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ilconformista

La semplicità non è così semplice

Francesco Paolo Cazzorla ( Zu Fra )

A Giovanni, lui dovrebbe sapere perché

by yukoshimizuSpesso si dice che le cose più semplici siano sempre le cose migliori. Che, forse, siano le uniche che meritano di essere perseguite per condurre una vita sana e tranquilla; le sole quindi da cercare, perseverare e valorizzare, sempre. Le cose complicate, al contrario, sono assolutamente da evitare, da rigettare a priori, perché non hanno alcun senso, e perché l’apparente caos che producono – in quel loro tramestio sconclusionato – non è minimamente gestibile, né comprensibile: risulta difficile da declinare nelle nostre singole (e complicate) vite. Per questo motivo, la semplicità fa star bene, non crea problema, ed è sempre comprensibile: la possiamo utilizzare a nostro piacimento quando e come vogliamo: è una cosa immediata.

Sostenendo questo però ci si dimentica, altrettanto spesso, da dove deriva quell’immediatezza; che cosa alimenta quella semplicità così vivida, così facilmente introiettabile, tale da conquistare – con quel suo potente accesso – le nostre percezioni, la nostra gamma di emozioni, e tutto quello che diventeremo una volta averla assimilata, una volta averla assorbita.

Se dimentichiamo cosa c’è dietro – quale sia stato il processo che l’ha portata fino a lì – affinché quella semplicità sia così genuina, così chiara, e si mostri in quel modo così piacevole tale da esaltarci, affascinarci, catturarci in quel suo inconfondibile brio; se non riusciamo ad avvertire cosa veramente la rende tale, probabilmente quella semplicità durerà poco, e sarà semplicemente (!) una semplicità di “facciata”, che subito dopo averla vissuta creerà necessariamente un vuoto interiore, una specie di mancanza, e che andremo a sopperire cercandone ancora, e poi ancora, sempre di più, magari della stessa “semplice” specie.

Allora bisognerà fare una distinzione adeguata, tra una semplicità immediata, puramente di “etichetta”, e una semplicità più peculiare, più distintiva, un formato più “consapevole”. La prima creerà subito dei vuoti, delle mancanze immediate, e avrà paura di vivere la noia; la seconda invece durerà nel tempo, creerà e donerà significato, e consentirà di dare senso ai troppi e confusi stimoli/eventi che bombardano continuamente le nostre vite; ci aiuterà, in ultimo, a reprimere quella voglia irrefrenabile di cercarne ancora, in una parola: ci farà assaporare cosa voglia dire, veramente, “vivere la noia”.

Creando dunque carenze molteplici, il primo tipo di semplicità condurrà a ricerche fameliche dell’immediato che non durerà molto, ma che al contrario si volatilizzerà non appena sarà conclusa la sua “appagante utenza”. Realizzerà un mondo pieno di traffico impazzito, di attori forsennati che cercheranno la loro (singola) felicità sfuggendo alla paura della noia, allontanando – solo per un po’ – quell’inquietudine che avvampa nel non sapere come colmare il “tempo libero” che è rimasto a disposizione: un tempo severo e inconcepibile. Creerà disagi interiori; disordini esteriori. Non consentirà una sana e lenta comunicazione tra i soggetti, né uno scambio simbolico tra le parti: tutti correranno all’impazzata, per procurarsi immediatamente un altro “pacchetto di semplicità” – e dunque un’altra auspicabile dose di “felicità” – lontano da tutti, lontano dal dialogo, lontano dall’attesa… Lontano dal cuore.

Se questi pacchetti-di-semplicità smettessero di essere “acquistati” – e se fossero dunque risucchiati da quello stesso vortice che li mette continuamente in circolo – allora il mondo del “marchio” cesserebbe di esistere, mostrando in tutto e per tutto la sua fallacia, la sua illusorietà; svelando la mancanza di contenuti che viene abilmente nascosta da quella stessa etichetta, tanto desiderabile quanto facilmente accessibile, e che si annuncia, a più riprese, offrendosi come l’emblema di un “mondo buono”.

Tutto questo, allora, ci porta a riflettere su – e a vivere in – un mondo fatto di pure “semplicità patinate”, di simulacri, creati ad hoc per soddisfare ed esaudire le “dipendenze” immediate di chi ne è continuamente alla ricerca, di chi non può proprio più farne a meno. Queste considerazioni ci dicono che dietro questo genere di semplicità non ci sia davvero nulla, se non un vuoto siderale, che viene costantemente mascherato – e sostituito – da un’altra semplicità della stessa specie, già impacchettata e facilmente disponibile: subito pronta, dopo la prima, ad essere consumata, e a richiamarne un’altra e un’altra ancora, all’infinito.

Basti pensare ai best seller di oggi, pile di libri commerciali così semplici e così reperibili ovunque (si possono trovare benissimo all’uscita delle toilette che animano i chiassosi autogrill all’ora di punta) che hanno bisogno di essere scritti in diverse puntate per continuare a divulgare il nulla che contengono. Colori sgargianti, copertine facilmente riconoscibili: un’economia che spreca carta distruggendo l’ambiente, e senza un’utilità alcuna di significato. Chi cerca questi libri, affermerà che il genere di semplicità che contengono parla direttamente alle loro vite, li “pervade” immediatamente, perché – dicono – sono in grado di rispecchiare al meglio la loro quotidianità, e lo fanno senza troppi giri di parole (è una lettura “semplice”, quindi poco impegnativa, l’ideale da consumare prima di andare a letto – si è troppo stanchi per dedicarsi al “troppo impegnativo” che porta via solo altra fatica e tempo prezioso; un tempo che non c’è più, e che si è dileguato per sempre: non abbiamo più abbastanza tempo per questo genere di tempo).

C’è quindi chi scrive solo per vendere – e quindi per vendersi, tra giochi di parole architettati a tavolino solo per estasiare e sedurre, per fare breccia su un pubblico di lettori ubriaco e disarmato; gente ormai disabituata a comprendere, a pensare. In questo modo, si perde il significato di fondo (anzi, forse non è mai esistito un significato), e ciò che rimane è solo la brutta copia scintillante di un’umanità lasciata allo sbando; continuamente abbagliata da messaggi insignificanti, da “emozioni” all’ultimo grido, da segnali senza tracce.

È un po’ come quello che accade coi media: parlano della notizia in sé eclatante – per l’appunto “senza troppi giri di parole” – riportando solo l’evidenza dello scoop, la copertina, il fatto semplice e immediato, dimenticando di rintracciare – o magari di discutere – quale sia l’eventuale contenuto/sostanza che potrebbe svelare quella notizia (tralasciando inoltre l’esigenza – forse primaria – di ri-collocarla nella “storia” – oddio che brutta parola!), perché, in fondo, le tecniche non sono diventante altro che il fine, e il messaggio non è che il medium in sé.

Tutto questo, fa pensare un po’ a quel peso che intacca inesorabilmente il mondo, e che Italo Calvino contrappose al valore della leggerezza nella sua prima indimenticabile “lezione americana”: “In certi momenti mi sembrava che il mondo stesse diventando tutto di pietra: una lenta pietrificazione più o meno avanzata a seconda delle persone e dei luoghi, ma che non risparmiava nessun aspetto della vita. Era come se nessuno potesse sfuggire allo sguardo inesorabile della Medusa. […] “Per tagliare la testa di Medusa senza lasciarsi pietrificare, Perseo si sostiene su ciò che vi è di più leggero, i venti e le nuvole; e spinge il suo sguardo su ciò che può rivelarglisi solo in una visione indiretta, in un’immagine catturata da uno specchio. […] È sempre in un rifiuto della visione diretta che sta la forza di Perseo, ma non in un rifiuto della realtà del mondo di mostri in cui gli è toccato di vivere, una realtà che egli porta con sé, che assume come proprio fardello.”

Per ingannare dunque la pesantezza, l’inerzia, l’opacità del mondo, Calvino ci suggerisce di ricercare la leggerezza della pensosità, che fa apparire la leggerezza della frivolezza come qualcosa appunto di pesante e opaco: “Se volessi scegliere un simbolo augurale per l’affacciarsi al nuovo millennio, sceglierei questo: l’agile salto improvviso del poeta-filosofo che si solleva sulla pesantezza del mondo, dimostrando che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza, mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi, rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante, appartiene al regno della morte, come un cimitero d’automobili arrugginite.

Bisognerebbe perciò affidarsi a quella semplicità concepita con una certa elaborazione di pensiero, con quella premura e pazienza in grado di gestire il complicato e di renderlo leggibile; capace cioè di creare un ventaglio d’interpretazioni, dove “tutto è chiaro, ma niente è limpido; tutto è rigoroso ma niente è immobile; tutto «è lì», ma non lo puoi toccare.” Una semplicità che fomenta la pausa, l’attesa, il ritornare su alcuni punti per scoprire ulteriori significati nascosti, perché è proprio lì che sta “la capacità, la vocazione fatale a vedere per l’appunto ciò che sta oltre, accanto, attorno, dietro alla pagina: una pagina a più dimensioni, a infinite dimensioni, illusionistica, allucinatoria, enigmatica, ma sempre tale in virtù della chiarezza.”

La natura, ad esempio, viene sempre invocata come la paladina della semplicità – il colore verde, spesso associato ad essa, è emblematico nella sua veste di “tranquillità” – perché ogni volta che ci immergiamo in essa ci dà l’impressione (forse un’impressione indotta?) di avere a che fare con un qualcosa di genuino, di incontaminato, di semplice appunto. Ci si dimentica però che tutta questa semplicità che avvertiamo, che percepiamo, non è altro che il risultato di un difficile e spesso audace sottile equilibrio, di una minuziosa complessità che, col tempo, si è resa armoniosa, e che si presta – nella sua fragile e instabile sofisticatezza – ad essere facilmente fruibile. La natura dunque, è uno di quegl’ingranaggi complessi che si spiega semplicemente, che dona ispirazione, e che permette il fluttuare di un pensiero incontrastato.

La vera semplicità, quella cioè contraddistinta dalla leggerezza del pensiero, e che si contrappone al peso della frivolezza, non è quasi mai una cosa semplice: c’è un intero mondo dietro. Un mondo che ospita continuamente insicurezze, sforzi e inquietudini, e quella lungimiranza di saper accogliere la noia, la monotonia, l’apparente inutilità. Allora c’è chi scrive senza accorgersene, per esprimere solo una necessità, un bisogno frustrante, un desiderio inespresso, e cerca in questo modo di dare senso a un mondo; cerca di capire cosa voglia dire, in fondo, essere un essere umano.

Come ci ricorda a tal proposito Bertrand Russell, “all great books contain boring portions, and all great lives have contained uninteresting stretches. Imagine a modern American publisher confronted with the Old Testament as a new manuscript submitted to him for the first time. It is not difficult to think what his comments would be, for example, on the genealogies. «My dear sir,» he would say, «this chapter lacks pep; you can’t expect your reader to be interested in a mere string of proper names of persons about whom you tell him so little. You have begun your story, I will admit, in fine style, and at first I was very favorably impressed, but you have altogether too much wish to tell it all. Pick out the highlights, take out the superfluous matter, and bring me back your manuscript when you have reduced it to a reasonable length.» So the modern publisher would speak, knowing the modern reader’s fear of boredom. He would say the same sort of thing about the Confucian classics, the Koran, Marx’s Capital, and all the other sacred books which have proved to be bestsellers. […] I do not mean that monotony has any merits of its own; I mean only that certain good things are not possible except where there is a certain degree of monotony… A generation that cannot endure boredom will be a generation of little men, of men unduly divorced from the slow processes of nature, of men in whom every vital impulse slowly withers, as though they were cut flowers in a vase.

Quella noia, quella monotonia tipica del rimuginare necessario; quel “ritornarci inutilmente su”, perché tutte le volte che termino un libro vero – di quelli che ti lasciano valanghe di roba seria addosso – mi prende una tristezza infinita… Come dice Salinger, mi verrebbe quasi voglia di chiamare l’autore, farci due chiacchiere, chiedere come sta. Appena prima di sfogliare l’ultima pagina cerco qualsiasi scusa per trattenermi ancora un po’, tra quelle pagine, perché so di per certo che di lì a poco mi mancheranno un sacco. Allora quella tristezza si adopera per te, ti viene subito in soccorso, dileguandosi nello stesso istante in cui la chiostra di un sorriso appartato diventa custode di un segreto solo tuo.

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