre innanzitutto precisare che cosa s’intende per «movimento situazionista» e per «situazionismo». Si possono intendere tre cose differenti.

La prima è l’Internazionale situazionista, un gruppo d’avanguardia artistico-politica che si è costituito in Italia a Cosio d’Aroscia (Cuneo) nel luglio 1957 e si è dissolto nell’aprile 1972. Questa è stata un’associazione chiusa, cui hanno partecipato complessivamente nei quindici anni della sua esistenza 70 persone (63 uomini e 7 donne). La pratica delle esclusioni e delle dimissioni fece sì che nel gruppo fossero contemporaneamente presenti non più di una decina di membri. Il leader del gruppo è stato il francese, di origine italiana per parte di madre, Guy Debord (1931-1994) che ha svolto un ruolo egemonico per tutto il periodo della sua esistenza. La frequenza delle espulsioni (45 membri su 70 furono espulsi), unitamente alla pratica delle «rotture a catena» e al dogmatismo esasperato per cui le affermazioni di ognuno impegnavano anche tutti gli altri, conferì a questo gruppo quel carattere settario cui sono sempre stato refrattario: perciò nel periodo in cui fui in stretto rapporto con loro (tra il 1966 e il ’69) non entrai a farvi parte. Il gruppo produsse tra il giugno 1958 e il settembre ’69 dodici numeri di una rivista, il cui direttore fu sempre Guy Debord. L’Internazionale situazionista ha fin dall’inizio rifiutato di riconoscersi nel termine «situazionismo», attribuendo a questa parola un significato negativo: essa, infatti, sarebbe stata connessa col ricupero da parte del mercato artistico delle produzioni dei membri del movimento.

Nel mio testo I situazionisti (Castelvecchi, 2005) ho raccontato la storia di questo gruppo artistico-politico.

Altra cosa invece è la storia della ricezione e dell’influenza che l’Internazionale situazionista ha avuto sul maggio francese del 1968, sulla cultura e sulla controcultura dei decenni successivi. Bisogna pertanto distinguere i situazionisti (cioè i membri dell’Internazionale situazionista) dai situs, che sarebbero quanti hanno sostenuto e sviluppato le prospettive situazioniste al di fuori dell’Is. Fino al ’66 l’Is era conosciuta da pochissime persone: io venni a conoscenza della sua esistenza in occasione della Décade sul surrealismo che si tenne presso il Centre Culturel International di Cerisy-la-Salle (10-18 luglio 1966). Nel dicembre dello stesso anno scoppia lo scandalo di Strasburgo, che è la prima manifestazione della contestazione studentesca in Europa. Con due compagni mi precipito in auto a Strasburgo, dove osservo con una certa amarezza e disappunto che l’accordo tra i situazionisti e gli studenti locali si è già incrinato e nel mese successivo si rompe definitivamente: segue una serie di accuse e insulti reciproci. Questa piccola vicenda è indicativa perché anticipa uno dei tratti caratteristici della mentalità rivoluzionaria dell’epoca: la tendenza a mettere sotto accusa e a escludere con critiche infamanti e insulti chi non sarebbe degno di fare la rivoluzione.

C’è infine un terzo aspetto da considerare: gli individui da cui era formata l’Internazionale situazionista. Questi erano molto diversi tra loro e ben pochi sono stati coloro che si possono considerare «geniali», se appunto questa era una condizione di appartenenza (Is IX, 43). Tra chi ne fece parte nel primo periodo indubbiamente geniali furono l’artista danese Asger Jorn e l’architetto olandese Constant. In seguito la personalità di Debord ha marcato il movimento. Si tende generalmente a porre l’accento sul rapporto di Debord col suo tempo, mentre si trascura il suo rapporto con la tradizione culturale e con la geografia. In un atlante inglese degli anni Trenta Debord ha indicato gli autori che sono stati importanti per la sua formazione culturale, divisi per nazione. Alcuni sono segnati in lettere capitali: tra questi l’Ecclesiaste, Tucidide, Dante, Machiavelli, Montaigne, Bossuet, Cervantes, Shakespeare, Stendhal, Hegel, Marx, Novalis. Vale a dire buona parte del canone occidentale. Questo ancoramento nella tradizione è ciò che distingue Debord dai situs, unitamente a un culto della precisione e della forma che appartiene a ciò che Nietzsche chiamava «il grande stile», quanto mai estraneo al vitalismo spontaneistico e comunicativo che caratterizzò la contestazione e la controcultura della sua epoca.

Quando si parla di movimento situazionista, esistono pertanto tre soggetti: il gruppo Internazionale situazionista, che ha prodotto la rivist omonima; l’insieme dei simpatizzanti (i situs); e infine Guy Debord, senza il quale il movimento non sarebbe esistito.


Debord è «riuscito»?

Quale destino storico si suppone possa avere avuto Debord, il pensatore più estremista della seconda metà del Novecento? Uno che si definiva «nato virtualmente rovinato» (D 1661), «dottore in niente», amico dei ribelli, completamente estraneo e aspramente ostile al mondo dell’università, dell’editoria, del giornalismo, della politica, dei media e di qualsiasi tipo di lavoro, grande spregiatore dello Stato, dell’economia, della Chiesa, dell’arte e di tutte le istituzioni esistenti, per di più in guerra costantemente col mondo intero? Chi avrebbe predetto a un simile individuo una fine oscura e miserevole sarebbe stato facile profeta. Eppure sarebbe stato un falso profeta. Perché il 29 gennaio 2009 gli archivi di Debord, che era morto quindici anni prima, sono proclamati dal ministro della Cultura della Repubblica Francese dell’epoca, Christine Albanel, «tesoro nazionale»: e in quanto tali accolti nella Bibliothèque Nationale de France. Dunque Debord avrebbe raggiunto la massima «riuscita» inimmaginabile, specie se si considera che essa proviene da quello Stato la cui distruzione egli auspicò con estremo accanimento senza mai alcuna esitazione.

Consideriamo la questione da un punto di vista più serio. La vera domanda riguarda, per adoperare l’interrogativo che Benedetto Croce si poneva a proposito di Hegel, «ciò che è vivo e ciò che è morto» del pensiero di Debord. Quanto i testi di Debord possono essere utili alla critica radicale del capitalismo odierno? Quella che mi sembra superata è una teoria rivoluzionaria che consideri come opposizione fondamentale (in termini marxiani Hauptwiderspruch) quella tra borghesia e proletariato. Il nuovo spirito del capitalismo tende a eliminare tanto l’una quanto l’altro.La prima perché il mantenimento delle categorie socio-professionali è troppo costoso e il neoliberismo non è più disposto a pagare il cosiddetto «salario dell’ideale»: il primo colpo al vecchio ordinamento è assestato con la distruzione del sistema universitario, la liberalizzazione delle professioni colte, l’eliminazione delle piccole imprese e del piccolo commercio e gli ostacoli posti alla mobilità sociale verticale attraverso il capitale umano. Il neoliberismo non ha più bisogno di una classe media, né di un bagaglio di conoscenze, né di saper-fare diffusi e generalizzati. Esso mira altresì all’abolizione del proletariato attraverso la marginalizzazione dei sindacati, la precarizzazione del lavoro e la deindustrializzazione. Ne deriva che quanto in Debord appartiene ancora all’eredità della tradizione dei Consigli operai mi sembra debba essere lasciato da parte.

Ci sono però molte altre cose in Debord che meritano, anzi obbligano a una lettura integrale della sua opera. Per esempio, è importante chiarire il malinteso che riguarda il rapporto tra Debord e la contestazione studentesca del ’68. Sul suo esito positivo Debord non si fece nessuna illusione, come risulta dalle lettere che mi scrisse proprio nel maggio. A luglio di quell’anno, quando fui con lui e altri situazionisti a Bruxelles, mi parve già evidente che esisteva uno iato tra lui e lo spontaneismo insurrezionale del gauchisme. Nei tempi successivi mi sono reso conto che la ragione di quello iato fosse da ricercare nella confusione tra autoritarismo e autorevolezza. Debord è sempre stato critico del primo, ma ovviamente non poteva accettare di essere considerato lui stesso come autoritario per il semplice fatto di avere delle idee ben precise e saperle scrivere! Perciò tendo a credere che egli sia stato una vittima del gauchisme – non diversamente da Adorno.

Un altro punto d’importanza decisiva è l’attenzione che egli dedica in un testo del 1971, La planète malade, alle trasformazioni del capitalismo: questo «non può più sviluppare le forze produttive […] qualitativamente, ma solo quantitativamente» (D 1065). Così cogliendo con molto anticipo un aspetto fondamentale del mondo attuale, che si rivela oggi di estrema attualità. Quando il capitalismo non riesce a fornire più nulla di qualitativamente valido, la spinta progressiva da cui è nato, e che ha ancora mantenuto fino agli anni Settanta del Novecento, si è completamente esaurita. Oggi avviene proprio ciò che Debord descrive: per la società dello spettacolo «solo il quantitativo è il serio, il misurabile, l’effettivo; il qualitativo non è che l’incerta decorazione soggettiva o artistica del vero reale stimato al suo vero prezzo. Per il pensiero dialettico al contrario […] il qualitativo è la più decisiva dimensione dello sviluppo reale». L’ottimismo scientifico del XIX secolo è crollato: «Oggi la paura è ovunque, e non se ne uscirà che confidando sulle nostre proprie forze» (D 1069). Puntare sul qualitativo sembra perciò l’unica strategia possibile. A chi considera questa strategia come una manifestazione di passatismo, bisogna ricordare che «l’essere assolutamente moderno» è diventato la legge speciale proclamata dal tiranno!

In conclusione, in cosa consiste il paradosso situazionista? Nell’avere portato contemporaneamente all’estremo i due opposti orientamenti del-la modernità: l’uno verso l’eccellenza, la lotta peril riconoscimento, la competizione; l’altro versol’egualitarismo, il livellamento, la negazione delledifferenze. Il progresso dipende dalla capacità ditrovare un punto di equilibrio tra queste due istanze.

Testi citati
D = Guy Debord, Œuvres, Gallimard, Parigi, 2006.
Is = «Internationale situationniste» 1957-1969, Fayard,
Parigi, 1997.

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