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lostraniero

I buoni, i cattivi e i quasi buoni

E. Ferrara incontra Luca Rastello

I-Buoni-E-I-Cattivi-coverIl romanzo I buoni di Luca Rastello inaugura una collana di Chiarelettere dedicata alla narrativa: non libri sentimentali, psicologici o di intrattenimento – ha spiegato l’editore – ma racconti e testimonianze controversi, filtrati dalla fantasia per permettere agli autori di raccontare in libertà quanto sta loro a cuore. La letteratura può osservare la realtà lucidamente, senza farsene travolgere. Può essere incisiva e quando ci riesce influenza l’immaginario più di mille denunce. Ci sono poi vicende sulle quali la storia si avvita perché esprimono cambiamenti che travalicano gli individui e che si riferiscono ai modelli culturali, ai gruppi sociali o ai cicli economici e istituzionali. È impossibile fornirne spiegazione o fare bilanci mentre sono in corso, si può al più provare a raccontarle. È quanto ha sempre fatto Rastello, con narrazioni dirette e vissute. Il suo primo libro, La guerra in casa (Einaudi 1998), divenne un riferimento per la cooperazione internazionale e diede voce ai dubbi sul ruolo del volontariato dopo la guerra in Jugoslavia. Piove all’insù (Bollati Boringhieri 2006) è un ritratto dell’Italia schizofrenica degli anni settanta vissuta da un adolescente attraverso il conformismo dei genitori. Binario morto (Chiarelettere 2013) scritto con Andrea De Benedetti, racconta con ironia e sofferenza le bugie del Tav. Io sono il mercato (Chiarelettere 2009) è la storia (vera) di un narcotrafficante: uno sguardo criminale sul mondo.

Completano il quadro delle opere di Rastello Undici buone ragioni per una pausa (Bollati Boringhieri 2009), Dizionario per un lavoro da matti (Ancora del Mediterraneo 2010) e La frontiera addosso. Come si deportano i diritti umani (Garzanti 2010), oltre al lavoro come giornalista con “la Repubblica”, le collaborazioni con “Diario” e “Lo straniero” e la direzione di “Narcomafie”, di “Osservatorio sui Balcani” e dell’“Indice dei libri del mese”. “Narcomafie” e “Osservatorio sui Balcani” sono rimasti esempi di un’informazione pratica, non convenzionale, con riferimenti non ai comunicati stampa ma all’interno delle realtà descritte, sempre fondamentali per chi deve occuparsene in prima persona. Per lavorare così in profondità, però, occorre immergersi in questi mondi e attraversarli con tutti i riflessi e gli strascichi che ciò comporta, anche quando poi uno pensa (o spera) di esserne fuori.

In quest’ultimo romanzo Luca Rastello racconta l’inferno dei cattivi, ma anche l’indicibile del mondo dei buoni di cui l’autore riconosce di far parte. Aza, una ragazzina sfuggita alle violenze e ai cunicoli fognari di una città dell’est, Bucarest probabilmente, portata in comunità a Torino per essere recuperata, rimane l’unica figura in equilibrio quando cresce la tensione, mentre intorno crollano i miti personali e collettivi di un intero sistema di verità.

 

Forse ricordi l’album del 1974 I buoni e i cattivi di Edoardo Bennato: Arrivano i buoni, Tira a campare, Uno buono, Bravi ragazzi... sembra la colonna sonora del tuo libro.

Avevo 13 anni, quell’album mi colpì. È curioso questo accostamento del disco e del libro, ma non è strano perche entrambi parlano di temi universali. Ho sempre voluto raccontare di temi che per me sono universali e di cui bisogna discutere, anche se in molti casi di certi argomenti si parla meglio con la narrativa. Forse sono cose di cui può occuparsi solo la letteratura. Vale anche per quest’ultimo romanzo sul quale tutti si lanciano per indovinare quale sia il volto del protagonista, don Silvano. Potrei dire che questo don Silvano sono io. Non ho mai voluto attaccare qualcosa o qualcuno. A me interessa stanare il male che si annida nel mondo, anche nel mondo che ho descritto. Possiamo lasciarlo sullo sfondo il libro, ma ricordiamo che è un romanzo per scelta, non perché avevo fatto un’inchiesta e poi ho avuto paura di espormi.


Il tuo percorso è tracciato sul bordo, sul limite non solo geografico dell’esperienza. Nei tuoi libri si riconoscono spazi di verità soprattutto nelle zone di frontiera, le uniche davvero libere.

Sono sempre stato alla periferia delle mie esperienze. È una scelta a cui tengo molto perché per me è stato un principio morale quello di non chiudermi mai in una identità, non diventare mai un professionista. Ho rischiato di esserlo della Bosnia, tema di cui tutti mi chiedevano e mi chiedono tuttora, ma sono più di dodici anni che ho smesso di occuparmene, completamente. Proprio perché non volevo diventare il professionista della Bosnia o, peggio ancora, il – tutto attaccato – “professionista dell’antimafia della Bosnia”. Poi ci sono stati gli anni settanta, ma non volevo diventare professionista degli anni settanta, né dei rifugiati o dei matti. Questo saltellare sempre alla periferia delle mie esperienze è proprio una scelta, una cosa che ho voluto. Voglio avere un comportamento rispettoso nei confronti dei fenomeni che incontro, non voglio diventare in nessun modo la loro misura. Se m’irrigidisco lì dentro e mi ergo a professionista dell’interpretazione di un fenomeno, ne divento anche la misura, e secondo me saltarne fuori dopo che si è completata l’esperienza è una cosa sana. Mantiene il corpo elastico.


Bennato cantava anche Non farti cadere le braccia. È ancora possibile?

Il tema della disillusione e della disperazione è importantissimo. La disillusione che non diventa disperazione è la condizione in cui viviamo tutti noi che cerchiamo ancora di avere uno spazio di azione sociale. Io vivo molto d’illusioni. Non sono per niente un disperato sul piano sociale. Qualcosa faccio, con Fredo Olivero, con la Pastorale migranti, non con le sette autoreferenziali, perché penso che gli spazi ci siano ancora. Ci sono spazi di due tipi. Usiamo un termine imbarazzante, chiamiamola pure carità, nel senso filologico, non in quello dell’elemosina. Esiste una carità operosa e discreta, sobria, che s’incarna a volte in alcune parti di grandi istituzioni che non hanno bisogno di autolegittimarsi. La Chiesa, per esempio: in certi settori della Chiesa c’è ancora spazio. Oppure in piccole realtà che accettano di essere minoranze vere e non maggioranze travestite da minoranze che vedi oggi a fianco di Renzi, l’altro giorno dal Papa, il pomeriggio da Napolitano e la sera da Fazio. Non ditemi che quelle sono minoranze. L’illusione di uno spazio per l’agire sociale efficace io la coltivo, a patto che sia un agire sobrio, operoso, e non autoreferenziale e declamatorio. La disillusione che non diventa disperazione è importante praticarla, conoscerla, perché è insita nel cuore del lavoro sociale. Bisogna lavorare disillusi, per tante ragioni. Tutti quelli che fanno parte di questo mondo – d’accordo con noi o meno – hanno vissuto una disillusione, una sorta di desocializzazione rispetto alle idealità originarie. Quella disillusione ha tanti aspetti. È chiaro che quando vivi in un periodo storico in cui all’azione sociale sono affidati i lavori più sporchi di trasformazione dell’organizzazione civile, non puoi stupirti se il welfare diventa una forma d’imprenditoria, né se il modello d’impresa s’impadronisce anche dell’azione civica creando quella cosa orribile che è l’impresa sociale in cui sembra che nessuno si renda conto che il lato impresa fagocita il lato sociale. Ne è stata fatta una grande ideologia ma, di fatto, abbiamo preso un modello preciso, legato a un ordinamento che eravamo partiti per criticare, abbiamo accettato la professionalizzazione, la logica del marketing al posto della logica dell’intervento, e abbiamo avuto l’irrigidimento e la catastrofe delle organizzazioni.

Ho trovato molto bello il libro di Valentina Furlanetto, L’industria della carità (Chiarelettere 2013), che allinea diversi esempi e racconta cose importanti. Per esempio, il sociale è un mondo in cui la trasparenza è impossibile, non puoi leggere il bilancio di una ong. Si è inventato il bilancio sociale che è fatto di fantasie organizzate, di desideri, di pie ispirazioni che si vendono come se fossero un rendiconto democratico quando di fatto sono l’ennesimo velo di Maya sopra la realtà dei conti economici. Una realtà di marketing, concorrenziale, dove le ong si fanno la guerra spendendo ormai a volte fino al quaranta o al cinquanta percento dei fondi che raccolgono in pubblicità. Addirittura si fa il fund raising: si spendono soldi per fare soldi. Se nel bilancio ci metti pure i costi dell’apparato, alla fine sui progetti va pochissimo. C’è una disillusione legata alla trasformazione in industria di un mondo che voleva essere politica. E come industria è diventato peggiore di quella vera, perché sottrae i diritti ai lavoratori mentre quell’altra è ancora costretta da certi meccanismi trasparenti e controllabili a garantirli. Con il principio della motivazione, del fine, abbiamo messo da parte ogni altro valore. Inoltre, la nostra industria si trasforma in ideologia e così, oltre alla riforma nel senso della privatizzazione del welfare, ha realizzato anche la riforma del lavoro, nel senso della decostruzione dei diritti del dipendente. Questa è una forma di disillusione con cui bisogna fare i conti. Se lavori in quel mondo, devi sempre avere uno sguardo strabico: devi guardare quello che stai facendo, i progetti, ma anche il limite di questi progetti e del sistema. Se non lo fai è solo perché con dubbia, dubbissima buona fede ti assumi come portatore di un’ideologia. Crei un’ideologia per cui il valore che produci e vendi è superiore al modo in cui lo produci e lo vendi. Ma non sono convinto che sia così. Un’industria che doveva produrre socialità, produce capitali e posti di lavoro che reinveste su se stessa. Ci risponderanno che bisogna sporcarsi le mani, ma resta solo lo sporco, spariscono le mani.

Poi c’è una disillusione più profonda che sta all’interno del nocciolo fondamentale – quello ideale, non ideologico – di questo mondo nato su una relazione di base come è la relazione di aiuto, che in sé è demoniaca perché non è mai simmetrica. Contiene dentro di sé un rapporto di potere e non si può ignorarlo. La relazione di aiuto pone l’aiutato in uno stato di minorità. C’è un esempio che ho già usato: sono stato odiato a morte da uno dei bosniaci che avevo accolto durante la guerra in Jugoslavia. Ho capito perché mi odiava, mi rendo conto. Lui è stato il primo che ho accolto e messo in una situazione di minorità. Aveva la vita spezzata e dei figli piccoli, e io pensavo di potergli dare di nuovo delle chance. Lui però chiedeva di essere mio pari, voleva essere un fratello che prima o poi ricambierà. Il solo fatto che io abbia poi accolto altri, non solo lui, ci mise in crisi. Si era opposto fieramente, ma c’era lo spazio, c’era l’emergenza e arrivarono molti altri – che scherzi fa l’emergenza. La relazione finché era uno a uno poteva essere rovesciata, era reversibile, poteva portare alla restituzione, alla parità. Dopo è diventata fatalmente una relazione di potere in cui il potere io lo detenevo e lui lo subiva. Era tenuto in una condizione di minorità essendo parte di un gruppo, di una massa.

Quando il rapporto di aiuto da “uno a uno” diventa “uno a molti”, non è più reversibile, si trasforma in istituzione. In quella istituzionalizzazione c’è il demonio del potere che si può usare o si può non usare. Si può anche usarlo riflettendo criticamente su se stessi, ma è potere nel senso puro e assoluto. Non importa quanto potere e su quante persone, non importa che tu sia un dittatore o semplicemente il leader di una piccola ong, è potere sulle coscienze e sulle persone. Quando su questo si innescano i meccanismi pericolosi del carisma e del narcisismo, oltre che assoluto, il potere diventa sleale, crudele, calpesta le persone, i diritti e si fa forte di un’investitura quasi divina, di un senso superiore di cui il capo è portatore. In luoghi come la Certosa si festeggiano i riti pagani del capo, non i riti religiosi. Il mondo cattolico, quello pulito, è il primo minacciato da questo paganesimo narcisista che si incarna nella maggior parte delle onlus basate su carismi.

In queste onlus, nei mondi dei don Silvani – e ripeto che se non riflettiamo continuamente sul lavoro sociale, sulla relazione che istituiamo con il potere, siamo tutti don Silvano – è necessaria la vicinanza con i poteri veri, quelli forti, con la comunicazione, Fazio, le istituzioni, Napolitano, gli esecutivi, Renzi, e i poteri ideali e ideologici grandi, come il Papa. Bisogna stare sempre con i potenti ma bisogna andarci con le toppe, perché così li si lucida, gli si dà una vernice sociale. Si diventa, con astuzia quasi non percepita, l’ideologia di quei poteri, la loro conferma, la dimostrazione che sono buoni e il cittadino fa bene ad affidarcisi senza critica. Questo è un sequestro delle coscienze, feroce e crudele quanto più avviene ai danni dei ragazzi, come accade sempre. Si sequestrano i più giovani, li si imbottisce di simboli e gli si condiziona la vita. Gli si insegna ad accettare la minorità nel mondo del lavoro, la minorità sessuale – perché c’è un clima di molestie che io racconto e che esiste ovunque, anche solo l’idea che la discriminazione sessuale sia la vera forma del mondo – all’ombra di una grande ideologia che è costruita proprio sull’incontro fra l’azione sociale, il potere e il narcisismo.

Il narcisismo a volte è anche percepito. Quando si fa una grande azione collettiva, per esempio per l’antimafia, tutti i buoni accorrono a manifestare meno quelli locali, meno le vere vittime. Come mai? Perché sono più stupide? Hanno paura? Non sanno qual è il loro bene e siamo noi che dobbiamo spiegarglielo? Oppure perché percepiscono che c’è una divaricazione fra questa autoreferenzialità narcisista e il riformismo sincero, quello che si è battuto contro la mafia con pochi esempi ma luminosi e con martiri veri. Peppino Impastato non è il simbolo agitato da chi adesso deve legittimare se stesso, e così Libero Grasso e gli altri. La sostituzione dei simboli all’agire collettivo, di coscienza, sobrio e operoso, crea gli idoli.

Per chiudere il cerchio sulla disillusione, se questa è indispensabile e non diventa disperazione è perché costituisce un’azione di smontaggio – non di demolizione – degli idoli. Smontare gli idoli significa liberare territori per agire. Gli idoli sono come i bunker nell’Albania del dittatore Enver Hoxha: occupavano tutto il territorio, ogni due metri c’era un bunker e non c’era più una strada, una spiaggia, una piazza. Abbiamo la coscienza occupata dagli idoli. Tirarli giù è un’operazione liberatoria, ma richiede una buona dose di disillusione.


Sono idoli anche le ali degli angeli: si dice che i pittori rinascimentali abbiano reso un pessimo servizio dipingendole, come se per il paradiso le mani non bastassero. Pensi che I buoni possa aiutarci a liberarci di queste ali posticce?

A questo libro tenevo tantissimo, perché tocca un nodo che sta diventando l’ideologia del nostro tempo. Ci sono autori che stimo e che l’hanno fatto in altri ambiti: Walter Siti per esempio ha trattato come nessuno in Italia il mondo della comunicazione, che è una delle ideologie moderne. Sono belli tutti i libri di Walter Siti, Troppi paradisi (Einaudi 2006), forse il migliore, parla della comunicazione e, in maniera beffarda, della costruzione delle protesi, della sostituzione. Io l’ho presa da un’altra parte, ma l’operazione è analoga, l’intenzione la stessa: ragionare su come il nostro tempo stia fingendosi eterno e si copra di un’ideologia giustificatoria e anche ricattatoria che condiziona le nostre vite. Che poi sono vite agre nel senso bianciardiano del termine: consegnate alla macchina del consumo, del terziario onnipotente e onnipervasivo. A questo libro tenevo perché per me rappresenta l’assalto al presente e alla sua ideologia. Un conto è l’assalto che si fa con un’inchiesta su un settore specifico come il narcotraffico o il Tav, un conto è l’interpretazione del passato e la propria collocazione nel presente alla luce di quello che è stato, come in Piove all’insù. Questo invece è direttamente il confronto, la lotta contro quel demonio che è l’ideologia giustificatrice del presente.


Nell’album di Bennato, l’ultimo pezzo era Salviamo il salvabile, ma come?

Il passaggio necessario è eliminare i feticci e i simboli. Un feticcio è la memoria, un altro è la legalità. Quando si dice memoria o legalità si getta un’ombra di ricatto sulla platea, chi non è d’accordo è un fascista. Appena enunci quelle due parole si crea un accordo universale. Invece bisogna andare a vedere meglio. A me piace quel passaggio all’inizio di I sommersi e i salvati in cui Primo Levi ci avverte che il suo è un libro fondato sulla memoria e quindi su una sostanza scivolosa di cui è bene diffidare. Non santifica la memoria, spiega che la sua è una narrazione privata, orientata e con una precisa regia. Si può costruire con la memoria un mondo, ma il nemico dell’oblio secondo Primo Levi non è la memoria, è la precisione. Anche Robert Musil parlava dell’utopia dell’esattezza dell’anima, utopia vera, utopia politica. Se diamo un nome a tutti quelli che sono scomparsi nella voragine di Treblinka, altro che memoria. Se invece di ricordare le vittime costruendo simboli diamo loro un nome, un cognome e una provenienza facciamo un’opera contro l’oblio formidabile, ma un’opera da ragionieri, di contabilità. Se fossimo capaci di ridare anagrafe e catasto alle terre espropriate dai conquistatori militari, faremmo un lavoro storico epocale. La memoria è uno strumento, ma è la precisione che, correggendo la memoria, si batte contro l’oblio. I simboli servono adesso. La loro costruzione è il meccanismo che usano i nazionalisti per creare le guerre. Lo diceva Furio Jesi: esiste un uso del mito genuino che ne parla come di un eterno presente accessibile a tutti, sottratto alla storia, come un balcone da cui la storia la si vede e quindi ci si può fare su una riflessione critica. Oppure esiste la reversione del mito, la santificazione astratta dal fluire storico di qualcosa del passato. Che sia una vittima vera o un fondatore immaginario, come il principe Lazar per i serbi, quella di spargere il mondo di simboli, delle memorie nel senso di narrazioni soggettive ideologicamente orientate, è l’operazione dei nazionalisti.

Per la legalità vale lo stesso ragionamento. La legalità è un metodo, non un valore. La società è un patto tra diversi, concordato formalmente, e la legalità è la formalizzazione delle questioni che abbiamo concordato. È il metodo per far rispettare la formalità concordata, ma non è legittimità e non è un valore. Se io contrabbando la legalità come valore me ne impadronisco e legittimo solo me stesso, esattamente come si fa usando la memoria come un valore. Vernicio il mio potere con uno splendore indiscutibile e una capacità di ricatto formidabile. Se la legalità fosse un valore, allora sarebbe stato giusto denunciare gli ebrei nel 1940. La legalità feticizzata porta ad Adolf Eichmann, da nessun’altra parte.

Il feticcio della legalità fa danni anche adesso e non sono solo virtuali. Guardiamo l’attualità: la procura di Torino ha in corso due processi per due roghi. Uno è stato acceso a Torino quando un gruppo di cittadini si è staccato da una manifestazione che protestava contro una presunta violenza carnale – che poi si è facilmente scoperto non essere avvenuta – e ha cercato di dar fuoco alle roulotte del campo rom di Cascina Continassa. In quelle roulotte c’erano esseri umani, anche bambini. La procura di Torino ha incriminato i responsabili con l’accusa di incedio doloso: massimo della pena sei anni. La stessa procura con un’intercettazione casuale a Bologna ha preso quattro ragazzi – quattro su una massa, facendone un simbolo – che avevano danneggiato un compressore nei cantieri Tav della val Susa – anche lì si trattava di un rogo, ma il compressore incendiato era un oggetto – e li ha incriminati con l’accusa di terrorismo: azione con finalità terroristica, pena minima vent’anni. Questi due pesi e due misure non si giustificano con la legalità come metodo. Si giustificano solo con un uso della legalità come valore, e allora c’è una finalità.

La procura di Torino ha sempre istituito i processi per i fatti del Tav su un principio sacrosanto legato al diritto liberale: non si giudica l’opportunità dell’opera, ma il singolo reato e il singolo responsabile. Se però si aggiunge la finalità di terrorismo e si va a vedere il codice si scopre che un tempo il terrorismo era legato a reati associativi, all’appartenenza a organizzazioni con finalità terroristiche. Dopo le Torri gemelle è stata aggiunta la possibilità di considerare terroristico anche un atto individuale – quei quattro non appartengono a nessuna organizzazione – volto a imporre una scelta allo stato e metterlo magari in imbarazzo nei confronti di altri stati, per cui è terroristico qualsiasi atto contro il Tav. Bisogna considerare che la stessa procura che ha giustificato i processi parlando di singoli reati e singoli colpevoli, senza entrare nel merito delle questioni, invece, per poter dare la finalità di terrorismo interviene sul merito dell’opera. Ma così contraddice se stessa, perché allora c’è una legalità finalistica che conta più della legalità come metodo: bisogna arrivare a un bene superiore e per realizzarlo quattro ragazzi, se tutto va come chiede la procura, dovrebbero finire la loro vita in galera. Non solo, se la finalità terroristica è svincolata dalla personalità collettiva ed è legata all’idea di voler condizionare le scelte dello stato, poiché in Italia esiste, introdotto da personaggi illustri di quella stessa procura, il reato di concorso morale, tu, io e i lettori di “Lo straniero” siamo tutti potenziali terroristi e domani potremmo essere incriminati. Qui abbiamo un vulnus così forte che mi fa pensare: perché ci indignamo tanto per le Pussy Riot se ce le abbiamo in casa? Ci sono delle Pussy Riot italiane che stanno pagando come capri espiatori una svolta che non è democratica, che è una sottrazione di democrazia nel nome di una legalità ideologica superiore all’idea della legalità come metodo. E tutti coloro che feticizzano la legalità non fanno che creare un’ideologia, l’unzione sacrale di scelte che stanno distruggendo la democrazia e il diritto italiano, oltre che quattro giovani vite.


Avevi già scritto dei romanzi. Piove all’insù è un romanzo vero. Undici buone ragioni per una pausa è un’antologia. Poi c’è Il dizionario per un lavoro da matti che, per quanto fuori dagli schemi, è narrativa. Ora questo nuovo romanzo, diviso in due parti…

I buoni è diviso in tre parti, in realtà: una parte che si svolge in oriente, una parte che si svolge qui e una parte finale in cui quell’oriente arriva a chiedere conto. L’oriente entra nel libro in due momenti, nel primo caso perché la narrazione va in quella direzione, nel secondo quando viene a chiedere conto…


…e porta con sé la Bibbia.

Volevo raccontare una forma del male che s’incarna in tutti, anche in me. C’è un personaggio in cui mi identifico. Si tratta di Andrea che è pessimo, cattivissimo. Spero di essere un po’ meglio di lui però ho comunque usato me stesso per renderlo credibile. Raccontare il male è stata un’operazione difficile e delicata. È un libro a cui penso da quindici anni e su cui lavoro da tanto e vorrei davvero che qualcuno lo leggesse solo come un romanzo e non come un caso. Quello è il mio fine. Però un racconto di favolette non serviva. Un romanzo ha senso se si confronta con la realtà, se ingaggia battaglia con tutto. Se non lo fa, non è un romanzo, è marketing, è un cartone animato, intrattenimento. Va benissimo, penso che siano cose con una loro dignità, ma un romanzo è un’altra cosa. La parte di Bucarest l’ho scritta almeno dieci anni fa e ci sono tornato sopra mille volte. Laggiù ci sono i figli di questo mondo, per usare l’espressione di Heinrich Böll. Qui invece ci sono i figli della luce. Per raccontare questi due mondi ho lavorato sul linguaggio con Alice Spano, un’editor molto brava. Abbiamo cercato di rendere il testo inattaccabile sul piano narrativo visto che su quello dei contenuti, non c’è dubbio, crea scompiglio. Abbiamo cercato di organizzare le diverse parti in modo da poterle tutelare: ogni singolo periodo, ogni frase, ogni virgola, ha una ragione per essere lì. Abbiamo usato molto tempo per passare il libro al setaccio. Un aggettivo che vorrei fosse riconosciuto sul piano formale a questa scrittura è sorvegliata. C’è una sola frase molto sghemba, ma è perché quella frase è proprio un gioco enigmistico. Un personaggio a un certo punto scompare e nessuno sa più dove sia. C’è anche la storia di questa scomparsa, non importa che si sappia, però lì, nella frase sghemba c’è scritto dov’è, con un gioco enigmistico.


Il tuo percorso narrativo – la guerra, i profughi, i rifugiati, le narcomafie – sembra un’odissea del Duemila, un’esplorazione del presente, fatta di approdi necessari e ripartenze faticose, con lo sguardo verso le colonne d’Ercole.

Io, come sai, ci sto andando verso le colonne d’Ercole, e ho anche paura, però non posso farci niente. Spero profondamente che di là ci sia un Dio capace di giustizia. Credo kantianamente che abbiamo bisogno almeno all’infinito di una giustizia che di qua non c’è. Poi non importa se è solo un bisogno. Magari tutta la divinità è in quel bisogno che ci fa comportare kantianamente come se la giustizia alla fine arrivasse.
La figura di Ulisse mi piace ma è troppo elevata. Mi piace quest’idea di andare a esplorare, sentire, provare. Il ritorno è una finzione narrativa, il viaggio va per forza oltre le colonne d’Ercole. Il senso del viaggio è proprio che finiremo di là, tutto quello che costruiamo da questa parte acquista senso se ci sforziamo di arrivare fino sulla soglia, per affrontarla con dignità. Dicevano i saggi stoici: cerchiamo almeno di arrivare in piedi dove saremo comunque trascinati per i capelli. Oltre che Ulisse a me piace Achille, perché sa benissimo dove stiamo andando tutti, sa cosa succede quando il meccanismo della storia si mette in moto. Oltretutto, ha perso Briseide. Così si costruisce una tenda, si sistema lì dentro, inizia a offrire da bere agli amici e manda a dire: fate senza di me, io non combatto. Non è l’ira funesta, questa è saggezza: sospendere l’ultimo passo, poi tanto si andrà, ma intanto ci si può fermare.

Lo dice anche un’altra meraviglia del mondo classico, che ho sempre adorato, la prima egloga di Virgilio negli ultimi cinque versi: “Hìc tamen hànc mecùm poteràs requièscere nòctem / frònde supèr viridì: sunt nòbis mìtia pòma, / càstaneaè mollès, et prèssi còpia làctis, / èt iam sùmma procùl villàrum cùlmina fùmant, / màiorèsque cadùnt altìs de mòntibus ùmbrae”. Melibeo deve andarsene in esilio, sta per partire. Titiro è lì vicino e canta: lui è riuscito a conservare la terra. Si danno l’addio. Melibeo sta partendo. Lo si vede con il piede sospeso. Sta per fare il primo passo verso la valle assieme alle sue pecore in questo viaggio senza ritorno e Titiro, usando questo verbo ambiguo, poteràs – che vale come “avresti potuto”, o “potresti ancora” – gli dice: “però avresti potuto fermarti a riposare qui con me sopra queste fronde verdi, abbiamo mele dolcissime, castagne morbide, formaggio in abbondanza e già si vedono da lontano i tetti dei villaggi che fumano, mentre dai monti più alti cominciano a scendere le ombre”. L’egloga finisce così. Melibeo ha il passo sollevato, non sapremo mai se si ferma o se va. Quella sospensione è la forma di saggezza più grande. Lì rifletti sulla storia, con un piede per aria sei nel mito genuino, presente, non nella costruzione degli idoli che servono alla storia per divorare gli individui. Il passo sospeso di Melibeo è il posto più prezioso dove stare, lì non ti nascondi, ma ti esponi e ragioni.

 

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