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Lenta ginestra

di Marco Moneta

maxresdefault3Nel 1987, anno del 150° anniversario della morte del poeta di Recanati e dunque traboccante di contributi celebrativi, appariva, inaspettato e preceduto da un’intervista esplicativa dell’autore, per i tipi di Sugarco, un volume di Toni Negri, intitolato Lenta ginestra. Saggio sull’ontologia di Giacomo Leopardi. Per quanto non sia sempre facile distinguere i contributi d’occasione, e ce ne furono tantissimi in quell’anno, da quelli nati da un autentico bisogno di comprensione, quello di Negri apparteneva senza ombra di dubbio al secondo gruppo. Negri infatti - come ha dichiarato nella Prefazione alla seconda edizione del libro pubblicata da Mimesis nel 2001 - oltre a pubblicare saggi sul marxismo, su Spinoza e Descartes e a insegnare Dottrina dello stato, non solo ha amato e studiato Leopardi “fin dall’infanzia”, ma è stato spinto a scrivere quel libro da una “fondamentale consonanza” tra la propria storia personale e quella del poeta di Recanati. Consonanza che si ritrova, a suo giudizio, nella “formidabile violenza di un … transitare dalla miseria della prigionia e della guerra alla gioia della liberazione, di una nuova speranza di vita”. Niente di illecito, come ha scritto Sergio Quinzio, nell’istituire “una corrispondenza tra la lettura leopardiana di Negri” e “la storia dell’interprete”, anzi, un “tentativo di stabilire un rapporto reale con il poeta e la sua opera”. Il punto, però, è un altro. Occorre chiedersi se e fino a che punto il Leopardi che scaturisce dalle pagine di Lenta ginestra, cioè il suo Leopardi, per quanto sostenuto da un’ampia e non epidermica conoscenza testuale e bibliografica, risulti attendibile o meno. Dopo una accurata lettura delle oltre 400 pagine dell’opera, a noi sembra che esso assuma troppo da vicino le fattezze del professore padovano ritratte sulla copertina del volume e riprodotte, a ogni buon conto, anche nella pagina di chiusura. Ma non voglio anticipare.

È di quest’anno la ristampa da parte di Mimesis dell’edizione del 2001. Se già allora c’era, come scrisse lo stesso autore, “qualche ragione per dire che il libro non doveva essere ripubblicato”, ci si chiede - la domanda è retorica - quali siano le ragioni nel frattempo intervenute che giustifichino una terza edizione. Tanto più che Negri (sempre nel 2001) aveva osservato che “non si pubblica una seconda volta un libro (per me bello, ma) escluso dal mercato”. Può essere tuttavia interessante spendere qualche parola sulle vicende di Lenta ginestra. Quando uscì nel 1987, pur suscitando alcune prese di posizione molto nette e anche decise stroncature, non entrò che marginalmente nel dibattito culturale e politico. È sufficiente infatti scorrere l’indice dei nomi delle principali monografie, articoli e atti di convegni riguardanti Leopardi pubblicati dal 1987 a oggi, per accorgersi che A. Negri è sì uno dei nomi più ricorrenti, ma che la A. non sta per Antonio, bensì per Antimo, vale a dire Antimo Negri, importante storico della filosofia della seconda metà del ‘900, studioso dell’idealismo tedesco e di Giovanni Gentile e, appunto, autore di numerosi e apprezzati studi leopardiani. Accennavo a prese di posizione molto risolute e a decise stroncature. Al netto degli interventi di taglio giornalistico sollecitati soprattutto dalle note vicende politico-giudiziali dell’autore, i critici che, all’epoca in cui è apparso, hanno dedicato una qualche attenzione al suo libro si contano, a quanto mi risulta, sulle dita di una mano: Giorgio Bárberi Squarotti, Vincenzo Vitiello, Giulio Ferroni e Daniela Bini. Eccetto quest’ultima, gli altri tre hanno manifestato un profondo disaccordo con la lettura leopardiana di Negri. In modo particolare Ferroni, che in una veemente e corrosiva (benché argomentata) nota su Belfagor, a firma Gianmatteo del Brica (il buon contadino della novella machiavelliana), ha rovesciato, senza risparmiarsi, i suoi sarcasmi sul “celebre Toni, il professore rivoluzionario, il profeta dell’autonomia, il deputato fuggiasco”, occupato a proiettare “i suoi schemi avvolgenti” sul testo leopardiano per “inserirlo in una cartina millenaristica e catastrofistica, che cela un’immancabile filigrana tecnico-politica, dietro la quale c’è un’ulteriore filigrana autobiografica…”. Più moderato, ma altrettanto distante, il giudizio di Vitiello in un articolo ironicamente intitolato Il passero della rivoluzione, dove, tra le altre cose, rileva “una palese estraneità linguistica tra l’interprete e l’interpretato”, che denota “un’altra e più profonda estraneità, che è teorica, di pensieri”, al punto che “il mondo di Leopardi risulta essere altrove rispetto a tutti i luoghi che Negri visita ed esplora”. Bárberi Squarotti lamenta, invece, che “Negri finisca a usare il pensiero leopardiano in funzione di un discorso sull’assoluta negatività dell’attuale momento storico, un poco pretestuosamente paragonato a quello successivo alla rivoluzione francese, senza tener conto che non c’è stata, oggi, proprio nessuna rivoluzione, né mai neppure c’è stato il minimo segno che una rivoluzione stesse per prepararsi”. Negli anni successivi l’attenzione verso il libro di Negri è stata, se possibile, ancora più scarsa. Da un rapido, anche se incompleto, spoglio della principale bibliografia leopardiana post-1987, risulta che gli autori che ne hanno parlato - dedicandogli poche righe oppure relegandolo in nota – si contano di nuovo sulle dita di una mano o poco più (Alberto Frattini, Emilio Giordano, Mario Andrea Rigoni, Vincenzo Guarracino, Massimiliano Biscuso e Franco Gallo, Franco Cassano).

Ma veniamo ai contenuti di Lenta ginestra, la cui lettura richiede uno sforzo non indifferente, tenuto conto della lunghezza del testo (oltre 400 pagine) e dell’oscurità spesso affabulatoria del linguaggio, che non sempre rassicura il lettore di averne afferrato il significato. Il fatto è che Negri, come ha scritto Daniela Bini, pur essendo uno “studioso di grande serietà e profonda cultura… unisce all’atavica retorica dell’intellettuale italiano l’oscurantismo verbale assimilato dai filosofi francesi”. Sia come sia, una cosa è certa: che della sua irruzione nel laboratorio filosofico leopardiano volta a ripercorrerne il senso à tous azimuts (Canti, Operette morali, Zibaldone, Paralipomeni, Pensieri, Epistolario, Discorsi vari, Volgarizzamenti, Memorie e disegni letterari, ecc.), tutto può dirsi, tranne che manchi di ambizione e di audacia. Tanto più che il suo esplicito e provocatorio proposito è di prendere le distanze dalla “sciagurata valanga” della “lettura tradizionale” che riduce Leopardi a “critico melenso o a pessimista metafisico” e lo rimodella, falsificandolo, “nei termini del moderatismo politico e della birbantaggine sofistica dell’Accademia”. Bisogna riconoscere, a onor del vero, che per questo certame Negri mostra di essere ben attrezzato, disponendo di un’esorbitante cultura storico-filosofica, di una sicura conoscenza del testo leopardiano e di una completa padronanza della bibliografia, in particolare di quella che nel recanatese, accanto al poeta, vede il filosofo: mi riferisco, tenendo ovviamente il 1987 come termine ad quem, ai vari Gentile, Rensi, Tilgher, Binni, Luporini, Badaloni, Timpanaro, Biral, Rigoni, Dolfi, Ferrucci e Prete... anche se l’interlocutore privilegiato resta la classica triade Luporini, Binni, Timpanaro (Luporini in particolare, al cui Leopardi “progressivo” e togliattiano Negri oppone un Leopardi “rivoluzionario” e sovversivo).

Il punto d’innesto del pensiero e della poesia leopardiane è costituito da quella che Negri definisce la “catastrofe della memoria” e che trova espressione già nei primi componimenti poetici (All’Italia, Il primo amore, Sopra il monumento di Dante, Ad Angelo Mai). Negri presenta Leopardi come l’intellettuale che, a dispetto dell’eccentricità e irrilevanza culturale dell’Italia rispetto all’Europa, essendosi posto il problema del fallimento dei Lumi e della rivoluzione (nonché dell’eclisse della stagione rinascimentale) assurge al livello della grande metafisica europea, vale a dire della filosofia dialettica tedesca dell’idealismo assoluto. Tuttavia egli, e qui sta la sua grandezza, della dialettica rifiuta la conciliante e apologetica mediazione che tutto riordina e tutto ricompone logicamente (la celebre “nottola di Minerva”), per guadagnare invece la vera, reale dimensione del tempo storico, il futuro post-dialettico, inteso non come anello della catena della storia, ma come apertura etica, immaginazione, speranza, desiderio, redenzione, alterità, antagonismo e così via. Prima di guadagnare, però, tale apertura (che verrà a costituire la ‘nuova ontologia’, l’ontologia del soggetto etico-poetico), Leopardi, resosi conto dell’impossibilità di ogni mediazione, è costretto a compiere un lungo e doloroso cammino: deve cioè immergersi in tale crisi, passarle per così dire attraverso - sentirla, non soltanto conoscerla - e alla fine “naufragare” per quanto dolcemente nella “tragedia e catastrofe nell’essere” (99), che ha residuato un mondo privo di senso (il tanto citato “solido nulla”). Con buona pace di Kant, sostiene Negri, Leopardi conclude che la ragione non può avere pretese, può esprimersi soltanto come negatività. Trovano qui fondamento, commenta Negri, le interpretazioni (da lui respinte) di ispirazione francofortese – che, rifiutando la sintesi dialettica, postulano la presenza di un pensiero negativo, cui fa da contrappunto un’utopia priva di qualsiasi garanzia ontologica – oppure heideggeriana - che arruolando il nostro nelle fila del nichilismo contemporaneo, lo riducono a “uno sgorbio heideggeriano, una sorta di poeta nichilista d’entre-deux-guerres” (7).

Qual è dunque la proposta interpretativa di Negri? Non potendo seguire passo a passo lo smisurato, complesso, coltissimo e a volte esasperatamente astratto “percorso teorico” attraverso “gli snodi dell’essere” ch’egli viene cucendo addosso a Leopardi, mi limito a mettere in evidenza quello che, a mio parere, ne rappresenta il nucleo profondo, l’intima sorgente da cui la sua esegesi sgorga ed a cui tende: un’insopprimibile esigenza, al tempo stesso teoretica e personale, di riconoscere una positività ascendente nel percorso leopardiano, la quale si traduce a sua volta in apertura infinita del futuro, che sbocca in antagonismo e alternativa radicali che odorano di millenarismo. Così il cammino di Leopardi, se non è, come non è, “progressivo”, risulta tuttavia “progrediente”, attraverso “snodi qualificanti” e “fasi di bonaccia”, “progressivi accostamenti” e “flessioni etiche”, verso un compimento chiliastico di natura non religiosa, bensì etico-poetica. È un telos che attraversa tutta la sua opera e che ha nella Ginestra, “il canto … del dipanarsi dell’essere e della nuova definizione del rapporto fra soggetto e mondo” (398), la sua conclusione. Conclusione che, a sua volta, è naturalmente anche “un salto, un’innovazione, l’atto creativo di un nuovo equilibrio metafisico” (399). Proviamo allora a ripercorrere succintamente i principali passi del costrutto teoretico in cui Leopardi, inascoltato ospite, viene introdotto. Il solido nulla - che Negri identifica con la marxiana ‘sussunzione’ del mondo al capitalismo trionfante - è un mondo indifferente in quanto ogni differenza è in esso negata. Dolore e morte rappresentano il ‘negativo’ che l’indifferente solido nulla non è in grado di togliere (aufheben). Tuttavia, sull’orlo di questo nulla, di questa dinamica dissolutiva, sorge la “materialistica speranza di rivoluzione gettata sul futuro” che “coniuga Spinoza con Nietszche, Machiavelli e Ariosto con Rimbaud, Hölderlin con Joyce” (291), che “rovescia le condizioni del nulla in condizioni di creazione” (289) e che assume le sembianze di una “nuova ontologia”, l’ontologia del soggetto etico-poetico. Il soggetto etico-poetico, il soggetto rivoluzionario – antistorico e antigramsciano – non è però garantito da nulla. La sua forza è solo il dolore e la speranza, l’apertura infinita del futuro, l’alterità. Esso dunque “costruisce contro il nulla, dal dentro del nulla” (299). Tutto ciò, si badi, non ha niente a che fare con l’utopia. Ernst Bloch è fuori questione, come anche Gramsci: “l’utopia è ambigua … è una forma della dialettica…l’alterità è qualche cosa che sta sui piedi e non sulla testa. Non è utopia ma ontologia” (358). Anzi, è “disutopia”, vale a dire, rovesciando il celebre detto gramsciano, ottimismo della ragione e pessimismo della volontà (“come dire: qui non c’è niente che io possa fare, ma l’ottimismo della ragione mi dice che tutta questa bruttura può crollare”). Ecco allora emergere la domanda decisiva sul soggetto etico-poetico: “Cerchiamo di vedere se – dice Negri - non ci sia possibile cogliere quel momento nel quale la critica, dopo aver distrutto ogni possibilità di conoscenza naturalistica e/o mediata ed aver indicato l’esigenza e la speranza di un altro terreno, diviene finalmente potenza positiva, costruttiva” (375). E qui, sorprendentemente (per me almeno) egli, commentando il canto Sopra un bassorilievo antico, introduce l’amore: “L’amore è altro dalla natura, è base etica di una conoscenza diversa. Se ‘da natura / Altro negli atti suoi / che nostro male o ben si cura’ (vv.107/109), così da amore altro si cerca: la natura non è più solamente l’ineludibile sfondo dell’esistenza, è anche un nemico, ed è contro la sua ferocia che viene man mano costruendosi una sorta di comunità d’amore comunque un soggetto che a quella terribile legge naturale non vuole sottostare” (376-377). L’amore dunque allude a una possibile comunità, rivela se stesso come speranza, ed è anche momento di “ribellione”, di “denuncia”, di “paradossale ricchissimo rifiuto”. Esso “si forma come ‘altro’, come soggettività sofferente ‘nella’ natura – ma di qui sviluppa, o almeno allude ad uno sviluppo che è ‘altro dalla’ natura – una soggettività contrapposta, un tessuto ontologico differente” (377). Occorre dunque percorrere il nulla, opporsi risolutamente a esso e scoprire la “potenza” di questa opposizione, “che non nasce da profonde e ascose origini”, ma che “si configura contestualmente nell’atto di opporsi” (394). Eccoci così alla Ginestra, canto non “progressista”, ma “disperatamente rivoluzionario”, che “presenta caratteristiche filosofiche di conclusività” (398). Una conclusività, ça va sans dire, che implica anche “un salto, un’innovazione, l’atto creativo di un nuovo equilibrio metafisico” (399), cioè un rovesciarsi del metafisico nell’etico, che, anticipando le filosofie della crisi contemporanee (è Cacciari nel mirino?), unifica “l’orizzonte della filosofia dentro l’esperienza dell’etico” (403). Ecco preparata la “grande mossa ontologica” della terza strofa del canto, in particolare quella dei versi dell’“umana compagnia” e della “social catena”, tanto care ai teorici del ‘progressismo’ di Leopardi e che invece Negri interpreta come ‘antagonismo rivoluzionario’: il soggetto, afferma, “tende ora verso la collettività”, “la separazione si costruisce, si autovalorizza”, “il limite diviene verità” (403). La virtù nasce dal riconoscimento del nemico, dalla “affermazione di una pratica solidale che permetta di vincerlo”. Così, dalla separazione, nasce, in positivo, il soggetto etico, la “comunità etica”, la comunità del futuro, che si distende in sentimenti d’amore (“tutti abbraccia con vero amor”). L’ontologia si è immersa nella prassi! una prassi fatta di comportamento etico, di resistenza e di quotidiana costruzione. Insomma, pur affondando nella “tragedia dell’etico”, la Ginestra, secondo Negri , rivela l’etico come “potenza risolutiva della tragedia” (412). Questo eroico “essere insieme dentro e contro la tragedia” rappresenta, a suo giudizio, “il momento più alto del pensiero di Leopardi e uno dei momenti più significativi nella storia del pensiero del secolo decimonono” (412). Precorrendo le ragioni del nulla, soffrendo la crisi dell’illuminismo e della dialettica, Leopardi rifiuta di chiudersi nell’inerzia del pensiero negativo, e, con un “atto di rottura ontologico profondissimo e assolutamente alternativo”, erge prometeicamente “un’altra etica (e necessariamente un’altra politica) contro il nulla dell’universo etico-politico presente” (429). A fronte di un “trasformarsi impietoso dell’utopia in disperazione, della speranza in prigione dello spirito, come altro poteva esprimersi questo atto di rottura, si chiede retoricamente Negri, se non come atto di “denuncia poetica”? “Doveva essere ben difficile comprendere, quando la rivoluzione era finita, sconfitta … che a tale sconfitta non seguiva un processo dialettico, bensì una radicale alternativa … e che solo poesia ed etica potevano identificare una via che non fosse ripetizione della recente tragedia” (431).

Siamo così giunti alle pagine terminali del libro, dove Leopardi passa, per così dire, in secondo piano e la narrazione negriana, forte di un’asserita “paternità leopardiana”, irrompe, tra accenti ispirati, linguaggio criptico e toni apocalittici, nella contemporaneità. Bisogna rompere con un mondo in cui “il vuoto di significati è totale, ogni esperienza è … un bagno nel nulla e una approssimazione alla morte”. Ma come può accadere tutto ciò? “Il mistero di questa rottura è lo stesso della poesia. È poesia. È costruzione di nuovo essere”. Questo “grande gioco della rottura è necessario, è la necessaria ipotesi di rovesciamento che attraversa l’attuale condizione di disumanità del mondo. Poi vi sarà il lungo cammino di costruzione etica. Infine, su questa costruzione, potremo persino cominciare a pensare di aver fatto la verità. Per ora non ci resta che questo cammino da iniziare: con una rottura fondamentale, che ci dica altro, che instauri altrove la nostra umanità … Il Leopardi ci è vicino in questo suo presago soffrire” (ma come non pensare al Leopardi di De Sanctis: “E se il destino gli avesse prolungata la vita infino al quarantotto, senti che te l’avresti trovato accanto, confortatore e combattitore”?). La poesia è “rottura dell’esistente, del solido esistente che ci abbraccia”. La poesia è il sole, pardon “la porta dell’avvenire”, è “questo andare al punto più profondo, è questo scavare e scoprire un tesoro vivo … La poesia è il mondo che diviene nostro, per un attimo, per un tratto … consapevoli che quel rischiaramento dell’essere che si è determinato è solo una possibilità di avanzare, e guardare, e costruire le deboli resistenze di un amore che si vuole enorme e su questa enormità si prova. La poesia rompe la crosta dell’essere – per costruire nuovo e più universale essere. Leopardi ci insegna questa divinissima umana atea via di liberazione” (434-438). Scusate se è poco. Al culmine di questa poderosa, avvolgente e vertiginosa ricostruzione del pensiero di Leopardi, a dispetto del sentimento di meraviglia che suscitano la cultura e la capacità di astrazione e di affabulazione dell’autore, nasce tuttavia spontanea la domanda: ma è proprio questo Leopardi? Forse lo è. Tuttavia, la mia impressione, ormai trasparente, è che il pensiero poetico di Leopardi sia infinitamente distante da quello di Negri. Al punto da far sorgere uno “spaventevole” dubbio: non sarà che Giacomo abbia scritto quello che ha scritto per mostrare la verità dell’interpretazione di Negri, di Toni naturalmente, non di Antimo?

Antonio Negri
Lenta ginestra. Saggio sull’ontologia di Giacomo Leopardi
Mimesis 2015
pp. 241, € 15,37

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