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Merci patron!: il film che ha acceso la miccia del movimento sociale in Francia

Fred Cavermed

mercipatFabbriche che chiudono, precarietà che avanza, lavoro stabile inesistente, giovani attempati senza lavoro, disoccupazione galoppante, povertà crescente. Che scenario orribile, che disastro, che angoscia! La realtà di questo inizio di Ventunesimo secolo, e soprattutto il racconto che se ne fa, è nera ed angosciante. È difficile, in questo contesto, non solo pensare a delle alternative positive, ma anche vedere e valorizzare quelle alternative che già esistono e che sono, a volte, molto più importanti di quanto non riusciamo ad ammettere. Insomma, non riusciamo a produrre un’altra narrazione del mondo attuale, a raccontarlo ribaltando davvero le griglie di lettura della realtà.

Merci patron! (che possiamo tradurre alla lettera “Grazie, padrone!”, e non con un più moderato «principale», come proposto da Luca Acquarelli in un bell’articolo sul Lavoro culturale) è un film che permette di reinventare non tanto il futuro, ma il mondo presente, e non tanto attraverso una riflessione sullo stato delle cose, bensì con l’azione. Questa forza la ottiene anche grazie al fatto che è un film difficilmente classificabile: un documentario che non documenta quasi su niente, un film d’azione o meglio di spionaggio industriale in cui però niente è finto e la sceneggiatura non è decisa in anticipo, inchiesta con videocamera nascosta priva di intento pedagogico, film sociale in cui non c’è nessuna entità collettiva, commedia dei servi che si prendono gioco dei padroni (come notato anche da Acquarelli), film comico, satirico, in cui uno dei più grandi padroni di Francia e del mondo è sbeffeggiato, umiliato.

Quando si guarda Merci patron! si ha l’impressione di guardare una bomba a ritardamento lanciata nella società francese, nel momento in cui si sviluppa una grande mobilitazione contro la riforma del lavoro promossa dal primo ministro Manuel Valls.

Un film virale, che fa molti incassi (oltre 300 mila in due mesi) nonostante ad averlo prodotto non sia stata nessuna casa cinematografica e a distribuirlo soprattutto le sale d’essai, i circoli militanti, i cinema con una certa selezione dei film. Di certo non i multisala.

E se si va a vedere questo film, anche più di una volta, è proprio perché si tratta di un film tonificante, esilarante, che dice con ironia a noi che lo guardiamo che siamo più forti di loro (i padroni), anche in questa epoca storica in cui abbiamo la sensazione di essere soli, impotenti, atomizzati. E la nostra più grande forza è l’intelligenza di inventare storie.

La storia che si racconta in Merci patron! è quella di un cambiamento effettivo – benché minuscolo, infimo – del mondo mentre si svolge davanti alla cinepresa. È la storia di un inganno, di un ricatto e della prova di forza con la quale un gruppo di quattro o cinque persone (disoccupati, ex-operai e giornalisti militanti) usano l’astuzia per piegare proprio quell’imprenditore che, delocalizzando, ha creato sacche di disoccupazione nel Nord della Francia.

Ma andiamo per ordine e partiamo dall’inizio. Prima di tutto vediamo chi sono i protagonisti del film, poi qual è l’intrigo. E poiché la suspense del film in realtà non dipende per niente dall’esito finale, e poiché se non si racconta quel che succede davanti la cinepresa non si racconta niente, ecco a voi un bello spoiler. Nei paragrafi finali, invece, proverò a dare qualche – modesto – spunto di riflessione politico a partire dal film.

François Ruffin, regista del film, è nato ad Amiens, Picardia, in quella regione di postumi industriali e disoccupazione che si estende tra Parigi e il Belgio, una vecchia regione operaia estremamente impoverita, uno dei feudi del Front National di Marine Le Pen. È il direttore di un giornale militante che si chiama Fakir.

Ruffin usa la sua ironia sagace per colpire Bernard Arnault, secondo uomo più ricco di Francia e proprietario del grande gruppo LVMH (Louis Vuitton, Dior, Kenzo, ma anche Carrefour…). È proprio lui che ha chiuso molte delle industrie del Nord, lasciando a casa migliaia di operai. Ruffin esprime la sua visione politica con il potere dell’antifrasi: indossa una t-shirt I love Bernard, ha una tazza e altri gadget I love Bernard, ha l’adesivo I love Bernard sulla sua auto, e all’inizio del film è estremamente contento perché ha uno stendino per asciugare i panni dell’impresa di Bernard Arnault, che ha potuto comprare grazie ai dividendi della sua azione in borsa LVMH.

Eh sì, perché Ruffin è un azionista della LVMH. Non solo lui ha un’azione, ma convince anche alcuni ex-operai del gruppo (licenziati per delocalizzare) a comprarne una dal costo di 1€ per acquisire il diritto di partecipare all’assemblea generale degli azionisti LVMH e incontrare così di persona Bernard Arnault. Questo incontro è reso necessario, nell’ironia di Ruffin, per via del livore ingiustificato che questi ex-operai provano nei confronti di Arnault. La missione di Ruffin è quella di «restaurare il dialogo sociale», di dare ad Arnault la possibilità di dar prova del suo gran cuore, di smascherare una volta per tutte la cattiva fede dei sindacati e degli operai.

Lo scopo reale è ovviamente far infiltrare tutti i disoccupati delle industrie di Arnault per ribaltare il discorso dominante su Arnault e le sue imprese di lusso. Ruffin aveva già fatto irruzione in un’assemblea generale della LVMH nel 2007. Nel 2013, con il film Merci patron! prova a fare di nuovo il colpo. Ma questa volta le cose non andranno nella stessa maniera.

Ma i protagonisti del film non sono né Ruffin né Arnault, bensì una famiglia modesta che abita in Picardia: Serge e Jocelyne Klur, con loro figlio Jérémy. Marito e moglie lavoravano in una fabbrica di Poix-du-Nord, che produceva abiti per Kenzo. Quando Bernard Arnault ha chiuso la fabbrica per delocalizzare prima in Polonia, poi in Cina, i Klur sono diventati disoccupati o precari. Nel 2013, quando Ruffin propone loro di comprare un’azione LVMH, i Klur spiegano qual è la loro situazione: disoccupati ormai da quattro anni, vivono con 400€ al mese di sussidi, non mangiano, fanno Natale con una tartina di formaggio, non accendono il riscaldamento, le loro numerose ricerche di lavoro sono inutili… Il quadro è pesante, ma Ruffin, con la sua finta ingenuità un po’ grottesca e la sua t-shirt I love Bernard, non cade nella commiserazione caritatevole dei poveri, ma mette in evidenza chi è il colpevole della loro situazione: Arnault.

I Klur, comunque, non comprano un’azione LVMH, ma Ruffin propone loro di registrare un video-messaggio da mostrare ad Arnault durante l’assemblea. Messaggio nel quale Serge Klur chiede a Arnault un lavoro, per fare qualsiasi cosa: nei suoi yacht, nelle sue proprietà, avrà bisogno di personale, no?

Arnault non vedrà mai questo video (per lo meno prima dell’uscita di Merci patron!), perché non appena Ruffin proverà a prendere la parola durante l’assemblea degli azionari sarà caricato e cacciato di forza da tre o quattro gorilla della sicurezza di LVMH. Uno di questi gorilla è Monsieur P.

È a Marie Hélène Broulard che è dedicato il film. O meglio, il film è dedicato «a tutte le Marie-Hélène» che fanno quel lavoro di organizzazione politica e sindacale della classe operaia e che costituiscono il legame tra questa e le classi medio basse e medie, la piccola borghesia. È infatti lei che porta Ruffin dai Klur. Anche Marie-Hélène era un’operaia a Poix-du-Nord, prima di essere licenziata. Marie-Hélène era anche la delegata sindacale della fabbrica, con il sindacato Confédération Générale du Travail (CGT). Oggi ha trovato lavoro in un’azienda di ambulanze, ma il suo legame con i Klur resta forte.

La storia di Merci patron! è quella di una piccola truffa, di un ricatto. Fortemente indebitati, i Klur rischiano ormai di perdere anche la loro casa, ultimo riparo contro la miseria. Hanno bisogna di circa 30 mila euro subito, e di un lavoro. Ruffin ha una strategia: inviare una lettera ad Arnault in cui gli si intima di pagare 35 mila euro alla famiglia minacciandolo, in caso di rifiuto, di fare irruzione alle giornate porte aperte delle sue imprese con i disoccupati, la CGT, Fakir, e militanti vari, rovinando l’evento e l’immagine della grande marca. Sorpresa: Arnault accetta e invia dei Klur un mediatore, una specie di agente segreto dei servizi di sicurezza della LVMH per condurre la trattativa con i Klur: è Monsieur P.

È lui il miglior interprete del film. Sue le migliori battute, sua la voce grave e il tono irruento, sue le spiegazioni più chiare sulle ragioni che hanno indotto la LVMH a cedere. Non vediamo mai la faccia di Monsieur P., che è oscurata. In effetti, quando Monsieur P. arriva a casa dei Klur, il salone è pieno di telecamere e microfoni nascosti che lo filmano a sua insaputa. Monsieur P. fa diverse allusioni, tutte ironiche e grottesche, al fatto che ci potrebbero essere dei registratori nascosti, delle cimici, ma è lontano dal credere i Klur capaci di un tiro mancino del genere.

La sostanza è che LVMH paga e trova un contratto di sei mesi per Serge Klur in un supermercato Carrefour, grazie ad una raccomandazione di Arnault. Monsieur P., mediatore per LVMH, e i Klur firmano un protocollo d’intesa. A firmare il protocollo c’è anche Ruffin, che si è mascherato da Jérémy: capelli biondi, occhiali, trucco, maglione, camicia… Ruffin si siede affianco a Monsieur P. e ha paura che questi, dopo averlo buttato fuori dall’assemblea generale degli azionisti della LVMH qualche mese prima, lo riconosca, mandando all’aria tutta la strategia. Ma la metamorfosi è riuscita: Monsieur P. parla con Ruffin credendolo Jérémy e si raccomanda di tenere alla lontana quelli di Fakir, soprattutto quel pirata di Ruffin…

In effetti il protocollo d’intesa prevede che i Klur non rivelino il pagamento a nessuno, né a Fakir, né alla CGT, né ai vicini, sotto pena di dover restituire i soldi ricevuti: immaginate, se si venisse a sapere, quanta gente si metterebbe a chiedere dei soldi? Insomma, con questa clausola di discrezione, Merci patron! non avrebbe mai potuto veder la luce.

Ruffin e il resto di Fakir lanciano una serie di trappole alla LVMH che fanno sì che sia proprio il segretario generale di LVMH, Marc-Antoine Jamet (che è anche un politico del Partito Socialista (PS) e sindaco di Val-de-Reuil), a rivelare il pagamento della somma ai Klur: la clausola di discrezione non vale più.

Di fronte alle esche lanciate da Ruffin alla LVMH (finte telefonate di Ruffin a Monsieur P., finte assemblee generali della CGT con Fakir registrate con uno smartphone e inviate a Monsieur P. come nei migliori film d’azione…), lo spettatore, incredulo e bocca aperta, ride rumorosamente nella sua poltrona, applaude, si lancia in esclamazioni soddisfatte. È lontano dal rispettare il religioso silenzio del cinema.

Il film si conclude con la vittoria di Davide contro Golia, dei Klur e di Ruffin contro un Bernard Arnault umiliato, sbeffeggiato.

François Ruffin ha ‘teorizzato’, imitando Rinus Michels inventore del calcio totale, il giornalismo totale: un giornalismo che non sia soltanto cronaca dei fatti, ma azione. Insomma, un giornalismo militante che, raccontando una storia, dei fatti, cambi la realtà imponendo dei rapporti di forza favorevoli alle classi popolari. Non si tratta soltanto di un «impegno» politico, ma di una vera e propria azione. È quello che succede in Merci patron!

Questo processo è piuttosto complesso, anche da un punto di vista narrativo. Il film è infatti costruito in cinque atti più un epilogo. La maggior parte delle scene sono reali e non fittizie, rappresentano cioè delle scene di vita reale così come si sono svolte davanti alla cinepresa. Eppure la finzione non è del tutto assente dal film. Infatti alcune scene sono puramente fittive, come quelle in cui Ruffin/Jérémy riproduce il momento in cui riceve le telefonate di Monsieur P. In più, c’è una lunga serie di mises en abîme, di finzioni all’interno del film: i Klur che recitano una parte davanti a Monsieur P. ignaro delle telecamere che lo filmano, Ruffin che si traveste e fa finta di essere Jérémy, l’assemblea finta recitata con un copione e destinata a fare da esca per LVMH… Il film è la successione di piccole narrazioni destinate ad ingannare Arnault e i suoi servizi di sicurezza: è una realtà che, raccontando, agisce per ribaltare i rapporti di forza e renderli sfavorevoli al padrone.

Il film, si diceva, è dedicato a tutte le Marie-Hélène, in quanto legame tra il mondo dei Klur e la piccola borghesia. Secondo Ruffin, infatti, è proprio da un’alleanza tra i disoccupati, i precari, quelle fette di popolazione che vivono in un’estrema povertà, e la piccola borghesia e la classe media impoverita che deve e può sorgere un cambiamento rivoluzionario. E, invertendo la prospettiva, è nella divisione di queste categorie sociali che bisogna cercare le ragioni della debolezza della sinistra e della forza delle destre. Eh già, perché si dà il caso che i Klur sono degli elettori del Front National, il partito di estrema destra di Marine Le Pen. Ruffin lo dice chiaro nel primo numero di Fakir del 2016: evitiamo di infliggere ai Klur (e a tutti quelli che si trovano nella loro situazione) la doppia pena secondo la quale, oltre ad aver perso il lavoro, oltre ad esser diventati poveri, oltre aver smarrito tutti i valori in cui credevano (tutte ragioni che spiegano e motivano il voto Front National), vengono anche additati dalla società ben pensante e dalle classi medie colte perché votano per il partito del male assoluto, il FN. Insomma, non facciamo loro la lezione, sarebbe ingiusto. Piuttosto, agiamo.

Dalla LVMH non c’è stato per ora nessun commento al film. Jamet, invece, ha provato a prendere la parola durante una proiezione del film, dicendo addirittura – e senza nessun argomento – che questo film favorisce il Front National di Marine Le Pen: come potete vedere qui, il suo tentativo quantomeno maldestro non è stato ben accolto…

Alcuni militanti e sindacalisti hanno criticato il film perché questo è l’espressione di una lotta individualista: si risolve il problema di una famiglia con una piccola truffa, mentre per tutti gli altri la situazione resta drammatica. I Klur hanno i loro 35 mila euro e un lavoretto da Carrefour, mentre per gli altri niente. Non c’è nessuna lotta collettiva. Non c’è nessun vero processo di emancipazione che prende corpo, ma si aiutano i Klur ad essere reinseriti nel sistema di sfruttamento di cui erano già vittime. E, poi, non c’è nessuna critica globale nel film, non c’è una lotta per la costruzione di una società giusta e egalitaria. Ed è vero: nessuna azione collettiva è messa in scena nel film, il che fa rabbrividire chi avesse creduto, prima di andare a vedere il film, di ritrovarsi di fronte ad una pellicola pronta all’uso delle lotte progressiste. Merci patron! non è un film di questo genere. E, secondo me, è questa al sua forza.

In effetti, il film di Ruffin non è manuale di lotta, non istruisce le masse sulla dominazione di cui sono vittime e sulla maniera di emanciparsi. Ma fa qualcosa di molto più profondo. Prima di tutto perché non prende le cose dall’alto, dalla loro globalità, ma dal basso, dall’esistente: i Klur e le loro difficoltà; poi perché si agisce in questa realtà cercando obiettivi concreti; obiettivi che non sono dell’ordine della lotta politica, ma che permettono di dare vita ad una situazione, ad una circostanza (piuttosto strampalata) che si propone in realtà come metafora di una realtà molto più ampia. I Klur, Ruffin, Marie-Hélène e la loro piccola (infima) vittoria su Arnault non sono la vittoria della classe operaia sui padroni, ma sono la metafora – certo reale – di questa vittoria. E mettendo in scena questa metafora, la si fa rientrare nell’orizzonte del possibile. Il film dice qualcosa sulla maniera in cui gli operai e i disoccupati vivono nel mondo di oggi, sul modo in cui i padroni li considerano, sul modo in cui si può ribaltare il rapporto di forza. E dice queste cose non istruendo, non mostrando dei grafici, non raccontando tutto quello che è successo nei decenni scorsi, ma costruendo una storia reale che rende i personaggi figure complesse di segmenti sociali molto più vasti e le loro avventure non una traiettoria da riprodurre, ma un tracciato che apre altri solchi, altri possibili.

Non è quindi nel film stesso che bisogna cercare una caratteristica ‘collettiva’, ma nella sua ricezione. Sono la visione e la lettura collettive del film che rendono quest’ultimo una vera e propria arma politica. Il film è ‘soltanto’ un film.

Per quanto riguarda la reazione di Ruffin a queste critiche provenienti da sinistra, egli spiega in alcune interviste che in questo caso il collettivo non esiste, poiché la fabbrica ha chiuso e gli ex-lavoratori sono ormai atomizzati; che gli piacerebbe che si sviluppasse una lotta collettiva, ma che per il momento le cose non stanno così. L’ironia della sorte vuole che, proprio mentre il film circolava (e circola ancora) nelle sale, il governo francese ha pubblicato il testo della riforma del codice del lavoro, dando vita ad un fortissimo movimento di opposizione, di cui Merci patron! è uno dei simboli, facendosi interprete del peso che il popolo può avere sulle scelte che riguardano la politica e l’economia, della forza che il popolo può avere di fronte a chi detiene il potere.

Ruffin e la redazione di Fakir ha lanciato un’iniziativa per il 31 marzo scorso, grande giorno di sciopero generale e di manifestazioni (1,2 milioni di persone in strada) contro la riforma del lavoro. Si tratta della #NuitDebout, cioè ‘notte in piedi’: dopo la manifestazione, invece di tornare a casa, i parigini si sono ritrovati in Place de la République per occuparla e svolgere un’assemblea generale permanente durante tutta la notte. La piazza è tuttora occupata, con sempre più persone e il movimento si è diffuso in tutta la Francia: delle #NuitDebout si organizzano anche nelle città di meno di 100 mila abitanti.

La forza del film di Ruffin è soprattutto nel personaggio involontario di Monsieur P. Le sue spiegazioni sui modi di funzionamento del potere sono lucidissime e sembrano quasi aver contribuito ad accendere la miccia della rivolta popolare. Quando spiega le ragioni che hanno indotto Bernard Arnault a cedere al ricatto dei Klur, afferma che l’imprenditore non vuole macchiare la propria immagine, poiché il successo delle sue imprese e delle sue marche di lusso è fondato sul credito che la gente dà loro. Il lusso è immagine. Se la gente compra i prodotti di Arnault è perché crede in quei prodotti. Se la credibilità e l’immagine delle marche e di Arnault stesso dovessero venir meno, anche il resto potrebbe crollare. E l’immagine è un bene simbolico estremamente fragile. Per questo, il peggior nemico di Arnault sono, spiega Monsieur P., quelle minoranze che agiscono, come Fakir, come i sindacalisti che militano sul territorio: «c’est les minorités agissantes qui font tout!» (sono le minoranze attive che fanno tutto!). Una frase che forse ha contribuito a ridare fiducia a molti militanti, che si sono riscoperti socialmente forti e, in fin dei conti, maggioranza…

* * *

Fred Cavermed è uno pseudonimo nato a fine anni 2000. Collabora con Quattrocentoquattro, soprattutto nell’ambito del focus Solo Andata. Il suo laboratorio personale s’intitola Kitzsch Kebab. Passa il suo tempo a capire il mondo e a cercare di cambiarlo. Colui che si serve di questo pseudonimo, è nato a Campobasso nel 1988, ha una formazione letteraria e vive in Francia, dove insegna italiano nelle scuole medie e superiori.

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