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Massimo Recalcati e la psicopatologia della politica italiana

Massimo Recalcati nel libro-intervista, a cura di Christian Raimo, Patria senza padri. Psicopatologia della politica italiana  ci spiega perché «siamo in un tempo di precarietà». Oggi Recalcati è stato ospite di Concita De Gregorio a Pane quotidiano, la nuova trasmissione di Rai Tre. Questa sera alle 20.15 andrà in onda la replica della puntata. (Immagine: Pietro Manzoni.)

Precarietà è un termine plastico, che negli ultimi anni ha significato o ha alluso alle cose più disparate. Partendo dal lessico lavorativo sembra aver dato nome a una condizione contemporanea di indeterminatezza e insieme di fragilità, di mancanza: ma una mancanza, una fragilità senza apertura, mentre il significato latino della parola pre-carius era «disposto in preghiera». In qualche modo una condizione di speranza, se non altro trasformativa. Precarietà ti sembra una parola diversa da disagio?

La parola precarietà non esiste nel lessico freudiano mentre credo sia centrale nell’interpretazione del nostro tempo. Siamo in un tempo di precarietà. Precarietà non è sinonimo di Disagio della civiltà perché quest’ultimo è, in ultima istanza, l’espressione instabile di un conflitto strutturale tra l’istanza del desiderio e l’istanza del principio di realtà. Non è l’inferno, ma è la condizione umana; dove c’è una comunità umana c’è istanza del desiderio e c’è programma della civiltà che tende a disciplinare quest’istanza sovversiva e questi due movimenti non sono conciliabili armonicamente; generano sempre delle dissonanze, delle conflittualità inevitabili.

Ai tempi di Freud, l’elemento che aggravava il Disagio della civiltà era la guerra ed era il totalitarismo, cioè il fatto che gli esseri umani evitavano la dissonanza tra questi due programmi – il programma del desiderio e quello della civiltà – rifugiandosi nel grande corpo della massa totalitaria, nel grande corpo del totalitarismo.

Adesso il problema è che questo grande corpo non c’è più, si è smembrato… fortunatamente. Adesso, senza il grande ombrello dell’ideologia, nulla sembra garantire un sentimento di identità. In primo piano è la dimensione della precarietà. Non solo economica ma anche etica. Non si trova un senso, una iscrizione in un legame, una identità solida… L’assenza di lavoro e di prospettive ha a che fare proprio con questa condizione smarrita della soggettività ipermoderna…


Cito lo storico delle religioni Colianu per provare a dire della precarietà qualcosa di meno sociologico: la precarietà ci si presenta come una condizione dinamica, la condizione umana come dici tu. Ma cosa accade se questa condizione si cronicizza? Cosa accade al desiderio? In questo senso la terapia psicoanalitica che ruolo ha nella formazione dell’individuo, rispetto a condizioni che diventano stati permanenti?

La precarietà è per un verso una condizione ontologica dell’umano: essere umani significa essere gettati nella precarietà, nel senso che nessun Dio, nessun padre, nessuna legge, può salvare l’uomo da questa condizione. Tuttavia, questo essere precari, cioè gettati senza fondamento nel linguaggio, è anche la condizione virtuosa dell’umano: la condizione dell’invenzione, della creazione, della generazione, della sublimazione. Quindi la precarietà, in questo caso, non è la maledizione; essere gettati nel mondo – come insistono a dire Heidegger e Sartre – è anche essere liberi; la gettatezza implica la libertà. Esiste invece una declinazione storico-sociale della precarietà che ha a che fare col disastro generato dal discorso del capitalista. La precarietà assume allora il volto della mancanza di lavoro, dell’assenza di avvenire, della cancellazione della marcatura simbolica della differenza generazionale… Potremmo fare un lungo elenco delle forme storico-sociali della precarietà oggi. La caduta totale degli ideali collettivi, la venuta in primo piano della monade impazzita dell’individualità: tutto questo genera uno spaesamento sociale e allora i nuovi sintomi appaiono come delle nicchie autoprotettive che rispondono a questa diffusione spaesante della precarietà.

Perché, in fondo, il tossicomane «si fa» da solo, l’anoressica esiste solo in un mondo fatto di specchi; i giovani rispondono alla precarietà con la violenza, non la violenza politica ma quella gratuita del buttare i massi da un cavalcavia o dell’esporsi a sport pericolosissimi, o la violenza del branco, o del femminicidio, tutti fenomeni che rappresentano una dimensione erratica della violenza. Fenomeni che non rivelano se non l’assenza di senso che scaturisce da un mondo che ha perso orizzonte… Non a caso l’incentivazione di queste forme erratiche della violenza ha a che fare con la caduta del politico, perché il politico è ciò che permette alla violenza di essere tradotta simbolicamente nella dialettica del conflitto. Viceversa quando il conflitto non è ordinato politicamente, abbiamo una violenza erratica, vandalica, violenza del branco senza scopo.


Stefano Laffi, un sociologo che lavora con un gruppo che si chiama Codici, un po’ di tempo fa mi raccontava che sempre di più viene chiamato da associazioni che lavorano sul territorio, in territori complessi, disagiati, con minori a rischio, con fenomeni di illegalità, di sfruttamento della prostituzione, di spaccio, eccetera, perché si trovano spaesate. E questo perché, secondo quello che mi raccontava lui, prima c’erano due modalità di intervento sociale, due direzioni, una orizzontale e una verticale. Da una parte, se c’è un quartiere molto complicato, cercare di mettere un presidio; oppure l’intervento sul singolo, capire da dove si genera un disagio attraverso un percorso storico, analitico. Adesso quello che lui vede è che i fenomeni di disagio e criminalità sono totalmente randomici, che queste due modalità sono entrambe inservibili. Nel senso che magari c’è un ragazzo che non manifesta una psicosi violenta durante la sua crescita ma invece a un certo punto esplode, per poi rientrare. Fare intervento sociale contro questo disagio, contro questa criminalità diventa molto difficile perché appunto la genesi non è definibile né geograficamente né storicamente: ci si trova completamente schiacciati. Era questo che intendevi con violenza erratica?

Anche il fenomeno dei black bloc è un esempio di come all’interno della stessa conflittualità politica si generino fenomeni di violenza erratica, la quale è una violenza che perde qualsiasi dimensione politica, diventa puro cortocircuito della pulsione di morte. Al di fuori della dimensione politica siamo nell’epoca dove l’esperienza dell’eccesso tende ad assumere le forme erratiche della violenza.


E perché la nostra è l’epoca in cui l’eccesso tende a tradursi nella violenza?

Perché è venuto a mancare, ma lo dico senza nessuna nostalgia, il grande Altro della tradizione, degli ideali, che conteneva l’eccesso in generale, dunque anche le forme erratiche della violenza. Venendo meno, svuotandosi il luogo dell’Altro, perdendo di credibilità, di autorevolezza simbolica, di funzione normativa, il nostro tempo diventa il tempo in cui l’eccesso non può più essere governato. E se non è più governato dal grande Altro, uno dei rischi è che si sparpagli anche nella forma della violenza erratica. Questo è un punto molto importante: la crisi dell’ordine simbolico non comporta solo la proliferazione dell’immaginario, ma anche la diffusione di un eccesso senza legge, di un reale erratico che non può più essere regolato dal Nome del Padre. Allora il problema è come reintrodurre una legge ancora credibile senza che essa possa discendere dal cielo… Non si tratta di andare nella direzione di una sua restaurazione nostalgica. Qui si apre tutta la questione della lettura cattolica di alcune mie tesi, che secondo me è, salvo qualche notevole eccezione, una lettura fuorviante. Anzi, non fuorviante, perché a me fa solo piacere di avere innescato un dibattito anche all’interno del mondo cattolico… Nondimeno ci sono letture de L’uomo senza inconscio e di Cosa resta del padre? che accentuano in modo erroneo e in senso moralistico l’opposizione, per esempio, tra godimento e desiderio. Come se vi fosse un vizio…


Proibizionista.

Assolutamente.


Sempre a proposito della violenza erratica, mi vengono in mente i massacri dei bambini e dei ragazzi in America, spesso da parte di altri coetanei. Molte volte si utilizza nell’identificare la patologia degli assassini la parola
autismo. Che ne pensi? E perché secondo te tutto questo è accaduto negli Stati Uniti, che – come dire – sono l’avanguardia del discorso del capitalista? Mentre per fortuna in altri luoghi del mondo episodi del genere non sono avvenuti.

Però in Norvegia sì.


Sì, ma quella di Breivik era violenza ancora ideologica, partiva da una spinta ideologia nazista e andava a colpire persone che avevano una loro ideologia, i giovani militanti socialdemocratici che campeggiavano all’isola di Utoya. Quindi una violenza folle, terribile, atroce, eccessiva, ma che ancora possiamo tenere in un ambito del politico: devastato ma ancora politico. La violenza dei bambini nella scuola mi sembra invece completamente fuori da quell’ambito lì. Da psicoanalista che si è assunto… mi veniva in mente prima ascoltandoti che il tuo percorso biografico assomiglia a quello di Platone, quando racconta nella Settima Lettera che da ragazzo voleva fare politica, poi si era accorto che la politica era quello che era e allora aveva dovuto percorrere una via lunga e solo nella maturità ricominciare a occuparsi di politica ma sulla base di premesse teoriche diverse – rispetto alla tua esperienza di psicoanalista, dicevo, e rispetto a dei sintomi del genere, secondo te qual è l’interpretazione in cui ci può essere utile la psicoanalisi? Tu hai la grande capacità di interessarti di vari fenomeni sociali per far riconoscere una mappatura di un insieme: i black bloc e il femminicidio, quindi la violenza domestica e la violenza pubblica all’interno di una dimensione di violenza erratica. Per tutto questo hai una lettura?

Questo è un altro sintomo del nostro disagio che, come tu giustamente hai detto, è un disagio post-ideologico. Da questo punto di vista il crimine norvegese è ancora un crimine di un altro tempo, cioè un crimine ispirato da un fanatismo religioso, fondamentalista, mentre la strage dei bambini nella scuola americana sarebbe un crimine radicalmente post-ideologico. Si tratta di una differenza importante. Diciamo che la violenza erratica ha una fenomenologia molto varia, come tu hai notato, che forse sarebbe il caso di mappare più analiticamente. Per provare a dare una definizione direi che la violenza erratica è violenza scissa dal senso, violenza pura sganciata da ogni ideale, da ogni Causa. Qualcuno, Gandhi per esempio, potrebbe dire che sempre la violenza è scissa dal senso, cioè che la violenza è un’affermazione pura del non senso, è strutturalmente erratica. Ma storicamente sappiamo che non è così, perché la resistenza partigiana, giusto per fare un riferimento tra i tanti possibili, o quella dei popoli coloniali contro i colonizzatori, mostra l’esistenza di una violenza come difesa, cioè di una violenza associata al senso… Personalmente, pur apprezzando enormemente il valore del Discorso della montagna di Gesù Cristo, ritengo che non si possa stabilire un’alternativa radicale tra la violenza e il senso. La violenza può avere un senso nella misura in cui è difesa dalla violenza del non senso e gli esempi che ti ho citato sono due esempi assolutamente plausibili. La stessa teologia della liberazione si è mossa in questa direzione… Allora il problema è che la violenza erratica è la violenza dissociata dal senso.


E come clinico invece che considerazioni faresti?

Sull’episodio della strage dei bambini americani farei due riflessioni. Quello che balza agli occhi è il fatto che sparando su bambini inermi questo ragazzo uccide se stesso. Qualcuno, facendo un suo ritratto, aveva messo in evidenza il suo autismo. Be’, l’autismo come posizione soggettiva consiste nell’impossibilità di separarsi dall’Altro, nel sentirsi imprigionati dall’Altro, catturati in una indifferenziazione tra sé e la propria immagine, tra sé e la propria madre. Questo senza voler entrare nel merito delle eventuali basi genetiche di questa patologia. Il dato fenomenico che riscontriamo nell’autismo è l’assenza di separazione. Questo ragazzo prima massacra i bambini, poi la madre e se stesso… Dunque uccidere la madre è uccidere se stesso, è uccidere il bambino che questo ragazzo era e che non gli permetteva l’accesso a una soggettivazione adolescenziale normale, dunque alla vita adulta. Quando il ragazzo-killer uccide i bambini, ammazza non tanto semplicemente la loro innocenza, ma ammazza il bambino che non è mai potuto essere; li ammazza per liberarsi da una simbiosi con l’Altro materno che probabilmente aveva parassitato e mortificato tutta la sua vita. Per potersi separare deve ammazzare quel bambino che lui è stato ed era nel rapporto simbiotico con la madre. Da un punto di vista clinico è abbastanza evidente. Si tratta di una separazione psicotica che non potendo avvenire sul piano simbolico passa direttamente nel reale…


E invece da un punto di vista politico che valore ti sembra avere?

C’è appunto un discorso più politico che concerne la doppiezza, l’ambivalenza dell’Altro con cui questo ragazzo si confronta, che è l’Altro della società americana: un Altro che per un verso afferma il diritto di libertà e la tutela della vita come uno dei suoi principi cardine, mentre per l’altro arma indiscriminatamente chiunque. Questa è una follia iscritta in una certa versione della libertà, cioè una libertà senza legge, perché il fatto di armare chiunque secondo me è proprio ciò che rende potenzialmente chiunque un assassino. Allora qui c’è un Altro diviso; le lacrime di Obama, almeno per come sono risuonate in me, sono lacrime autentiche, sono lacrime di fronte a un evento che non ha senso, perché qui non c’è alcun senso. Questa strage non è nemmeno paragonabile alla strage dei bambini nella scuola in Cecenia, perché in quel caso a prevalere è un elemento ancora fortemente ideologico, per cui i bambini sono presi come ostaggi in una guerra senza confine. Non che questo attenui l’orrore! Anzi! La violenza ideologica è sempre orrenda. Ma nel caso del ragazzo-killer in primo piano non c’è la Causa dell’ideale, perché la violenza appare gratuita e staccata da ogni principio ideologico. Allora il nostro tempo è il tempo in cui il senso non è più in grado non di giustificare, perché non lo è mai, ma di dare una ragione alla violenza; la violenza erratica esorbita il senso, mentre persino nel terrorismo ceceno, persino a Beslan, anche se tutti condanniamo senza appello ciò che è accaduto, si può ancora reperire l’elemento del senso.

Questa vicenda invece è completamente in eccesso rispetto al senso, un po’ come la polio descritta da Philip Roth in Nemesi, o come La peste di Camus: non c’è alcun senso. Tant’è che nelle prediche del pastore a capo della cittadina devastata dalla peste, noi abbiamo da una parte la predica, diciamo, ancora moderna, in cui il pastore evoca un senso nascosto, come dire: se c’è la peste e la peste ammazza l’innocente, da qualche parte nella legge di Dio c’è un senso che noi non riusciamo pienamente a cogliere; ci sta castigando, ci sta redimendo, eccetera, anche se a noi sfugge il senso, c’è del senso! Ma nella seconda predica, di fronte a una città ormai completamente devastata dalla peste, il male resta imperscrutabile, privo di senso. Nella seconda predica – che è postmoderna – il pastore non può evitare di riconoscere che non c’è alcun senso nella morte innocente dei bambini portati via dalla peste. Ecco, il nostro tempo assomiglia al tempo descritto in questa seconda predica. Il non senso non trova più in Dio – o nell’ideologia – il suo senso ultimo, ma appare nella sua nudità sconcertante.


Prendo quello che dici e lo confronto con certe letture di Negri, di Badiou, di Virno, di Žižek, che forse potrei mettere in parallelo alla tua formazione dagli anni Settanta in poi: per loro queste forme di violenza, di insorgenza, sembrano invece manifestare un senso nella singolarità dell’evento. Andando oltre Lenin, che considerava la violenza strumentale, si pensa la violenza rivoluzionaria attribuendole un valore intrinseco in sé. Addirittura il valore «redentivo», «divino» che indicava Benjamin, e ridefinendolo come un valore teologico, di apparizione, di manifestazione. Cosa ne pensi di quest’idea di violenza?

In psicoanalisi c’è un’espressione, «passaggio all’atto», con la quale si tende a definire l’atto violento. Esso si produce quando qualcosa nel discorso non rientra più nell’ordine simbolico e sfora nel reale, come accade nella clinica delle psicosi che è sempre una clinica del passaggio all’atto. È il caso del ragazzo-killer di cui abbiamo appena parlato. Esiste anche un’altra espressione per definire l’atto, che è acting out: ma gli atti di questo genere rispondono a una logica diversa da quella dei passaggi all’atto.

Dal punto di vista clinico il passaggio all’atto è l’atto erratico che sfora il simbolico; ad esempio il ragazzo autistico che per liberarsi di sua madre uccide il bambino che lui è ammazzando altri bambini. Perché non l’ha detto? Perché non è riuscito a mettere in parole questo e ha dovuto realizzarlo in un passaggio all’atto? Perché è psicotico. Nella psicosi c’è sempre questo rischio: che il discorso non sia in grado di essere sufficientemente soggettivato, non sia in grado di mediare sufficientemente le tempeste emotive che attraversano il soggetto e allora possiamo avere un passaggio all’atto eteroaggressivo o autoaggressivo. La scarica violenta verso l’esterno viene al posto dell’impossibilità di includere l’interno caotico in un discorso. Se vuoi, il suicidio melanconico è la forma più classica del passaggio all’atto psicotico. Diversamente l’acting out è un atto che resta in una dialettica aperta con l’Altro. È un atto che esige di essere interpretato. In questo caso la violenza vorrebbe mantenersi in rapporto all’Altro, come, per esempio, può accadere in uno sciopero. Nel passaggio all’atto psicotico invece ogni dialettica con l’Altro è interrotta bruscamente. L’aggressività cieca dei black bloc rientra in questo quadro.


Come pensi si possa uscire da questa violenza psicotica?

Soltanto con l’esercizio della traduzione, cioè l’esercizio simbolico della traduzione, in cui secondo me consiste il politico nella sua essenza. E da questo punto di vista la psico-analisi non è solo in rapporto alla politica ma è politica, perché è una prassi che s’incentra sulla traduzione. Cosa facciamo come psicoanalisti? Esigiamo che vi sia traduzione, cioè esigiamo, per esempio, che la pulsione, l’Es, che esigerebbe il passaggio all’atto, la scarica immediata, venga tradotta in un’altra lingua; o che le ingiunzioni ipermorali, sacrificali, repressive del Super-io vengano tradotte in un’altra lingua… La traduzione non è repressione, ma è il cuore di ogni pratica democratica del desiderio.

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