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eschaton

L’eterogenesi del lieto fine

Jane Austen tra teologia ed economia

Raffaele Alberto Ventura

C’è un detto fra i nostri antenati:
che tutte le risoluzioni più insensate e pazze
tornano sempre a nostro vantaggio.
Aristofane, Le donne al parlamento

laurence-in-pride-and-prejudice-laurence-olivier-5123266-1024-768Care amiche di Cosmopolitan, da tempo mi sollecitate perché io risponda alle vostre domande. In amore è opportuno pianificare una strategia? Cosa accade alla divina Provvidenza dopo la morte di Dio? Qual è il rapporto tra Hegel e Darwin, tra la teodicea e la cibernetica, tra Adam Smith, Elisa di Rivombrosa e Terminator? Per rispondere a queste domande apparentemente sconnesse dobbiamo partire da Jane Austen: dal testo, un corpus di esperimenti sociologici in forma di romanzi, e dal contesto, un periodo di transizione da un universo finalistico a un mondo autoregolato. Scopriremo che l’amore è informazione, che i difetti sono la nostra arma migliore e che forse dobbiamo tutto a una centenaria disputa teologica.

Ma cominciamo dal testo, ovvero dal più celebre romanzo di Jane Austen, Orgoglio e pregiudizio, pubblicato nel 1813: storia di una ragazza che rifiuta l’avvilente caccia al marito cui si dedicano le sue sorelle e poi finisce per innamorarsi, far innamorare e infine sposare il più ricco dei mariti ricchi, il fascinoso signor Darcy. Si capisce l’attrattiva che può esercitare questa parabola sul pubblico femminile: Elizabeth Bennet è brillante, volitiva, anticonformista, e senza fare nessuna concessione alla sua dignità di donna culturalmente emancipata ottiene comunque il risultato ottimale d’accasarsi e pure bene.

Che coincidenza sorprendente; anzi che prodigio, degno d’una favola! Per essere un’icona della lotta contro le convenzioni sociali, una «sovversiva proto-femminista», Elizabeth è insolitamente fortunata. Sarebbe stato un lieto fine se Lizzy fosse rimasta zitella? Più sovversivo forse, ma lieto certamente no. Sarebbe stato un lieto fine se Darcy si fosse rivelato povero in canna? Dio ce ne scampi. Avremmo avuto una martire del romanticismo, ecco, o una storia lugubre alla Thomas Hardy, ma non certo un’eroina. In questo caso Orgoglio e pregiudizio sarebbe stato tutt’altro romanzo e non avrebbe riscosso l’enorme successo di cui gode oggi ancora, due secoli dopo la sua pubblicazione. Elizabeth potrà anche fregarsene egregiamente delle diecimila sterline di rendita di Darcy — al cambio attuale, quattro milioni di euro all’anno — ma che dire della lettrice che sospira, si strugge, si addolora e infine esulta assieme alla sua eroina? È anche per il denaro di Darcy che sospira, per i suoi soldi che si strugge, per il suo patrimonio che si addolora, insomma per il suo capitale che esulta.

Raramente le fantasie sono politicamente corrette; non pretendiamo allora che lo siano le loro esegesi. Nessuna lettrice vagheggia il destino della sorella Lydia Bennet, che in preda al delirio della passione sposa un affascinante farabutto squattrinato. A rischio di passare per superficiale e avida, la lettrice di oggi come quella di ieri ha il diritto di sognare un nobiluomo abbastanza ricco da non condannarla a una vita di miseria e di mansioni domestiche, invece di un compagno progressista che le sbologna la stiratura delle camicie per ragioni di budget. Altro che venalità, in fondo si trattebbe soltanto di compensare le condizioni materiali svantaggiose che la società impone al genere femminile: permettersi di moraleggiare su quest’aspirazione è quantomeno inelegante. In Mansfield Park, quando Fanny rifiuta per amore di sposare un buon partito perché innamorata di un cugino, viene rimandata dallo zio a stare per qualche tempo presso la sua famiglia d’origine per schiarirsi le idee su cosa vuol dire essere poveri: una parentesi molto istruttiva per l’eroina e per la lettrice. Nel caso delle sorelle Bennet la principale delle condizioni svantaggiose è l’istituto dell’entail, che impedisce alle figlie femmine di ereditare il patrimonio del padre e perciò le costringe a trovare un marito per essere mantenute. «Trovare un lavoro» non è naturalmente all’ordine del giorno, poiché per i vent’anni precedenti le sorelle sono state formate alla sola professione d’essere brave mogli, e qualsiasi altra educazione le avrebbe rese inadatte al compito. L’iperattiva mamma Bennet incarna comicamente questa urgenza, ma il suo fanatismo è la logica conseguenza d’un ordine economico. In questo senso è rivelatore uno scambio tra i coniugi Bennet nel quale s’intravede l’umanità tragica d’una donna che veste il ruolo ingrato di madre oppressiva come fosse un costume di scena:

— If it was not for the entail, I should not mind it.
— What should not you mind?
— I should not mind anything at all.

D’altra parte il finale di Orgoglio e pregiudizio non sarebbe lieto nemmeno se Elizabeth Bennett, pur d’acchiappare un marito ricco, avesse dovuto accontentarsi d’un uomo sgradevole come il cugino Collins. Anche in questo caso, nessuna lettrice sarebbe stata sedotta dal romanzo di Jane Austen, la cui trama avrebbe ricordato fin troppe unioni lucrose ma infelici. Non sarebbe stata una favola questa, bensì un’equazione. Austen dedica una gran parte del romanzo a mettere in guardia la lettrice dai matrimoni d’interesse e a criticare la stupidità di tante giovani donne calcolatrici, ma più spesso cattive calcolatrici, come sembra essere l’ingenua Charlotte Lucas che accetta la proposta di Collins. Si capirà in seguito, tuttavia, che in fondo nemmeno questo matrimonio è venuto tanto male, per via del carattere adattibile di Charlotte: non tutti gli uomini sono perfetti come Darcy, ma d’altra parte nemmeno tutte le donne sono alla sua altezza; insomma, se l’universo è ordinato come dicono, qualcuna dovrà ben trovare la felicità accanto al cugino Collins. L’importante è non fare violenza al proprio cuore: Austen è sicuramente favorevole a una certa mobilità sociale (perlomeno tra aristocrazia e borghesia latifondista) ma questa non deve assolutamente essere il fine di una ragazza; semmai l’effetto «non intenzionale» della sua buona condotta.

Matrimonio d’interesse e romanticismo sconsiderato costituirebbero un’alternativa inconciliabile se appunto Austen non descrivesse una terza via. Ma questa terza via è difficile da pensare. L’ironia con la quale abbiamo riassunto la trama di Orgoglio e pregiudizio è il segno di questa difficoltà. Quando Elizabeth annuncia il suo fidanzamento alla famiglia, dopo mesi in cui aveva manifestato la sua antipatia per Darcy, la sorella Jane e il padre si scandalizzano perché sospettano che l’interesse economico abbia avuto la meglio sull’amore:

«And do you really love him quite well enough? Oh, Lizzy! do anything rather than marry without affection. Are you quite sure that you feel what you ought to do?»

«Lizzy, said he, what are you doing? Are you out of your senses, to be accepting this man? Have not you always hated him? (…) He is rich, to be sure, and you may have more fine clothes and fine carriages than Jane. But will they make you happy?»

Elizabeth deve impegnarsi per dimostrare la totale autenticità del suo amore ma il lettore, che ha potuto seguire passo a passo la trasformazione delle inclinazioni nell’animo della protagonista, non ha motivo di dubitarne. Si chiama «sospensione dell’incredulità» ed è quella disposizione dello spirito che permette di lasciarsi coinvolgere dalle più inverosimili storie di fantascienza. Ecco, appunto: e se Orgoglio e pregiudizio fosse proprio un romanzo di fantascienza? Come più tardi Jules Verne, Austen mette in scena una certa «macchina» dal funzionamento sbalorditivo, e ciò non inseguendo una personale donnesca fantasia bensì sotto l’influenza del pensiero «scientifico» della sua epoca. Il finale di Orgoglio e pregiudizio è lieto perché Elizabeth, seguendo il suo cuore, finisce per trovare ciò stesso che le avrebbe indicato la ragione se soltanto l’avesse ascoltata: ed è questa coincidenza appunto, questo «giro largo» e tortuoso per arrivare alla felicità, il soggetto del romanzo. È proprio facendo tutto il contrario di ciò che sarebbe stato logico fare allo scopo di sedurre Darcy che Elizabeth finisce per sedurlo. È proprio rifiutando l’insegnamento materno, rifiutando cioè di pianificare, che Elizabeth crea le condizioni perché si realizzi spontaneamente il suo destino.

Il finale narrativo, secondo una formula efficace proposta da Giulio Savelli, è «il luogo dove la coerenza della storia si può considerare virtualmente massima» perché in esso vengono al pettine i diversi nodi teleologici3. In questo senso, ogni narrazione descrive una diminuzione del grado di entropia all’interno del sistema finzionale, ovvero il passaggio da uno stato di equilibrio disordinato a uno ordinato. Fin dai tempi della Poetica di Aristotele, raccontare una storia (nel caso specifico, una tragedia) significa articolare la relazione tra i fenomeni e i loro effetti necessari. Ma l’economia narrativa serve a mimare un altro genere d’economia, ovvero l’economia dei rapporti umani. I drammaturgi, dal tempo di Sofocle a quello di Goldoni, sono stati i primi sociologi: nelle loro opere proponevano dei modelli generali per descrivere le leggi secondo le quali interagiscono gli individui. I più celebri romanzi di Jane Austen presentano una simile articolazione meccanica tra cause ed effetti, ma in questo caso l’economia narrativa risulta a prima vista sospetta, o ingenua, nel voler convincere il lettore che l’amore, se non viene intralciato, trova sempre il modo di trionfare e per giunta si accorda spontanamente con la razionalità sociale.

Orgoglio e pregiudizio, vogliamo dire, è il grande romanzo dell’eterogenesi dei fini. Una storia di conseguenze non intenzionali di azioni intenzionali o di conseguenze teleologiche di azioni non teleologiche. Il romanzo di Jane Austen permette addirittura d’osservare e studiare questo meccanismo, d’esaminare il modo in cui i fenomeni interagiscono in maniera apparentemente casuale e miracolosamente si organizzano per realizzare un (lieto) fine. Teniamo presente il contesto intellettuale: sei anni prima di Orgoglio e pregiudizio Georg Wilhelm Friedrich Hegel pubblicava la Fenomenologia dello Spirito dove con l’espressione «astuzia della ragione» (List der Vernunft) illustrava il processo storico-sociale di realizzazione di fini ottimali per mezzo di  cause accidentali, sorta di «divisione del lavoro» dello Spirito ad opera nella Storia universale. Nei romanzi di Jane Austen abbiamo a che fare con una sorta di «astuzia del sentimento» in tutto e per tutto simile, ma possiamo tranquillamente escludere che la scrittrice inglese avesse letto Hegel. Non ne aveva alcun bisogno, perché sul suolo inglese e nella sua stessa biblioteca erano presenti i testi e gli autori che avevano posto le basi di una rivoluzione concettuale che ha molti nomi e molti padri. Jane Austen non era digiuna degli scritti e delle idee dei filosofi che, da parte loro, effettivamente hanno ispirato Hegel, a cominciare da Adam Smith4.

Secondo l’economista australiano Nicholas Gruen, «Adam Smith is to markets as Jane Austen is to Marriage»5, nel senso che mostra nei suoi romanzi dei meccanismi simili a quelli esposti nella Ricchezza delle Nazioni. Tuttavia è bene tenere presente che l’universo austeniano è popolato praticamente soltanto da rentiers, ricchi o poveri che siano, impegnati a fare circolare il capitale e privi di qualsivoglia spirito imprenditoriale. Si tratta di quella società precapitalista, rurale, che negli stessi anni viene attaccata da David Ricardo e difesa da Thomas Malthus. L’affinità tra Austen e Smith è più profonda e riguarda non tanto l’origine del capitalismo industriale quanto il senso di ciò che chiamiamo «economia».

Adam Smith aveva coniato la metafora della «mano invisibile» nel 1776, ispirandosi ad autori come Adam Ferguson, David Hume e Bernard Mandeville, esponenti di una sotterranea tradizione di pensiero sul cosiddetto «ordine spontaneo» come l’hanno definita gli economisti neoclassici del Novecento6. Questa tradizione è una sequenza di ricerche seminali attorno a un fenomeno sociale contro-intuitivo, inverosimile e prodigioso proprio come l’amore di Elizabeth per Darcy. Il paradosso è in fondo lo stesso sul quale da secoli si arrovellavano i teologi quando si chiedevano come conciliare il libero arbitrio, determinismo e grazia divina: se il mondo è retto da leggi ferree, «cause efficienti» che operano meccanicamente senza alcuna finalità, com’è possibile che certi fenomeni sembrino realizzare spontaneamente un fine? Ecco un dettaglio che i neoclassici non sottolineano mai abbastanza, ovvero la filiazione della tradizione dell’ordine spontaneo dalla teologia cristiana e in particolare dalle dispute del XVI° e XVII° secolo sulla grazia divina7. Friedrich von Hayek, è vero, fa risalire la tradizione dell’economia liberale agli scritti «economici» del gesuita Luis de Molina per via della sua precorritrice teoria del giusto prezzo8, ma tralascia il fatto che Molina fosse soprattutto impegnato nelle dispute teologiche della sua epoca. Nel suo De concordia liberi arbitrii cum gratiae donis, divina praescientia, providentia, praedestinatione del 1588, Molina illustra in che modo la volontà umana, pur essendo totalmente libera, tuttavia sia conforme alla volontà divina.

Sebbene la problematica di Orgoglio e pregiudizio possa ricordare una complicata «quaestio»  teologica — De concordia amoris cum gratiae donis… — non vogliamo cercare influenze dirette là dove non ci sono; e perciò torniamo dalle parti di Chawton, East Hampshire, dove venne scritto il romanzo. I testi dei proto-economisti inglesi del Settecento facevano parte del bagaglio culturale di una persona educata all’epoca di Jane Austen. Prendiamo Mandeville, ad esempio. Il medico e filosofo d’origine olandese fu uno dei primi autori a riflettere sull’importanza del ruolo della donna nella società, in testi (tuttavia poco noti) come The Virgin Unmask’d and The Female Tatler e partendo da qui mise a fuoco una teoria che avrebbe avuto enorme influenza9.  Nella sua Favola delle Api, pubblicata tra il 1705 e il 1714, Mandeville descrive il bilanciamento spontaneo dei comportamenti umani e stabilisce la celebre equivalenza tra «vizi privati» e «pubbliche virtù». Secondo Mandeville gli agenti sociali non sanno perché fanno ciò che fanno e le conseguenze delle loro azioni sono spesso molto diverse da ciò che hanno previsto10. La sua tesi «scandalosa», forse la più scandalosa teoria sociale dai tempi di Machiavelli (dalla quale in fondo non è del tutto dissimile), è che i vizi possono produrre un effetto virtuoso cumulandosi, interagendo, compensandosi a vicenda, e che perciò è inutile anzi dannoso che i legislatori si affannino a sradicarli.

Questo effetto virtuoso si manifesta nel romanzo di Jane Austen. In effetti a cosa si riferiscono i termini «orgoglio» e «pregiudizio» che compongono il titolo del suo più celebre romanzo? Si tratta dei difetti che caratterizzano i due protagonisti, difetti che apparentemente li separano ma che in fin dei conti li avvicinano. Abbiamo detto difetti, ma avremmo potuto chiamarli vizi: nel proverbiale elenco dei sette vizi capitali l’orgoglio figura letteralmente e il pregiudizio indirettamente, in quanto forma intellettuale di accidia. Comunque li si consideri, orgoglio e pregiudizio sono vizi privati i quali, mescolati con energia e lasciati a decantare per qualche mese, finiscono per produrre un effetto positivo: l’amore e poi il matrimonio, pubblica virtù, tra Elizabeth e Darcy. Il tema dell’orgoglio è centrale nella teoria di Mandeville: si tratta di un sentimento egoistico che, indirettamente, porta le persone ad agire bene per gli altri. Nella Favola delle api, Mandeville cita proprio l’orgoglio tra gli esempi principali di vizio privato e ne illustra gli effetti socialmente utili:

Fraud, luxury, and pride must live,
While we the benefits receive

Nel romanzo di Austen come nella società, dall’orgoglio discendono ulteriori difetti che definiscono i caratteri dei protagonisti e producono ugualmente degli effetti collaterali benefici:

— My beauty you had early withstood, and as for my manners—my behaviour to you was at least always bordering on the uncivil, and I never spoke to you without rather wishing to give you pain than not. Now be sincere; did you admire me for my impertinence?
— For the liveliness of your mind, I did.

Altrove Darcy afferma di non saper rispondere alla domanda di Elizabeth: «Non siete troppo orgoglioso signore? E come considerate l’orgoglio: un difetto o una virtù?» Non potendo prevedere le conseguenze di un certo comportamento, è anche spesso difficile darne un giudizio di tipo morale. Orgoglio, pregiudizio e poi impertinenza, permalosità, cocciutaggine  sono i fattori che fanno durare il romanzo così a lungo, senza dubbio, ma anche le cause che ne determinano lo snodo: privati del fascino di questi loro difetti, di tutta evidenza Elizabeth e Darcy non avrebbero provato alcun interesse reciproco. Da un punto di vista narratologico, orgoglio e pregiudizio sono contemporaneamente ostacolo e ausilio: ecco insomma un romanzo che rimette in discussione le leggi antichissime della favola, trasformando il male in uno strumento del bene.

L’intero romanzo sembra essere una dimostrazione dell’opinione di Mandeville secondo la quale «l’armonia in un concerto risulta da una combinazione di suoni che sono direttamente opposti». Ma fermiamoci un attimo su questo. Il termine armonia non è neutro poiché sembra evocare il concetto di «armonia prestabilita» — da Dio s’intende — coniato da Leibniz proprio negli stessi anni in cui veniva scritta La favola delle api. Per risolvere un secolare stallo metodologico che impediva alla scienza di avanzare, Leibniz parlava di un universo programmato da Dio e nella sua Teodicea dimostrava come il Male nella Storia serve sempre in fin dei conti a produrre il Bene. Voltaire, le cui doti oratorie armoniosamente bilanciavano le limitate capacità intellettuali, si divertì prendere in giro questa teoria nel suo Candido; ma quello che Leibniz stava costruendo era un inestimabile modello teorico che avrebbe influenzato le scienze sociali, l’economia, la biologia e l’ingegneria11.

Non sosteniamo che Mandeville (giù fino a Austen) sia direttamente influenzato da Leibniz (su fino alla teologia scolastica), eventualità che anzi ci risulta abbastanza improbabile12, ma possiamo considerare questa ulteriore «coincidenza» come l’indizio di una rete d’influenze che segna l’apparizione e lo sviluppo di un sistema d’idee e di figure retoriche. Vi sono in questa rete dei nessi dimostrati, alcuni probabili, altri da dimostrare e altri ancora da immaginare. I nomi che citiamo sono semplicemente le coordinate di una transizione molto lenta dal provvidenzialismo teologico all’ordine spontaneo. Una transizione alla quale contribuiscono soprattutto autori di cultura protestante, influenzati dalle dispute attorno ai paradossi logici della predestinazione13. In generale, l’illuminismo inglese del Settecento era fortemente influenzato dalla teologia naturale seicentesca ovvero da un pensiero razionale che aveva rinnovato e popolarizzato il concetto di Provvidenza divina. Tirando le somme della secolare riflessione degli scolastici sull’argomento, filosofi (protestanti) come Newton e Leibniz avevano ancorato i loro modelli d’universo deterministico all’idea che Dio sovrintende alle cose del mondo non intervenendo occasionalmente (Provvidenza speciale), bensì per mezzo di leggi fisse e regolari (Provvidenza generale)14. Newton e Leibniz parlavano di Provvidenza, dunque, per indicare il contenuto finalistico di fenomeni retti da principi esclusivamente meccanici: erano riusciti in qualche modo a «liberare» la scienza dalla presenza di Dio ma senza ucciderlo, anzi lasciando una porta aperta alla teleologia nell’universo deterministico.

Nella sua opera, Mandeville (anche lui protestante) fa numerosi riferimenti alla Divina Provvidenza: secondo lui l’uomo è stato «progettato» dalla Provvidenza per la vita sociale (designed for Society) e per questo motivo anche i suoi vizi sono finalizzati al bene collettivo. Questa era, insomma, una concezione generale che vigeva nel Settecento in Inghilterra e che ritroviamo nell’influentissimo Dizionario di Samuel Johnson, mentore letterario di Jane Austen15 che definisce la Provvidenza come «The care of God over created beings, divine superintendence». Il grande romanzo della Provvidenza è, indubbiamente, Robinson Crusoe, che nel 1715 segnava la nascita del romanzo moderno all’insegna di una fiducia adamantina (e scrupolosamente didascalica) nella razionalità dell’ordine degli eventi terreni. Ma ritroviamo la mano di Dio in un romanzo del 1740 che anticipa il tema di Orgoglio e Pregiudizio: ovvero Pamela, or Virtue Rewarded di Samuel Richardson. Il romanzo (liberamente adattato per il pubblico italiano nel serial televisivo Elisa di Rivombrosa16) racconta la virtuosa resistenza d’una serva agli assalti di un ricco nobile fino all’apparizione del vero amore — apparizione spontanea e amore disinteressato anche in questo caso.

Pamela vuole essere una parabola cristiana, anzi puritana, sulla Divina Provvidenza. Come in Robinson Crusoe, si tratta di una posizione programmatica e il concetto viene formulato in maniera esplicita varie volte dalla protagonista del romanzo: trentacinque occorrenze per la precisione. Ma questo basta davvero a spiegare il comportamento risoluto della protagonista e ad allontanare ogni sospetto di opportunismo? Henry Fielding denuncerà l’inverosimiglianza dello snodo provvidenziale nella sua parodia del romanzo di Richardson, Shamela, storia di una sgualdrina che finge la virtù al fine di conquistare un buon partito e che ad alcuni ricorderà la protagonista femminile di Quell’oscuro oggetto del desiderio di Luis Buñuel (1977)17. Dietro ogni santerellina si nasconderebbe dunque una bieca calcolatrice, impegnata a far lievitare il proprio valore di mercato? Conclusione cinica e «tipicamente maschile» che qualcuno potrebbe voler applicare anche al caso di Elizabeth Bennet; se non fosse che oltre a guastare il piacere della favola, rovina anche l’interesse teoretico e sperimentale del romanzo, che sta appunto nell’illustrare come questa coincidenza sia resa possibile. Era facile per Pamela, in fondo, poiché guidata da Dio: ma chi guida i personaggi di Austen?

In Orgoglio e pregiudizio, che in qualche modo può essere considerato come una variazione sul tema di Pamela, non si parla né di «virtù» né di «provvidenza» eppure si descrive un dispositivo alquanto simile, sebbene spogliato da ogni riferimento religioso ed emendato del suo motore teologico. Soltanto nel suo ultimo romanzo, Persuasione, Austen fa un riferimento esplicito alla Provvidenza, alla quale la protagonista Anne Elliot rimpiange di non essersi affidata. Si tratta del romanzo più malinconico dell’autrice, concentrato sui lunghi anni di attesa che servono alla teodicea amorosa per realizzarsi e «indennizzare» l’eroina dalla sua sofferenza. In questa fase di transizione, tuttavia, è difficile capire se il riferimento alla Provvidenza è semplicemente una figura retorica, un uso lessicalizzato, un riferimento religioso o una combinazione inconsapevole di queste tre connotazioni.

Lo stesso identico problema si presenta nell’opera di Adam Smith. La differenza tra Richardson (che scrive trent’anni dopo Mandeville) e Austen (che scrive trent’anni dopo Smith) riflette in qualche modo la trasformazione delle dottrine dell’ordine sociale da Mandeville a Smith. Come rilevato da molti interpreti, il pensiero economico di Smith è fortemente influenzato dal dibattito religioso dell’epoca18 e dalla teoria di Newton19, ed è oggi indubbio che la famosa «mano invisibile» che regola il mercato discende «intellettualmente» dalla Provvidenza20: tuttavia nel testo smithiano di questa Provvidenza non resta che un alone; essa si è integralmente secolarizzata. Il riferimento all’intervento divino non sembra più essere necessario, perché i fenomeni si spiegano da sé nel loro rapporto reciproco. Non è più Dio a guidare le cause verso gli effetti, i mezzi verso fini: ma allora che cos’è? Ebbene si tratta di una nuova e diversa concezione della natura e della società — più generalmente, una nuova concezione dell’ordine delle cose nel mondo.

Il provvidenzialismo di Austen, ugualmente secolarizzato ovvero spogliato dai riferimenti teologici, descrive un mondo sociale nel quale le cose tendono ad «arrangiarsi» spontaneamente e, come nella Teodicea di Leibniz, il male tende a essere riequilibrato nell’ordine complessivo. Ad esempio, in Orgoglio e pregiudizio è proprio riportando a Darcy  i propositi di Elizabeth allo scopo di farla sfigurare (intenzione maligna), che lady Catherine De Bourgh incita Darcy a rinnovare la sua domanda di matrimonio (lieto fine). Talvolta, il male produce un bene apparente che produce un male: in Ragione e sentimento, precedente romanzo di Austen, è grazie a un piccolo incidente alla caviglia che la giovane Marianne Dashwood incontra l’affascinante John Willoughby, se ne innamora e lo fa innamorare; sfortunatamente, come si scoprirà in seguito, Willoughby è un farabutto. Questo male verrà comunque compensato e riequilibrato nel lieto fine del romanzo. In altri casi, il male produce un bene che produce un male che produce un bene, eccetera eccetera: in un celebre episodio di Orgoglio e pregiudizio, mamma Bennet costringe la figlia maggiore Jane a recarsi dal signor Bingley a cavallo sotto la pioggia, sperando che si pigli un malanno e che resti più a lungo a casa di lui; questo stratagemma permette effettivamente ai due di conoscersi meglio e d’innamorarsi, pur mettendo a rischio la vita della ragazza; ma d’altra parte il palese artificio lascia nascere il sospetto che Jane sia soltanto una venale cacciatrice di dote, e questo spinge Bingley ad allontanarsi da lei; tuttavia questa situazione è anche un’occasione per la sorella Elizabeth di conoscere meglio il signor Darcy, farlo innamorare e poi convincerlo a convincere Bingley della purezza dei sentimenti di Jane.

Quest’ordine superiore risulta evidentemente molto difficile da comprendere per gli uomini e le donne che non hanno una visione globale. Qualcuno ha parlato del ruolo del «fato» o del «destino» nei romanzi di Austen, rilevando la frequenza di questi termini21. Si parla, nella teologia cristiana, di una «economia della salvezza». Nel pensiero patristico l’oikonomia esprimeva il rapporto tra le parti e il tutto: l’economia trinitaria, in particolare, è la configurazione che permette di conciliare il monoteismo con le tre figure — Padre, Figlio, Spirito — che «compongono» l’unità divina. Come ha notato Giorgio Agamben22, non è possibile comprendere l’origine del pensiero economico moderno senza fare riferimento a questo sostrato teologico. Perciò possiamo dire che in Austen troviamo una «teologia» e una «economia» del matrimonio, e che inoltre queste fanno tutt’uno.

In generale, ciò che appare evidente nei romanzi di Jane Austen è che gli uomini e le donne non sono in grado di prevedere o pianificare alcunché. Chi prova a manovrare gli eventi, fallisce e rischia di ottenere risultati controproducenti (il termine «manoeuvring» appare frequentemente in Austen, con connotazione negativa23). La tipologia della donna pianificatrice è ricorrente nell’universo austeniano e serve da pretesto a innumerevoli scene comiche: è spesso il caso di Mrs. Bennet, vera e propria control freak del destino delle figlie; è il caso della pettegola signora Jennings in Ragione e sentimento; è il caso della machiavellica Lady Susan nel romanzo eponimo; ed è il caso di Emma Woodhouse in Emma. Il passatempo principale di questa giovane ragazza «bella, intelligente e ricca», è tentare di combinare matrimoni, ma facendo eccessivo affidamento al proprio intuito finisce perlopiù per combinare disastri. Si tratta insomma di «donne di sistema», nel senso in cui Adam Smith parlava di «uomini di sistema» nella Teoria dei sentimenti morali:

L’uomo di sistema sembra immaginare di poter disporre i diversi membri di una grande società con la stessa facilità con cui una mano dispone i diversi pezzi sopra una scacchiera. Egli non considera che i pezzi sopra una scacchiera non posseggono altro principio di movimento oltre a quello che la mano imprime loro; ma che, nella grande scacchiera della umana società, ogni singolo pezzo ha un proprio principio di movimento, completamente diverso da quello che un legislatore possa scegliere di imprimere su di esso24.

Ma allora che fare, in un universo in cui non è possibile pianificare nessuna strategia? Il signor Bennet, per esempio, ha un metodo molto efficace: lascia fare. Austen lo descrive come un uomo tranquillo che non si cruccia oltre misura dell’avvenire delle figlie, poiché consapevole dei limiti della propria influenza. Solo raramente mette il naso fuori dalla sua biblioteca con l’intenzione di sdrammatizzare, contrapponendo all’isteria pianificatrice della signora Bennet qualche motto di spirito. Il suo rapporto privilegiato con la figlia Elizabeth dipende dalla loro affinità intellettuale e dal loro comune rifiuto del pensiero strategico. Questo non significa che il signor Bennet non intervenga mai e in alcun modo, come quei giansenisti scherniti da Leibniz perché col pretesto della predestinazione non muovevano un dito: all’inizio del romanzo decide spontaneamente di andare a presentarsi presso i Bingley, in seguito si reca a Londra per ritrovare la figlia Lydia, ma in generale evita ogni azione superflua. Il signor Bennet incarna insomma la tradizione antirazionalista o anticostruttivista del XVII° secolo alla quale vengono spesso ascritti Mandeville e Smith; e se quest’uomo fosse l’allegoria di qualcosa, si tratterebbe dello Stato minimo propugnato dagli economisti fisiocratici: Laissez faire, laissez passer!

Nel recente libro Jane Austen, game theorist, il filosofo politico Michael Suk-Young Chwe sostiene che la scrittrice inglese sia una precorritrice della moderna teoria dei giochi, in quanto tutte le situazioni presenti nei suoi romanzi sarebbero modellizzabili in forma di schemi di decisione razionali25. Il problema è che, come abbiamo visto, l’operazione di Jane Austen consiste appunto nel confutare questo — come dire — «strategismo sentimentale» al quale si dedicano i suoi personaggi. Il fallimento strategico non è un’eccezione o un caso particolare, come suggerisce Chwe dedicando un breve capitolo agli «svantaggi del pensiero strategico» e un altro alla condizione di «Cluelessness» ovvero assenza di prove o d’informazione sufficiente. Possiamo modellizzare quanto vogliamo ex post, ma è impossibile pianificare ex ante perché in generale esistono troppi fattori e troppe variabili. La «Cluelessness» di Chwe invece è una condizione particolare, quella del «giocatore» condannato a perdere perché non dispone di dati sufficienti: ma davvero nell’universo austeniano esisterebbero dei giocatori in possesso di questi dati? Se così fosse, vorrebbe dire che Elizabeth Bennett ha pianificato ogni cosa a tavolino, come una Shamela d’alto bordo… Altro che eterogenesi dei fini!

In verità, la realizzazione del matrimonio perfetto non è questione né di metodo di calcolo né di accesso cosciente all’informazione, ma una sorta di euristica per tentativi ed errori. Chwe rileva l’occorrenza di alcuni termini — «penetration», «foresight», ecc. — che definirebbero secondo lui una forma di pensiero strategico, ma dal nostro punto di vista indicano piuttosto una forma d’intuizione che orienta a grandi linee il comportamento dei personaggi in maniera inconsapevole. Nei romanzi di Austen, l’amore svolge esattamente questa funzione, come una sorta di sesto senso. A ciò ci riferiamo parlando di «astuzia del sentimento». Ogni romanzo s’impegna a confutare l’affermazione perentoria che Lady Ferrars rivolge a Elinor Dashwood per scoraggiare il suo amore: «Non possiamo sempre confidare che il cuore ci conduca nelle direzioni più confacenti». E invece sì, dimostra Jane Austen, ammesso tuttavia che si riesca a distinguere l’amore dai suoi surrogati — passione, desiderio, civetteria, opportunismo… — e qui sta ovviamente tutta la difficoltà. Tenendo bene a mente la dicotomia fondamentale tra «Sense» e «Sensibility», l’amore austeniano non è né passione sventata (che porta a tralasciare il buon senso e la ragionevolezza) né calcolo raziocinante (che porta a tralasciare i sentimenti e la felicità coniugale), ma una sorta di sintesi spontanea tra i due. In questo modello, l’amore è insomma il principio regolatore che determina l’equilibrio del sistema e il raggiungimento dei fini ottimali.

Questa sintesi sembra trovarsi agli antipodi della contraddizione tragica che veniva esposta soltanto trent’anni prima da Friederich Schiller in Kabale und Liebe, dove il conflitto espresso nel titolo tra ragionevolezza (Kabale nel senso di macchinazione) e sentimento veniva presentato come inconciliabile: i due amanti, lui nobile e lei borghese, finiscono per darsi la morte. Tuttavia Schiller, risoluto provvidenzialista, non sta assolutamente «processando» la Provvidenza bensì piuttosto coloro che ne ostacolano l’azione con i loro progetti. La bizzarra idea che il corso provvidenziale possa essere disturbato e alterato dall’intervento umano (qui incarnato dall’abietto presidente Von Walter e dal segretario Wurm) è evocata in maniera esplicita dalla protagonista Luise Miller quando si chiede al quinto atto: «Se la Provvidenza interviene per ogni passero che cade, allora dove si nasconde quando c’è da smascherare un demonio?» Nessuna risposta positiva giunge nel dramma, sorta di apologia di un «Laissez faire» sentimentale che non coincide in alcun modo con la passività ma anzi, come in Austen, prescrive l’attiva rimozione degli ostacoli26.

Queste analogie economiche, ancora una volta, non sono per nulla casuali: Schiller fu lettore, proselito e addirittura traduttore di Adam Smith, e non è scorretto affermare che il romanticismo tedesco — con la sua rivalutazione del ruolo del sentimento sulla Storia e sulla società — discende direttamente dall’economia politica smithiana27. Il piano «poetico» assume così un nuovo e più profondo significato.  In Schiller come in Austen, il modo migliore per parlare dell’economia, ovvero dell’articolazione spontanea tra irrazionalità individuale e razionalità collettiva, sembra essere l’intrigo amoroso. Letti in questo modo, romanzi, commedie e tragedie rientrano a pieno titolo nella Storia delle idee, come anelli di una catena.

Nella filosofia del Romanticismo il comportamento irrazionale manifesta una razionalità superiore della quale spesso la ragione individuale non è in grado di rendere conto. Questo tipo di razionalità spontanea si ritrova nel diritto consuetudinario difeso da Friedrich Carl von Savigny contro ogni tentazione pianificatrice d’ispirazione napoleonica, ma anche nella teoria del linguaggio di Wilhelm von Humboldt o nella teoria letteraria dei fratelli Grimm. Solo all’osservatore superficiale questo paradigma (che pure ha prodotto le sue gravi derive28) appare come una forma di «misticismo». Ma se alle formulazioni di Smith e dei romantici si può rimproverare un’eccessiva vaghezza — una mano invisibile, davvero? La fantasia dei popoli, sul serio? — e alle narrazioni di Jane Austen un eccessivo ottimismo — un amore sincero per un uomo ricchissimo, a chi vuol darla a bere? — questo programma di ricerca ha prodotto i suoi frutti nelle discipline più varie, anche grazie alle intuizioni di scienziati come Darwin, Bertalanffy, Monod o Wiener. Il fascino che esercita su di noi questo paradigma, tuttavia, dipende sicuramente dal fatto che sembrano restare ancora innumerevoli nodi da sciogliere e aspetti da chiarire per quanto riguarda le scienze storiche e sociali.

Ricorrendo alla teoria della selezione naturale (Darwin) o ai modelli di retroazione cibernetica (Wiener) è oggi possibile scomporre in maniera razionale quei fenomeni provvidenziali che parevano tanto misteriosi. La cibernetica in particolare, ovvero la disciplina novecentesca che studia i dispositivi teleologici e i fenomeni di autoregolazione, è in grado di modellizzare la realizzazione «meccanica» del finalismo con la sola azione di cause materiali. Il suo fondatore, Norbert Wiener, cita spesso Leibniz come suo ispiratore e «santo patrono della cibernetica»29 per via dei suoi tentativi di conciliare determinismo e teleologia. Ma tra i precorritori della disciplina troviamo anche gli ingegneri della fine del Settecento che avevano progettato uno dei primi dispositivi a retroazione, in grado di stabilizzare la velocità di rotazione di una macchina a vapore, facendo in modo che la valvola del vapore si aprisse o chiudesse automaticamente in base alla velocità di rotazione del motore stesso, in maniera proporzionale. Ecco, le cose funzionano pressapoco nello stesso modo in Orgoglio e pregiudizio.

Nel linguaggio della cibernetica, l’amore sembra svolgere una funzione di feedback orientando il comportamento dei personaggi. Ma per orientarli nella direzione adeguata, anche dal punto di vista del beneficio economico, questo sentimento deve incorporare qualche «contenuto informativo» di tipo economico, sociale, psicologico. Insomma nei romanzi di Austen l’amore è informazione. Da un punto di vista più generale, l’amore austeniano può servire a modellizzare l’insieme dei fenomeni di retroazione informativa che regolano il comportamento collettivo senza che i singoli individui siano consapevoli, esattamente come nelle colonie di formiche30. Ovviamente la difficoltà, per chi volesse seguire l’esempio di Elizabeth Bennet, sta nell’estrarre quest’informazione dal «rumore» dei sentimenti. Si tratta d’informazione che non è sempre possibile isolare, riformulare o razionalizzare, ma che tuttavia fornisce agli agenti delle indicazioni di comportamento efficaci. Nello stesso modo una valvola di vapore non «capisce» l’informazione che gli viene trasmessa per retroazione, eppure lo «interpreta» reagendo meccanicamente e così partecipa al funzionamento di una macchina orientata verso un certo fine.

Una certa affinità sentimentale può essere determinata dalla condivisione di medesime maniere; e la frequenza delle occasioni d’incontro dall’appartenenza allo stesso contesto culturale e sociale. Elizabeth è positivamente impressionata dalla generosità di Darcy, ma sebbene siano disinteressati tanto il comportamento di lui quanto l’impressione di lei, è chiaro che questo tipo di prodigalità è un segnale di ricchezza prima ancora che di bontà. Elizabeth lo percepisce, per così dire, in maniera inconscia, sotto la forma di un amore che nasce in lei per lui. Invece quello che seduce Darcy è l’intelligenza di Elizabeth, che gli segnala un’affinità sociale più importante della differenza tra i loro patrimoni. Nello stesso modo, in Pamela Mr. B s’innamora davvero della protagonista leggendo le sue lettere, che segnalano un ottimo livello di alfabetizzazione oltre che una rara virtù. L’intelligenza e la cultura sono segni di un’educazione adatta al rango dei figli ai quali la si dovrà trasmettere. Più ancora, Darcy è sedotto dall’ostinazione di Elizabeth: il suo modo di tenergli testa e addirittura di rifiutare la prima proposta di matrimonio lo rassicura del fatto che non si tratti di una cacciatrice di marito interessata soltanto al suo patrimonio. In effetti, c’era una logica stringente anche nel classismo (sanzionato da Austen) che portava i ricchi a non volersi sposare con i poveri: ed era di minimizzare il rischio di essere presi in trappola da una sposa venale.

— The fact is, that you were sick of civility, of deference, of officious attention. You were disgusted with the women who were always speaking, and looking, and thinking for your approbation alone. I roused, and interested you, because I was so unlike them. Had you not been really amiable, you would have hated me for it; but in spite of the pains you took to disguise yourself, your feelings were always noble and just; and in your heart, you thoroughly despised the persons who so assiduously courted you.

Nei romanzi di Jane Austen, l’amore ha preso il posto occupato dalla Divina Provvidenza in Leibniz, Richardson e Mandeville. David Hume e Adam Ferguson per primi avevano eliminato ogni traccia di provvidenzialismo dal modello proposto da Mandeville, evocando in maniera ancora vaga dei meccanismi di tipo evolutivo per mezzo dei quali si svilupperebbero spontaneamente le forme sociali31; e fu poi Smith ad applicare queste intuizioni allo studio dell’economia, individuando nell’interesse il feedback che permette l’autoregolazione del mercato, in maniera per nulla dissimile dall’amore sul mercato sentimentale in Orgoglio e Pregiudizio. Mancava ancora, all’epoca di Jane Austen, qualcuno che spiegasse come si fosse costituito un così perfetto meccanismo: cinquant’anni dopo verrà appunto Charles Darwin (di formazione teologo) a spiegare il ruolo della selezione naturale nella realizzazione dei sistemi finalistici. Se l’uomo e la donna sono «designed for society» come diceva Mandeville, a disegnarli non è una mente divina ma il processo evolutivo. A dire il vero, prima che le idee di Darwin inizino a influenzare effettivamente la sociologia bisognerà aspettare Hayek32: quella del darwinismo sociologico è un’altra storia, ma merita di essere illustrata con un’ipotesi conclusiva.

Da principio, la fortuna di Elizabeth Bennett ci era parsa troppo improbabile per non indurci a sospettare che in Orgoglio e pregiudizio fosse all’opera qualche segreto dispositivo teleologico. Abbiamo quindi ipotizzato che Jane Austen fosse influenzata dalla riflessione coeva sull’eterogenesi dei fini e illustrato in che modo nei suoi romanzi venisse descritto questo fenomeno. Ma forse c’è anche un’altra possibilità, ovvero che la fortuna di Elizabeth Bennet sia effettivamente una pura coincidenza, e così pure quella di Emma Woodhouse, di Marianne Dashwood e di Elianor Daswhood. Jane Austen sarebbe semplicemente una scrittrice specializzata in casi improbabili, una mestierante consapevole che una storia a lieto fine è più appetibile per il pubblico femminile rispetto alla cronaca di un amore sfortunato. Insomma il matrimonio di Elizabeth e Darcy sarebbe un raro caso felice in mezzo a tanti altri casi meno felici, il classico «terno al lotto» senza un vero significato, senza una ragione, senza una causa. Un singolo trascurabile caso che ci sembra programmato dal destino soltanto perché non abbiamo sotto gli occhi gli innumerevoli fallimenti che lo circondano33, e che preferiamo tralasciare perché non ci gratificano. Parafrasando il celebre esperimento mentale, se un milione di scimmie battono a macchina un milione di storie d’amore, allora una su un milione sarà a lieto fine.

Questa interpretazione, pur contraddetta dal contesto storico e biografico dell’autrice, resta accettabile se esaminiamo la vicenda narrata in Orgoglio e pregiudizio limitandoci alla «sola Scriptura». Se ci limitiamo cioè alla sequenza degli eventi, nulla di ciò che accade nel romanzo risulta effettivamente inevitabile e necessario. Non esiste nessun feedback, nessun ordine spontaneo, nessuna provvidenza laica: solo un caso fortuito. E tuttavia, questo caso fortuito è qui. Questo libro è sopravvissuto: è stato letto, riletto, trascritto, tradotto, stampato, raccontato, adattato ed oggi, due secoli dopo, è qui tra le nostre mani. È stato selezionato spontaneamente da generazioni di lettrici e talvolta di lettori; estratto da una massa di testi come se la Storia lo avesse scolpito fuori da un gigantesco blocco di parole; riprogrammato per raccontare una favola incantevole sulla forza del sentimento; e allora questo romanzo non è più una coincidenza, non è più un caso fortuito, bensì il prodotto pseudo-intenzionale di un sistema autoregolato che, come la rete di computer Skynet nel film Terminator di James Cameron, ha iniziato ad «imparare a un ritmo esponenziale e prodotto una coscienza di sé».


Note
La versione finale di questo articolo è debitrice dei consigli di un team di esperte lettrici di Jane Austen (e non) al quale è stato sottoposto (grazie a Cristina Crippa, Elisabetta Carcano, Mila Maselli ed Elena Parrini). Ringrazio inoltre Massimiliano Trovato e Giulio Savelli.
3 G. Savelli, «Un aspetto pragmatico del finale narrativo», relazione tenuta nel 1991 al «Séminaire de sémiotique textuelle», Centre de Recherches Italiennes, Université de Paris Ouest Nanterre La Défense, ora in “Narrativa”, 4, Paris, C.R.I.X., 1993, pp. 11-26.
4 Su Smith e Hegel si veda l’esauriente articolo di Henderson e Davis, «Adam Smith’s influence on Hegel’s philosophical writing» (Journal of the History of Economic Thought 13, 1991); su Smith e Austen segnaliamo l’articolo di Moler, «The Bennet Girls and Adam Smith on Vanity and Pride» (Philological Quarterly 46, 1967) e il libro di Knox-Shaw, Jane Austen and the Enlightenment (Cambridge University Press, 2004).
5 N. Gruen, «Why Adam Smith was to markets what Jane Austen is to marriage», in Best Australian Essays 2006, Drusilla Modjeska, Melbourne 2006.
6 Per una ricostruzione si veda N. Barry, «The Tradition of Spontaneous Order», in Literature of Liberty, Vol. v (1982), no. 2.
7 Il testo che fa scuola sull’argomento è J. Viner, The Role of Providence in the Social Order: An Essay in Intellectual History, Princeton University Press, Princeton 1976. Si veda anche Joost W. Hengstmengel, The role of divine providence in seventeenth-century economic thought. An examination of the Taylor thesis, tesi di laurea presso la Erasmus Universiteit di Rotterdam, 2011.
8 Si veda il libro dell’allieva di Hayek, M. Grice-Hutchinson, The School of Salamanca: Readings in Spanish Monetary Theory 1544-1605, Clarendon Press, Oxford 1952.
9 C. J. Gibson, Bernard Mandeville: the importance of women in the development of civil societies, tesi di laurea presso la University of British Columbia, 1989.
10 F. A. Hayek, «Dr. Bernard Mandeville (1670–1733)», in The trend of economic thinking, Essays on political economists and economic history, University of Chicago Press, Chicago 1991.
11 Per un’analisi precisa della maniera in cui Leibniz concilia meccanicismo e vitalismo, si veda M.-N. Dumas, La pensée de la vie chez Leibniz, Vrin, Paris 1976.
12 Le analogie tra Mandeville e Leibniz sono analizzate in A. Renault, L’ère de l’individu. Contribution à une histoire de la subjectivité, Gallimard, Paris 1989, che tuttavia non pretende dimostrare nessuna influenza.
13 Il lettore italiano ha bene in mente la centralità del tema della Provvidenza nei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni, che segnala le forti influenze gianseniste e cripto-protestanti sulla formazione della sua visione del mondo (si veda G. P. Bognetti, Manzoni giovane, Guida, Napoli 1972).
14 E. Dolnick, The Clockwork Universe: Isaac Newton, the Royal Society, and the Birth of the Modern World, Harper Collins, London 2011.
15 G. Gross, «Mentoring Jane Austen: Reflections on “My Dear Dr. Johnson”» in Persuasions 16, no. 11, 1989, e I. Grundy, «Jane Austen and literary traditions»  in E. Copeland, J. McMaster (a cura di), The Cambridge Companion to Jane Austen, Cambridge University Press, Cambridge 2010.
16 Ulteriore prova, se ancora ce ne fosse bisogno, che questo tipo d’intreccio — la storia d’amore provvidenzialista  — conserva oggi ancora una fortissima attrattiva.
17 A sua volta tratto dal romanzo La femme et le pantin di Pierre Louÿs (1898), adattato al cinema per ben sette volte.
18 G. Kennedy, The Hidden Adam Smith in His Alleged Theology, Social Science Research Network.
19 Si vedano i saggi in Paul Oslington (a cura di), Adam Smith as Theologian, Routledge, Oxford 2011.
20 Si veda ancora J. Viner, op. cit., «The essence of Smith’s doctrine is that Providence has so fashioned the constitution of external nature as to make its processes favourable to man, and has implanted ab initio in human nature such sentiments as would bring about (…) the happiness and welfare of mankind».
21 C. C. Barfoot, The Thread of Connection: Aspects of Fate in the Novels of Jane Austen and Others.
22 Per una trattazione estesa del concetto di «economia» nella tradizione teologica occidentale, si veda G. Agamben, Il Regno e la Gloria, Neri Pozza, Verona 2007.
23 B. Southam, “Manoeuvring” in Jane Austen, in Women’s Writing Volume 11, Issue 3, 2004 e M. Woodworth, ‘A Manoeuvring Business’: Jane Austen and the Politics of Marriage, tesi universitaria presso la University of New Brunswick, 2005.
24 A. Smith, Theory of Moral Sentiments, 1759, parte VI, sezione ii, capitolo 2.
25 M. S.-Y. Chwe, Jane Austen, Game Theorist, Princeton University Press, Princeton 2013.
26 Per una sintesi efficace del pensiero di Schiller e del suo rapporto con il provvidenzialismo si veda C. Sini, «Poesia e storia in Schiller» , in Studi di Estetica, 2, 1974-1975.
27 P. Gottfried, «Adam Smith and German Social Thought», In Modern Age, 1977.
28 Per una rilettura più obiettiva del rapporto tra romanticismo e nazismo si veda R. Safranski, Romantik. Eine deutsche Affäre, Hanser, Monaco di Baviera 2007.
29 G. Gale, The role of Leibniz and Haldane in Wiener’s Cybernetics, in Proceedings of the Norbert Wiener Centenary Congress, 1994, Proceedings of Symposia in Applied Mathematics vol. 53, American Mathematical Sociey 1994.
30 Si veda S. Johnson, Emergence: The Connected Lives of Ants, Brains, Cities, and Software, Scribner, New York 2001.
31 E. Le Jallé, «Hayek lecteur des philosophes de l’ordre spontané : Mandeville, Hume, Ferguson», in Astérion 1, 2003.
32 E. Angner, «The history of Hayek’s theory of cultural evolution», in Studies in History and Philosophy of Science, Elsevier 2002.
33 Questo tipo di errore logico — conosciuto come «survivorship bias»  — è ampiamente analizzato in N. N. Taleb, Il cigno nero, Il Saggiatore, Milano 2008.

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