Print Friendly, PDF & Email

paroleecose

Una sottile lotta di tutti contro tutti*

Camilla Panichi intervista Francesco Pecoraro

smith unframedQuando ho terminato La vita in tempo di pace (Ponte alle Grazie, 2013) di Francesco Pecoraro, ho avuto la netta impressione di essere di fronte a un romanzo italiano senza precedenti. Ho deciso di intervistare l’autore. Ci siamo incontrati alcuni mesi fa a Roma in un giorno di diluvio universale che ricordava quello raccontato nel romanzo; ne è nata una conversazione di tre ore, da cui ho selezionato le seguenti parti. Francesco Pecoraro è autore anche di una raccolta di racconti, Dove credi di andare(Mondadori 2007); le prose inizialmente pubblicate sul suo blog con lo pseudonimo di Tashtego sono state raccolte nel volume Questa e altre preistorie (Le Lettere, 2008). Con La vita in tempo di pace Pecoraro ha vinto il premio Mondello, il Premio Volponi e il Premio Viareggio (cp). C = Camilla Panichi, P = Francesco Pecoraro.

* * *

C: La tua formazione è di architetto. Come sei arrivato alla scrittura e quanto è stata determinante l’esperienza di scrittura sul blog? (link: http://tash-tego.blogspot.it/)

P: Ho iniziato a scrivere negli anni Ottanta, essenzialmente versi. Da un certo momento in poi, all’inizio degli anni Novanta ho cominciato a produrre prosa. Assieme a molto materiale sparso, scrissi un piccolo libro, mai pubblicato, di riflessioni sull’Isola, di cui alcuni spunti mi sono poi serviti per i capitoli Sofrano e Il senso del mare della Vita in tempo di pace. Nei primi anni Duemila ho iniziato a lavorare con l’intenzione di produrre qualcosa di formalmente definito. Il web è stato molto importante, non esisterei come scrittore se non esistesse il web: per me è stata una palestra fondamentale, mi ha aiutato a fluidificare la scrittura, a renderla veloce, disinibita, a staccarla definitivamente dalla nozione liceale che ancora ne avevo.

Ho iniziato intervenendo sui forum letterari e sulle chat. Poi nel 2005 ho aperto un blog, altra modalità fondamentale di esercizio di scrittura individuale. E poi naturalmente facebook. Facebook è diverso, ancora non ho capito cos’è, ma credo vi si producano dei momenti di letteratura collettiva, degli sprazzi molto interessanti, come per esempio può accadere nel tennis: vedi una partita noiosa e d’improvviso assisti a quattro, cinque colpi meravigliosi, di pura qualità e invenzione. Questo su facebook può succedere, come del resto accadeva nei forum o in alcuni momenti di chat collettiva, dove ogni tanto l’intelligenza altrui si manifestava in modo abbagliante.

Per quanto mi riguarda, il mezzo tecnico è stato decisivo: sia il computer che il web hanno rappresentato un passo importante rispetto alla macchina da scrivere: con questa incidi lettera per lettera, con il computer è come scrivere sull’acqua, cancelli, rifai, sposti, sperimenti, butti. Vista la sua resa stilistica mi stupisce che David Foster Wallace scrivesse a penna. Il mio approdo alla prosa è piuttosto casuale, voglio dire non molto meditato. Dal 1980 lavoravo in un ufficio pubblico come architetto e urbanista. Qualche anno fa ebbi un contrasto con persone che in quel momento e in quell’ambito erano più forti di me, cosa che comportò per un certo periodo la mia completa esclusione da qualsiasi attività lavorativa. Sai quella cosa che si chiama mobbing? Fui collocato in un ufficio isolato, chiuso in una stanza a fare nulla, attaccato al telefono alla ricerca di un appiglio per rientrare e con una certa quantità di antidepressivi nel sangue. In questo tempo vuoto ho cominciato a scrivere, a dare forma a una serie di cose su cui stavo riflettendo. Mi sentivo una persona completamente fallita, annientata, persa e i miei primi racconti rispecchiano questo stato d’animo. Ma assieme a questo stato d’animo c’erano la felicità della scrittura, una certa incoscienza e una certa libertà. Ho scritto un buon numero di pezzi e li ho messi da parte. Nel frattempo coltivavo il blog, tramite il quale fui contattato da Silvia Bortoli che mi ha aiutato a pubblicare la raccolta Dove credi di andare. Oggi, quando incontro la persona con la quale ebbi quel contrasto, penso: ma davvero sei tu che mi hai fatto diventare uno scrittore?

 

C: Il tuo esordio narrativo è con Mondadori. Qual è stato il percorso editoriale del romanzo e come sei arrivato alla casa editrice Ponte alle Grazie?

P: Ho esordito con Mondadori con una raccolta di racconti, grazie a Franchini che l’ha molto apprezzata, mentre la stesura, mi pare numero dieci, del romanzo (quella pubblicata è la numero quattordici) non l’ha convinto, oppure non ha convinto i suoi collaboratori, non so. Dopo il rifiuto di Mondadori ho proposto il romanzo ad altre case editrici, ma nessuno voleva pubblicarlo. Anche Ponte alle Grazie inizialmente lo aveva rifiutato. C’è un problema legato ai lettori che lavorano con le case editrici: spesso sono giovani e questo non è un libro per giovani, non entra molto facilmente nell’orizzonte di ciò che è pubblicabile agli occhi dei nuovi editor. Ho lasciato decantare il romanzo, l’ho tagliato, ho cercato di rendere la pagina più fluida, l’ho riorganizzato e alla fine Vincenzo Ostuni ha deciso di pubblicarlo.

 

C: La struttura che oggi ha il tuo romanzo l’avevi pensata sin dall’inizio?

P: No. All’inizio non c’era niente, soltanto un accumulo di materiali. In giro nel mio computer c’erano frammenti del capitolo Il senso del mare, ma il primo che ho scritto in modo più o meno compiuto è stato Il motore immobile. Subito dopo, Sofrano, che ho riscritto più volte, e a seguire gli altri. Così a un certo punto mi sono ritrovato come con un mucchio di frammenti di colonne da mettere in piedi. Mi accorsi che ne mancava qualcuna, che c’erano dei vuoti troppo ampi. Tutto somigliava ancora a una rovina, a una sorta di vuotata di sacco: me ne accorsi sia parlandone con amici, sia scrivendo. Occorreva dare una struttura al tutto e scrivere le parti che a quel punto mi apparivano mancanti. Ho capito che doveva intitolarsi Spitfire, in onore dell’aereo da caccia inglese protagonista della Seconda Guerra Mondiale, e si è intitolato così fino all’ultimo, cioè fin quando è stato cambiato perché troppo ermetico, poco comunicativo: mi si fece giustamente notare che oggi quasi nessuno sa più cos’era uno Spitfire. Ma senza quel titolo forse non sarei riuscito a scriverlo.

 

C: A proposito del titolo. Nella raccolta Questa e altre preistorie, c’è un frammento, Sessant’anni di guerra, che è un embrione di alcune delle riflessioni che verranno poi sviluppate nel tuo romanzo. Dunque che cosa significa ‘vivere in un tempo di pace’?

P: Vivere tutta la propria vita in tempo di pace è un’esperienza storica che credo sia capitata soltanto alla mia generazione. Spero che capiti anche alla vostra, ma non ne sono tanto sicuro. Sono nato nel 1945, alla fine della guerra, e sono invecchiato dentro la pace, guardando alla guerra come a una cosa mitica di cui da bambino mi venivano fatti molti racconti, soprattutto dalle donne. Questa memoria bellica indiretta incise molto su di me e costruì l’idea iniziale che mi feci dell’Italia come un paese perdente. Il racconto della guerra, l’esperienza vitale bellica sono tra le cose che ancora oggi mi incuriosiscono di più. M’interessa soprattutto il combattimento, perché comporta l’agire in modalità vita/morte per obbligo esterno e non per il proprio diretto interesse, se non per il fatto che in quei momenti il proprio interesse coincide interamente col sopravvivere. Mio padre era stato pilota di guerra. Raccontava pochissimo, ma una volta (ero ancora abbastanza piccolo) mi disse che ogni mattina, quando indossava la tuta di volo e saliva sull’aereo, diceva addio alla vita, perché sapeva che anche quel giorno c’erano fortissime probabilità che venisse ucciso («Se eri su un aereo da bombardamento, uno Spitfire neanche lo vedevi arrivare», disse, e per me da quel momento lo Spitfire entrò nell’olimpo delle divinità). Aggiunse che quella sensazione di vivere le ultime ore della propria esistenza gli davano un senso di pace assoluta. È sopravvissuto.

Rifiuto radicalmente la guerra, tuttavia ho sempre pensato che l’esperienza dell’agire in modalità vita/morte fosse l’unico vero modo per conoscere certi luoghi di sé. Ma l’esperienza del conflitto fisico, inesorabile e aperto, per fortuna mi è stata risparmiata. In tempo di pace il conflitto si svolge in maniera lenta, viscosa, sotterranea, e per tutta la durata della tua vita – tranne quando ti scontri fisicamente con qualcuno – non diventa mai esplicito. È una battaglia silenziosa e sottile, in cui occorrono astuzia, strategia, opportunismo, lungimiranza. Una lotta che alla lunga ti può demolire, perché tu hai, o credi di avere, un obiettivo, ma tra te e questo obiettivo ci sono tutte le persone che vogliono la stessa cosa, più tutti quelli che, in modo casuale o intenzionale, interferiranno con la tua azione, contrastandola, annullandola. Così, se non sei attrezzato, finirai in luoghi molto lontani da quelli dove ti eri prefisso di andare. Brandani da giovane decide di voler essere un costruttore di ponti, studia, si applica, ma per tutta la vita non riuscirà a progettarne nessuno.

 

C: Dunque la modalità vita/morte consentiva di pensare la vita in termini di solidità e di concatenazione, anziché di fluidità e dispersione, come oggi.

P: La modalità vita/morte è una fantasia di Ivo Brandani e forse anche mia. Una fantasia che riguarda il raggiungimento della coscienza di ciò che si è capaci o non capaci di fare nell’agire ultimativo. Ma poi non credo che nella realtà sia questo: c’è un bel film di Robert Rossen, Cordura, con Gary Cooper, in cui si espone la tesi che l’eroismo non abbia nulla di etico, né di consapevole. Essendo nato nel ’45 ho vissuto in un clima che potrei definire l’onda d’urto dell’esplosione bellica, che fu appunto un’esperienza terrificante e collettiva della modalità vita/morte. Ho vissuto tutta l’energia del dopoguerra, la sua spinta vitalistica (le ultime tre pagine di La vita in tempo di pace vogliono raccontare questa atmosfera), che fu anche una selvaggia e tenera spinta sessuale. Per me fu come trovarsi dentro l’onda d’urto di un’esplosione vicina, silenziosa ma molto forte. Nel dopoguerra ci fu il baby-boom e io sono figlio di quello spirito di rinascita, di ritorno alla vita, ne faccio parte ancora oggi.

 

C: E per Ivo Brandani?

P: Nel libro non è importante cosa è realmente vero, cioè se la condizione estrema del combattimento sia davvero auto-conoscitiva. È importante l’immagine che lui se ne è fatto. Brandani si dice: se io non sono stato capace di vivere al tempo di pace, come me la sarei cavata in modalità guerresca? E si rende conto che non sarebbe stato capace nemmeno di quello, perché negli scontri effettivi a cui partecipa non agisce. L’unica forma di violenza di cui è capace è quella privata, primordiale.

 

C: In La vita in tempo di pace c’è un intero capitolo, Ponte e porta, dedicato ai moti studenteschi del Sessantotto e ai fatti di Valle Giulia, ed è narrato attraverso lo sguardo straniato del protagonista. Ivo Brandani attraversa un pezzo di storia che non è privo di eventi. Questo non può essere considerato un evento fondativo per l’esperienza individuale e collettiva? Che cosa ha rappresentato il Sessantotto nel flusso storico dei sessanta anni di pace?

P: In questo caso l’autore non coincide del tutto con il suo personaggio. Per me quegli anni sono stati un momento formativo formidabile. Per Ivo Brandani anche, ma in modo diverso, perché dirazza e decide che la tecnica è l’unica cosa che gli interessa: nella sua formazione l’impronta sessantottesca resta indelebile al punto che determina alcuni suoi errori di valutazione, come quello di sentirsi diverso. Cosa abbia effettivamente rappresentato il Sessantotto non posso dirlo perché non lo so, ma so che dopo l’Italia non fu più la stessa, anche se i giovani della mia generazione realmente coinvolti nel movimento furono una minoranza: considerando tutte le università e le scuole si calcola che siano stati al massimo cinquantamila, mentre ho letto che all’epoca i ragazzi italiani tra i 20 e i 29 anni erano più di 7 milioni, molti dei quali non se ne saranno neanche accorti. Occorre ammettere che a marcare gli anni successivi fu l’azione di queste avanguardie. E non poco.

 

C: Quindi tu hai deciso di raccontare questa non partecipazione, una partecipazione laterale come quella di Ivo.

P: No, Ivo partecipa e in modo molto assiduo: frequenta le assemblee e i seminari nelle facoltà occupate, va alle manifestazioni, ne discute continuamente, legge i sacri testi, eccetera, però senza mai riuscire a entrare davvero, cioè con l’anima, nel Movimento. E, quando lo scontro politico diventa scontro fisico, non riesce ad agire. Il mio personaggio non riesce a provare l’odio o l’eccitazione che ti servono in uno scontro di piazza e ti fanno superare la paura, mentre è capace di agire solo nella violenza privata. Ivo, soprattutto nell’infanzia, vive continuamente momenti di violenza e impara persino a gestirli, al punto che nelle strade che circondano la sua parrocchia diventa «uno che mena». Nell’inferno del tempo di pace non c’è la guerra, ma c’è la violenza. Quella privata e quella politica, che somiglia alla violenza militare, quindi alla guerra, dove si deve vincere la paura a freddo, cosa che Ivo non riesce a fare. La violenza guerresca e quella privata sono due cose profondamente differenti.

 

C: Oggi, il modello Ivo Brandani sembra aver vinto. Domina cioè il modello che ha protetto se stesso e i proprio interessi, che si è messo al riparo dalla Storia. Per come è strutturata oggi la nostra società civile e i modelli politici dominanti, quale reale cambiamento ha portato il Sessantotto?

P: La generazione che ha fatto il Sessantotto è riuscita a inserire elementi di democratizzazione, di modernizzazione, di civiltà sociale in un paese dominato da un eterno centro destra, clericale e autoritario. La figura di Franco Sala, che talvolta parla a nome dell’autore, sostiene – come del resto Ivo è costretto ad ammettere a se stesso – che tutto ciò che è stato fatto in quegli anni è stato fatto perché serviva al Capitale. Perché le società chiuse e autoritarie, come quella italiana del dopoguerra, dovevano aprirsi, evolversi, fluidificarsi, diventare più tolleranti e accoglienti per il consumismo che si stava allora instaurando. La mia sensazione è che il Sessantotto abbia trasformato completamente la scuola, oltre a consentire l’affermazione di due leggi fondamentali: il divorzio e l’aborto. Quindi l’Italia ha avuto una fase di ascesa civile dopo la quale è ricaduta molto più in basso da dove era partita. Questo è accaduto per una serie di fattori: uno di questi è stato il terrorismo (altro prodotto del Sessantotto), ma anche la debolezza culturale della classe media ha avuto un ruolo importante. In linea di massima credo che la lettura classica delle trasformazioni culturali dei primi anni Ottanta – che assegna un ruolo cruciale alla televisione commerciale ­– sia corretta. È un discorso complesso nel quale non sono a mio agio, ma, rispetto alla mia formazione marxista che voleva la cultura come un dato sovrastrutturale, mi sono reso conto che in una democrazia mediatica come la nostra la cultura è diventata un dato strutturale. È quando il potere, attraverso la televisione, riesce a parlare direttamente alle coscienze individuali e ad orientarle senza la mediazione dei partiti e dei blocchi culturali (dunque in definitiva degli intellettuali) che avevano caratterizzato fino ad allora la circolazione delle idee.

Una cosa che le persone della tua età non hanno vissuto e di cui non si possono rendere conto è che fino ai primi anni Novanta non c’era questa (apparente) fluidità. C’erano le Quattro Culture: quella cattolica con i democristiani, quella social-comunista, quella liberale & libertaria e quella fascista, ancora molto forte. Queste culture si esprimevano attraverso i partiti. Erano dei veri e propri sistemi complessivi d’interpretazione della realtà e di progettazione del futuro, ai quali si apparteneva e che facevano da filtro dell’informazione e quindi del giudizio: era una cosa capillare per via della diffusione sul territorio delle organizzazioni politiche. La cultura cattolica non era trasversale come oggi: i cattolici erano tutti dentro la democrazia cristiana, che aveva il 40% dei voti e nonostante le sue molte correnti era un blocco compatto. Invece la cultura social-comunista, che faceva capo al pensiero marxista e socialista, era divisa in tre o quattro partiti. La cultura liberale ne aveva due: il partito liberale e quello repubblicano…

 

C: Volendo individuare una data, a partire dal 1994 questo sistema è venuto meno.

P: Secondo me è cominciato a venir meno a partire dagli anni Ottanta.

 

C: Ti riferisci alla marcia dei quarantamila quadri della Fiat?

P: Non so, per me quello non è stato un evento così significativo. Non mi riferivo alla crisi del pensiero comunista, che secondo me è venuta a piena maturazione dopo il 1989, con la caduta del muro di Berlino. Sto parlando del processo di disappartenenza. Da un certo momento in poi il vecchio sistema politico-culturale ha iniziato a smontarsi e ciascuno dei blocchi di appartenenza da cui era formato non ha più avuto la funzione di filtro ideologico, non ha più organizzato il consenso o il dissenso nei confronti del potere in quel momento dominante. C’è anche da dire che queste culture interferivano fortemente, non erano isole impermeabili, ma si influenzavano a vicenda. Era una cosa strana: con la televisione di Stato bastava cambiare canale per passare da un paese all’altro, da una lettura all’altra. Ma c’erano collegamenti, trasversalità, momenti di osmosi. Poi gradualmente il potere si è procurato da solo il consenso attraverso la televisione commerciale, parlando direttamente alle menti, senza più alcuna mediazione ideologica. L’idea che la tua generazione si è fatta, e cioè che tutti quelli che hanno fatto il Sessantotto sono diventati classe dirigente non credo sia esatta. Saranno diventate vera classe dirigente, cioè gente con vero potere, centocinquanta persone, forse anche meno. Gli altri si sono persi nella società, come succede a ciascuno di noi, ma trattandosi di gente che aveva studiato, con ogni probabilità col tempo si saranno ritrovati in posizione dirigente: se per classe dirigente si intende questo, allora sì, ma è vero per ogni generazione. C’è stato un momento, legato agli anni Sessanta e alla cultura giovanile, in cui la spinta al cambiamento è stata molto forte: un libro molto bello di Henry Roth che si intitola Alla mercé di una brutale corrente: quando ripenso a quegli anni e alla mia vita mi viene sempre in mente l’immagine di un flusso storico che mi trasporta via con sé, senza che possa davvero oppormi.

 

C: La tendenza che tu hai individuato nella mia generazione è quella di guardare alle generazioni precedenti come qualcosa di costruito e stabile a differenza di una condizione attuale di disagio e precarietà. Dunque l’atteggiamento è quello di una costante negazione del passato senza però non produce un vero rifiuto e una radicalizzazione: il passato che contestiamo è quello che ci esclude, quello a cui vorremmo aderire.

P: Oggi non c’è neanche vero scontro culturale fra generazioni, perché in fondo si condivide la stessa cultura. Lo scontro degli anni Sessanta è stato fra due culture molto strutturate e in forte opposizione. Oggi i ragazzi vanno ancora a sentire i Rolling Stones, non ostante abbiano settant’anni e siano portatori di moduli estetici di 50 anni fa. Dopo non c’è stato niente di paragonabile a quel fenomeno economico-culturale che è stata l’invenzione della gioventù. Prima degli anni Sessanta non esistevano i giovani, adesso esistono e se ne parla in quanto giovani. Esistevano i giovani uomini, ma non esistevano i giovani con la loro cultura, con un loro linguaggio, diversi da quello dei genitori.

 

C: Tornando al libro, il capitolo Ponte e porta prende il nome da un saggio di estetica di Georg Simmel[1]. È un saggio che ricorre spesso nella tua scrittura, infatti è presente anche in Delimitare e abitare in Questa e altre preistorie. Simmel parla dei confini e della possibilità di unire le cose che sono separata. Il romanzo compie la stessa operazione, unisce cose che sono separate e lo fa attraverso la scrittura. L’ho letto come una dichiarazione di poetica.

P: Sono sempre stato affascinato da quel saggio e in genere da Simmel che mi piace molto. Ivo dice: se l’operazione del pensare è collegare cose che sono separate, e separare cose che invece ci appaiono unite, allora la massima espressione filosofica umana è quella del faber, che fa questa cosa nella realtà. La vita in tempo di pace è un inno al faber, che è considerato la forma di vita umana realmente superiore e misconosciuta. Per esempio, nel disprezzo di Franco Sala per la scelta di Ivo c’è tutto un atteggiamento umanistico che considera la tecnica come un disvalore. Però Franco gli dice anche una cosa vera e cioè che gli ingegneri sono degli schiavi, sono funzionali al capitale, sono la figura fondamentale del capitalismo. Nelle sue parole c’è il disprezzo della classe intellettuale verso i tecnici e questo è tipico della cultura italiana, che proviene e si basa essenzialmente sul liceo ed esprime una cultura dei valori e non delle cose. Invece per me la tecnica è la parte fondante della società, anzi è la società.

 

C: Parlando del tuo percorso editoriale hai detto che La vita in tempo di pace non è un libro per giovani. Leggendolo ho avuto l’impressione di essere posta davanti a uno scenario post-umano, apocalittico. Il modo in cui il narratore ci presenta Ivo Brandani ha qualcosa di definitivo, di testamentario ma senza eredità. La visione del mondo e della vita che emergono non concedono salvezza. C’è un senso di sperdimento e di fine.

P: Più che di un’apocalisse Ivo sente l’arrivo di una serie di trasformazioni epocali, come la morte della natura, la trasformazione della natura nell’immagine di se stessa. Questa percezione deriva anche dal lavoro che Ivo sta facendo: la costruzione di una barriera corallina artificiale dalle parti di Sharm-el-Sheik. Quindi non è tanto l’apocalisse quanto la fine di un mondo. Ciò che gli rimane insopportabile è l’accelerazione pazzesca che ha preso la realtà a partire dalla fine del XX secolo. Ivo non solo è convinto di non conoscere se stesso perché vive in un tempo di pace, non solo è costretto ad affrontare ogni giorno il conflitto perenne di tutti contro tutti per accaparrarsi quel poco di risorse che gli servono per vivere, ma deve anche affrontare l’accelerazione inaudita del mutamento. Non si tratta soltanto del cambiamento della tecnologia, che per lui rimane interessante come per tutti i faber, ma soprattutto della trasformazione culturale dei propri simili. Oltre a questo c’è il senso di ciò che poteva essere e non è stato, sia per quanto riguarda le sue esperienze personali, sia per quanto riguarda il suo Paese. Quando alla fine del libro Ivo osserva il territorio dall’alto, legge il fallimento di una cultura, di una società, di una civiltà attraverso i segni lasciati nel territorio: è una visione che può sembrare apocalittica, ma che ciascuno di noi può procurarsi per esempio su un volo Roma-Bari.

Ivo non ha niente da lasciare a nessuno: né sul piano tecnico, né su quello del pensiero, né su quello delle cose. Avrebbe lasciato traccia di sé se fosse riuscito a costruire ponti, invece non è riuscito a entrare nemmeno in quel processo: o meglio, è entrato nel mondo dei costruttori ma è riuscito a guadagnarsi solo una posizione laterale. Ivo è un portatore d’acqua, è un organizzatore che fa sopralluoghi nei posti dove altri progetteranno e costruiranno, che prepara il terreno, crea le condizioni per l’espressione del pensiero e delle capacità altrui. Non perché sia stupido, anzi, ma perché non è stato abile nella lotta per posizionarsi nei punti giusti al momento giusto.

 

C: La lotta è un altro tema centrale del tuo romanzo. Lungo tutto il corso della narrazione emerge una forte e personale visione darwiniana.

P: Darwin è stato il pensatore più importante per la mia modesta visione del mondo. Molto importanti sono anche i neodarwinisti, i grandi divulgatori come Stephen J. Gould e Richard Dawkins, soprattutto quest’ultimo: L’orologiaio cieco è oltretutto un libro scritto superbamente. Un amico filosofo mi ha detto che La vita in tempo di pace è l’unico romanzo autenticamente darwinista che gli sembra di aver mai letto. Sono convinto che dobbiamo sforzarci di vedere il mondo senza cedimenti attraverso la chiave del materialismo evoluzionista. È necessario per sgombrare il campo da ogni illusione spiritualista. In questo sono d’accordo con l’ing. Brandani: tutto ciò che siamo è materia, tutto ciò con cui abbiamo a che fare è frutto di un cieco processo di evoluzione: imperfetto, impreciso e soprattutto mai compiuto. La vita è una grande zuppa ostile a se stessa, che sopravvive solo nella sopraffazione di sé. È stato detto che questa è una visione disperata. Non lo credo.

 

C: È un processo di trasformazione ciclico?

P: C’è un passaggio nel libro in cui Ivo si sforza di vedere il piede della ragazza seduta davanti a lui in aeroporto come il frutto dell’evoluzione di una mano, come una mano deformata, adattata alla deambulazione. È un processo non lineare che coinvolge ogni aspetto dell’esistente; tutto è in trasformazione, ma senza uno scopo che non sia adattativo: l’evoluzione non ha un fine, se si arresta, o rallenta, lo fa solo temporaneamente: tutti i file restano aperti fino all’ultimo, non c’è conclusione finale, ma solo chiusura per estinzione. Tuttavia è un processo che produce bellezza, cioè cose, organismi che a noi sembrano belli – e questo è uno dei misteri –, crea realtà inimmaginabili, complessità preterintenzionali, il cui scopo è leggibile solo a posteriori o non è leggibile affatto.

 

C: Mi chiedo se l’accettazione soggettiva di questo materialismo assoluto è realmente possibile. Per vivere nel presente è necessario accettare certe condizioni oggettivamente. Ma soggettivamente, cioè intimamente, è possibile? Forse solo a patto di una scissione profonda tra interiorità ed esteriorità, tra io e mondo. Ivo sostiene di essere materia, ha assunto oggettivamente una forma di vita materialista, ma più che vivere le cose ne è stato attraversato.

P: Ivo ha una propensione alla riflessione filosofica, ha bisogno di crearsi un’immagine della realtà e del mondo e lo fa attraverso una serie di letture e con il dialogo continuo con un amico filosofo, l’ex-leader studentesco Franco Sala. L’immagine della realtà che si costruisce è di tipo completamente materialista. Naturalmente è una chiave di lettura, di cui Ivo ha bisogno, poi le sue modalità di esistenza sono quelle di tutti. Ma lui cerca pervicacemente di restare attaccato alla sua visione, cerca di risolvere l’enigma del percepirsi come «spirito» e del pensarsi invece come tutta materia. Poi c’è la realtà. Diceva Colletti che i filosofi che si chiedono se esista una realtà fuori di noi, quando attraversano la strada e magari sta passando un tram, o mettono a tacere questa domanda e danno il tram senz’altro per reale, oppure durano poco. Quindi forse è un po’ stupido porsi una domanda a cui la vita e l’esperienza ti danno una risposta imprescindibile. Per Brandani, come per tutti noi, l’accettazione della realtà come qualcosa di pericoloso, che è fuori di noi e ci sovrasta, è stato un processo fondamentale della sua formazione individuo. Il problema è che non si è ancora chiuso e non si chiuderà mai.

 

C: L’accettazione è ciò che permette a un individuo di fare un passo in più e di salvarsi rispetto a chi non riesce ad assumere lo stato di cose presente. Per usare, con molte virgolette, un’immagine di Primo Levi potremmo dire che chi riesce ad accettare la realtà è un ‘salvato’, gli altri sono dei ‘sommersi’.

P: Qui la mia visione personale e quella di Ivo si sovrappongono. Ivo non raggiunge i suoi obiettivi che, in fondo, sono minimali: vuole costruire ponti, vuole una donna con cui stare e fare dei figli, ma non riesce ad ottenere queste cose perché non sa veramente lottare, se non in modo fisico. Nella vita in tempo di pace non riesce a cavarsela nel conflitto strisciante silenzioso e violentissimo che ci investe per tutta la nostra esistenza e che produce come dice Primo Levi, ‘sommersi’ e ‘salvati’. Ivo in fondo non è un sommerso, perché le sue competenze di ingegnere gli garantiscono un buon livello di vita. È un vantaggio di partenza che ha sfruttato male, ma che gli ha dato comunque dei vantaggi. Non ho una concezione darwiniana della società, anzi, la combatto, perché in questo caso tutto diventerebbe ineluttabile, varrebbe soltanto la legge naturale del più forte e la sinistra è tale solo se è integralmente cultura, cioè se integralmente si oppone alla natura.

Una società è civile nella misura in cui salva i sommersi dando loro un minimo di garanzie. Se una persona povera può comunque essere ricoverata in ospedale, questo fa di noi un gruppo sociale. Se i sommersi diventano una maggioranza di soccombenti senza nessuna difesa, allora non siamo una società, siamo qualcosa di diverso. La società deve garantire esistenza e dignità anche e soprattutto al perdente. La cultura deve puntare a mantenere in piedi questa idea di società in opposizione a una natura fascista, fondata sulla sopraffazione, che si nutre di se stessa… La natura deve restare fuori le mura della civitas. Ma queste sono inferenze tutte mie: l’ing. Brandani non mi ricordo cosa pensa in proposito.

 

C: Dunque il concetto di ‘delimitare e abitare’, espresso in Questa e altre preistorie, è porre dei confini tra ‘cultura’ e ‘natura’ (per altro Ivo Brandani muore a causa di un parassita, la Naegleria fowleri, cioè di un organismo unicellulare presente in natura).

P: Certamente, è un po’ una mia ossessione. Parecchi anni fa scrissi un saggio, Casa, uscito sulla rivista «Controspazio» (gennaio-aprile 1979) incentrato sull’analisi del rapporto esterno/interno, nel tentativo di spiegare il piacere di stare dentro, cioè in uno spazio delimitato rispetto al quale c’è un fuori. Analizzavo alcune pitture, come la Rotonda dei bagni Palmieri (Giovanni Fattori 1866) o The wind from the sea di Andrew Wyeth (1947), cercando di centrare l’idea che la nostra vita si nutre e si struttura nell’opposizione esterno/interno, che è alla base dell’abitare, e individuavo il corpo, la pelle, come un involucro abitativo ultimo, violato il quale siamo morti. Quindi vivere e abitare (noi stessi) sono la stessa cosa. Ovviamente una tale impostazione apre una quantità di problemi, che ora non sto a dire.

 

C: La struttura di La vita in tempo di pace sembra tenere conto di questa distinzione tra dentro e fuori tra ordine e disordine. Il libro è diviso in capitoli che alternano l’‘ordine’ inscritto nello sviluppo della trama e il ‘disordine’ inscritto nel flusso di coscienza di Ivo.

P: L’immagine strutturale che mi proponi è esatta e molto acuta. Ho scritto separatamente i capitoli narrativi e tutto insieme quello che possiamo convenzionalmente chiamare il flusso di coscienza, anche se propriamente non lo è. Successivamente ho deciso di spezzarlo e intervallarlo con i blocchi di testo che narrano diversi momenti dell’esperienza vitale dell’ing. Brandani. È difficile far funzionare da solo il flusso di coscienza, perché si ha sempre bisogno di dire cose che non siano filtrate dallo sguardo del protagonista: cosa sta realmente accadendo? Quando ho descritto gli scontri di piazza ho avuto serie difficoltà nel dire tutto dal punto di vista di Ivo: quando mi sta accadendo una cosa io non dico a me stesso “mi sta accadendo questa cosa”, lì lo sto dicendo al lettore e quindi c’è un artificio di scrittura. Il flusso di coscienza funziona bene solo a scapito della trasmissione del senso. Volevo che il lettore sapesse e capisse, per questo ho accetto un certo livello di ambiguità.

 

C: Qual è stato il principio teorico alla base della tua scelta narrativa?

P: Un vero e proprio principio teorico direi che non c’è. Solo qualche criterio, qualche scelta a naso. Sapevo solo di voler scrivere molto, di voler vuotare il sacco. Poi la messa a punto della struttura ha richiesto molto tempo, finché non ho capito che l’andamento doveva essere a ritroso. Ero convinto di non poter narrare in termini lineari: mi piaceva l’idea dello scavo all’indietro, oltre le radici, fino al niente dell’emozione erotica che è alla base delle nostre esistenze. Volevo evitare che si leggesse un rapporto di causa effetto tra il prima e il dopo e soprattutto niente “romanzo di formazione”. Tutto doveva risultare un po’ confuso, si doveva capire solo qualcosa e tenevo all’epilogo dove, prima della sofferenza vitale di chi nascerà, c’è un momento di felicità assoluta. Insomma il libro è costruito con precisione: soprattutto non volevo che i momenti di narrazione più strutturati, cioè quelli inframmezzati al flusso di coscienza aeroportuale, suonassero come flash back prodotti dalla mente di Ivo, perché sono prerogativa del narratore. Il problema più grosso per me era (ed è) entrare/uscire dalla testa delle figure che metto in scena. Insomma sono un narratore dell’inizio del XXI secolo, non credo più nella linearità del testo e nella trama: del resto la vita non ha trama, la vita è una cosa confusa e indecifrabile, se voglio provare a parlarne seriamente devo limitare la trama ai momenti in cui ci succedono cose concatenabili in un plausibile rapporto di causa-effetto. Questi momenti nel libro sono resi tendendo a una maggiore intensità narrativa, ma si tratta soltanto di porzioni quantiche in cui l’esperienza vitale può essere detta in questo modo, per il resto no.

 

C: Mi ritrovo molto in questa riflessione. Ma d’altra parte penso anche che la nostra vita biologica risponda ancora a un sistema lineare. Il nostro tempo biologico è identico a come lo ha definito Sant’Agostino: c’è un inizio, un centro e una fine. Quello che dici tu, la vita, il caos, l’assenza di trama è ciò che sta in mezzo tra la data di nascita e quella di morte.

P: Quello che dici è vero se lo compi fino alla fine, nel senso che arrivi all’età in cui cambia completamente la visione delle cose e inizi a vedere ciò che hai vissuto in maniera completamente diversa: la morte si dice prematura quando è l’interruzione brutale di un processo in corso. Ivo Brandani ha compiuto la sua traiettoria e da lì, dalla sua ultima postazione a Sharm, osserva il caos della propria esistenza. Ma forse si tratta di qualcosa di diverso. La maggior parte degli atti che compiamo sono di ordine razionale: prendiamo delle decisioni (spesso sbagliate) per degli scopi. Dalla somma dei processi decisionali non esce fuori un processo razionale complessivo, ma la risultante caotica di una catena di intenzioni e di una serie di azioni e reazioni che in sé non sono intimamente caotiche. A posteriori non riesci più a trovare il filo di tutto: di narrabile restano solo sprazzi, episodi e sono proprio questi i capitoli del libro, momenti narrabili, a volte pieni di felicità e di piacere. Insomma la vita dell’ing. Brandani è stata più bella di quanto lui sia in grado di ricordare.

 

C: Leggendoti ho pensato spesso a Joyce e Kafka (soprattutto per alcuni racconti in Dove credi di andare?) Ti riconosci in questi scrittori? Quali sono i tuoi modelli?

P: Sono stato per tutta la vita perdutamente innamorato di Hemingway che, con Joyce, è considerato un autore modernista. Un vero scrittore modernista italiano è Fenoglio, che non a caso traduce i propri libri da una prima stesura in inglese. Il tuo scrittore è quello che, se hai diciassette anni ed è un pomeriggio di pioggia, scegli di leggerti sdraiato sul letto dopo i compiti. Gli scrittori che passano attraverso la scuola sono appannaggio della cultura cui si appartiene e smettono di essere personali. Non c’è dubbio che si debba passare attraverso questo perché si crei una tradizione, ma nel momento in cui canonizzi uno scrittore salvandolo dall’oblio, lo ammazzi presso le nuove generazioni.

Poi ci sono stati i racconti di Kafka, per me molto più importanti dei romanzi. Kafka non si può neanche definire uno scrittore, non è uno di noi, sta altrove, è qualcosa di inimmaginabile. Ma se dovessi dirti un libro fondamentale per la mia formazione, quello è Pinocchio, che lessi da molto piccolo in edizione illustrata, traendone un’impressione indelebile e la nozione fondamentale che non ci si possa fidare di nessuno, perché tutti (compresi i tuoi amici) perseguono fini personali, diversi dal tuo, oppure, peggio, coincidenti col tuo. Amo la letteratura di movimento. Mi sono fatto l’idea che esistano due tipi fondamentali di letteratura, quella di relazione e quella di movimento. L’universo femminile è relazionale, l’orizzonte è prevalentemente sociale. L’universo maschile è prevalentemente di movimento, l’orizzonte è spaziale. Come spiega Matt Ridley in La regina rossa, dal punto di vista evolutivo le femmine del sapiens hanno sviluppato una forte sensibilità relazionale, mentre i maschi, socialmente molto più ottusi, hanno una visione marcatamente spaziale. Le prime sanno affrontare gli eventi che si verificano all’interno del recinto sociale, i secondi sono più preparati ad affrontare gli eventi esterni. È come se i due sessi si fossero divisi i compiti: alle femmine l’interno, ai maschi l’esterno.

 

C: Alice Munro è l’archetipo della scrittura relazione; i suoi racconti modulano le infinite variazione dei rapporti all’interno delle cerchie sociali, eppure anche quando la narrazione resta serrata tra le mura di un salotto, Munro ha la capacità di aprire una finestra sul mondo, restituendo così un’idea di ‘movimento’.

P: Alice Munro rappresenta un’eccezione. Ce ne sono altre. La letteratura relazionale non mi interessa particolarmente. Mi interessa la letteratura in cui è prevalentemente l’agire nello spazio fisico che provoca gli eventi. Da ragazzino giocavo con gli scavatori, non con le bambole, e questa visione mi è rimasta. Poi c’è la grande scrittura, che riconosci subito, come quella di Alice Munro che mescola sapientemente esterno e interno.

Ti faccio un esempio: Williams ha scritto due libri, Stoner e Butcher’s crossing, il primo non mi è piaciuto per niente, il secondo moltissimo. Ai miei occhi Stoner rappresenta la letteratura relazionale, mentre Butcher’s crossing è letteratura dinamica. Butcher’s crossing – è la storia di una tragica caccia al bisonte, disperata e pazzesca: persone che stabiliscono relazioni gerarchiche ed economiche tra di loro, partono, compiono un’azione e ritornano, ma non prima di aver profondamente trasformato la realtà – di solito piace molto meno dell’altro, ma per me è molto più interessante di Stoner.

 

C: Dunque la tua idea di romanzo si rifà al modello d’avventura e alle narrazioni degli esploratori come Salgari.

P: Per me ci sono i famosi ‘cinque’ della letteratura anglosassone e coloniale: Melville, Stevenson, London, Conrad e Kipling. Salgari non sono mai riuscito a leggerlo, mentre mi piaceva molto Verne. Ho letto tutti i diari di viaggio di Cook, sono costantemente affascinato dalla vicenda dell’ammutinamento del Bounty: è bellissima e totalmente, disperatamente simbolica. Ho letto molta fantascienza e mi piacciono le narrazioni di guerra di cui spesso mi restano immagini indelebili, come le cose narrate da Ambrose Bierce sulla Guerra di Secessione. Capolavoro assoluto è Il nudo e il morto di Mailer, l’unico libro che descrive la guerra da un’ottica totalmente di classe: il conflitto e l’odio sociali che si mantengono e si riproducono anche nei momenti di più intenso combattimento. Mailer ha un forte e coerente portato ideologico e Il nudo e il morto è il primo (e forse l’ultimo) romanzo seriamente marxista che ho letto. Mailer ci mostra due conflitti, di cui quello più importante ed epocale non è la Seconda guerra mondiale, ma il conflitto di classe, che è molto più profondo e ineluttabile e crudele.

 

C: L’espressione ‘portato ideologico’ oggi ha un’accezione negativa.

P: È vero, anche se siamo totalmente immersi nell’ideologia da quando ci alziamo la mattina a quando andiamo a dormire. Ma per me avere un’ideologia significa avere un punto di vista, cioè una chiave di interpretazione della realtà e della storia: se non ce l’hai riesci a raccontarle solo in modo fenomenico. Non importa qual è il punto di vista, ciò che conta è che ci sia. Se Canaletto deve dipingere una delle sue (noiose) vedute è necessario che scelga un punto di vista da cui sviluppare la messa in scena prospettica: la scelta del punto di vista determinerà l’altezza della linea dell’orizzonte e la posizione di tutti i punti di fuga sul piano quadro. Se non si costruisce il piano quadro e non si stabilisce la posizione e l’altezza del narratore rispetto agli oggetti narrati, non si riesce a realizzare un’immagine, dunque a narrare. Questo serve per la scrittura, ma soprattutto per l’immagine mentale che abbiamo del mondo. È sbagliata? Tutte le immagini sono sbagliate, anche quelle matematiche sono approssimazioni, però è necessario avere una visione del mondo, che è sempre ideologica. Senza le ideologie non avremmo niente da dirci ed è quello che sta accadendo.

 

C: Piuttosto siamo di fronte a una moltiplicazione dei centri e dei punti di vista.

P: Non sono d’accordo: siamo alla fine della molteplicità delle visioni. Sono finite le ideologie oppositive, restano vive solo quelle parzialmente o totalmente consensuali. I giovani non si accorgono nemmeno di essere tutti liberali, perché l’opposizione all’ideologia liberale non ha più voce né sostanza. Così vivono nella contraddizione, inconscia e terribile, dell’aderire ideologicamente al sistema, che li vuole alla propria mercé in una condizione eternamente precaria e fluttuante, e il disperato bisogno di solidità per costruire la propria esistenza. Dal punto di vista politico è grave che questo disagio non trovi sbocco, cioè che non riesca a farsi politica.

* Due anni fa abbiamo pubblicato la versione parziale di un’intervista di Camilla Panichi a Francesco Pecoraro. La versione integrale sarebbe dovuta uscire su una rivista cartacea di critica letteraria, ma per un insieme di ragioni ciò non è accaduto. Abbiamo dunque deciso di ripubblicare quell’intervista nella sua interezza
___________________________________
Note
[1] G. Simmel, Saggi di estetica, traduzione italiana di Massimo Cacciari e Lucio Perrucchi, Liviana Editore, Padova, 1970.

Add comment

Submit