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lavoro culturale

Lo sguardo di Ippolita tra le anime elettriche della rete

Ippolita

Pubblichiamo un estratto da “Anime elettriche. Riti e miti sociali” di Ippolita, edito da Jaca Book (marzo 2016), un testo che riflette sulle contraddizioni prodotte dalla digitalizzazione delle nostre esistenze in rete

Schermata 2016 05 19 alle 09.50.23 768x347Corpi, macchine e corporation 

I social sono un campo da gioco sterminato, una straordinaria palestra di pornografia emotiva per la scienza della comunicazione e il marketing, soprattutto perché amplificano le caratteristiche virali dei messaggi, la loro carica contagiosa. La velocità è tutto: se non agganci l’utente in una manciata di secondi, non sei efficace. In prima istanza, esistono due grandi agglomerati di corpi. Da una parte, la grande massa degli utenti, con i loro corpi organici; dall’altra, il corpus tecnologico sul quale gli organismi proiettano il loro alter ego digitale: il retroterra inorganico, di silicio e codici. Le macchine in rete organizzano l’espressione dei corpi organici, ovvero letteralmente si nutrono di essi, della loro biodiversità. Il corpus di conoscenze necessarie all’interazione fra organico e inorganico costituisce un terzo polo, che però può essere riassorbito negli altri due[1]. Ci interessa qui distinguere fra le diverse forme di oscenità interiore degli utenti e l’oscenità delle macchine, il loro essere cose gettate nel mondo, ossatura esposta, sistema nervoso estroflesso, struttura tecnico-culturale.

Esaminiamo da vicino l’opposizione corpi analogicicorpi digitali. Proviamo a seguire gli attori coinvolti. Osserviamo cosa accade quando mandiamo una mail, inviamo un messaggio, postiamo un contenuto.

Un corpo organico (umano) interagisce con un corpo elettronico (apparecchio digitale). Quest’ultimo a sua volta interagisce con altri corpi elettronici, ovvero tutti i dispositivi che consentono l’instaurarsi dell’interazione (onde, ricevitori, cavi, computer, server, e così via), ad esempio con un altro corpo organico, che legge la mail, il messaggio, il post. Estremamente complesso, straordinariamente rapido, ma nulla di molto diverso da quello che accadeva anche con un telefono analogico, in fondo. Non si trova qui la specificità dell’oscena trasparenza dei social. Spostiamo lo sguardo. L’analisi dell’interazione potrebbe passare dal livello degli organi analogici o digitali coinvolti (occhi per leggere, dita per scrivere; hard disk per immagazzinare informazioni) a livelli più minuti. Si potrebbe scendere fino al livello molecolare, chimico, atomico e subatomico, in un crescendo di precisione. Osservare il passaggio della corrente elettrica nei chip di silicio non ci svela nulla più di quello che già sapevamo, e anzi ci lascia con una sensazione di déjà vu, un’insoddisfazione latente. Possiamo vedere il pulsare eccitato delle terre rare semiconduttrici che trasmettono freneticamente i bit, le parti di cui si compongono le rappresentazioni a schermo; ma questo non basta. Più siamo dentro, più qualcosa sfugge. Proprio come davanti al dettaglio esasperatamente realistico della pornografia patriarcale.

L’occhio non basta, l’occhio non comprende alcuna verità ultima. La verità come corrispondenza della conoscenza alla cosa osservata è una chimera, come sostiene elegantemente Nietzsche nel breve Verità e menzogna in senso extramorale (Friedrich Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale, Adelphi, Milano 2015). Il filosofo del divenire, appassionato dell’über, di ciò che sta oltre, direbbe che nelle interazioni fra corpi analogici e digitali si verificano trasferimenti, anzi, trasposizioni arbitrarie (übertragungen) tra un sistema e l’altro; diremmo meglio ancora che si tratta di traduzioni fra un sistema e l’altro. Nell’esempio di Nietzsche, che non disponeva di computer né di altri apparecchi elettronici per mediare la comunicazione, è quello che accade fra corpi organici dello stesso tipo, ad esempio quando parliamo con un’altra persona. Ma succede anche fra corpi digitali, quando due macchine interagiscono con i loro specifici protocolli. Ogni osservazione è situata, cioè posizionata nel tempo e nello spazio, relativa a un sistema di riferimento, agli strumenti di misurazione utilizzati, all’ideologia e ai valori dell’osservatore e così via. L’osservazione può essere oggettivata (reificata, cosificata) in una descrizione, come un testo. Non si pensi però che sia possibile affinare la descrizione al punto che nulla sfugga più, che tutto sia sotto controllo.

Nessuna descrizione, per quanto dettagliata e multidisciplinare, per quanto approfondita e multimediale, può mai rendere conto perfettamente della realtà osservata. La realtà eccede sempre: mai confondere la mappa con il territorio. Ci dev’essere una grande parte di materia oscura, completamente obliterata da questa visione ravvicinata. Siamo troppo dentro, troppo vicino, come accade nelle inquadrature più semplici della pornografia commerciale, esistono solo organi in movimento meccanico, non ci sono attori, non c’è storia, non c’è un quadro complessivo di senso. Proviamo ad allontanarci, ad ampliare lo sguardo, a uscire dalla nostra condizione di corpi analogici coinvolti nell’interazione. Dove si manifestano i post e i messaggi? In quale luogo comune e condiviso avviene l’epifania? Non è solo sui nostri schermi. Le catene di traduzioni, le concatenazioni di trasposizioni arbitrarie, sono rese possibili e anzi determinate da un terzo conglomerato di corpi che organizza l’esperienza e l’interazione, utilizzando a proprio piacimento gli altri corpi.

Sono le Corporation, le corporazioni, che sono aziende incoporated (incorporate) come denota l’abbreviazione Inc. (Google, Inc.; Facebook, Inc.). Senza entrare in sottigliezze legislative che differenziano i sistemi di diritto continentale (civil law) da quelli di diritto consuetudinario (common law), le Corporation hanno un corpo in primo luogo in senso giuridico, sono soggette all’habeas corpus in quanto persone giuridiche. Costituiscono delle body corporation, dei corpi corporativi, ma l’espressione non suona ridondante. Infatti in inglese corporation (corporazione) è molto lontano da body (corpo), e suona ben più vicino a corpse (cadavere). In generale, stare dentro una lingua o un sistema impedisce di considerare il sistema nella sua convenzionalità e induce ad accettarlo come ovvietà. De-solidarizzarci da noi stessi e guardarci agire può essere un modo per evitare di conformarci all’oscenità. Queste megamacchine corporative non solo mediano l’interazione fra le altre due specie di corpi, ma tendono a espandersi, a incorporarli letteralmente, attraverso meccanismi di privatizzazione. I palloni aerostatici di proprietà di Facebook per portare connettività in aree remote sono un esempio di incorporazione dei corpi digitali; la necessità da parte degli utenti di acconsentire a Termini di Servizio che di fatto li rendono succubi delle piattaforme corporative è un esempio di incorporazione dei corpi analogici organici.

L’instaurarsi di procedure standard che plasmano le relazioni fra i vari tipi di corpi è però l’aspetto più straordinario delle megamacchine corporative. Risucchiano nel loro vortice abitudini antiche, le rimodellano e ce le restituiscono. Così adesso prima di incontrare qualcuno di sconosciuto, andiamo a googlare il suo nome. Le autorità scandagliano i profili social per scoprire chi sono davvero i loro cittadini. I datori di lavoro cercano la verità sui dipendenti interrogando i corpi corporativi prima di assumerli, così come fanno le assicurazioni prima di stipulare le polizze. I corpi corporativi sono i garanti della verità dei nostri corpi analogici, e noi nutriamo la loro ipertrofia utilizzando i corpi digitali.

 

Il lato osceno dell’esperienza social

Il livello base dell’esperienza social è costituito dal pullulare di memi, lolcat, barzellette, ricette, gossip, sport, frammisti a foto in bikini o foto in cui i capelli sembrano più folti. Il desiderio di cattivo gusto, l’espressione greve e sarcastica, il bisogno di indiscrezione e lo sfottò, possono degenerare in gesti di bullismo. Per questo si dice spesso ed erroneamente che «i social sono lo specchio della realtà». Come se la realtà fosse una sola, e colma da sempre di fesserie. Si tratta invece di fenomeni sinergici, di oscenità complementari, la cui interazione genera la società della trasparenza, ovvero della prestazione.

Il segmento più elementare dell’oscenità sta nella mancanza di riflessione, non tanto sul mezzo, quanto sull’inconsapevolezza di alimentare, nostro malgrado, la domanda di oscenità:

ciò significa che vi è quasi un istinto e una necessità insopprimibile a inseguire, scovare e guardare in modo perverso e indiscreto l’animo altrui. […]. Questa nuova consuetudine deve portare ad esibire e spettacolarizzare la propria intimità […] per raggiungere il massimo effetto di caricatura. Si può arrivare così, radicalizzando un’idea di Perniola, all’estasi dell’indifferenza (G. Zingari, Oscenità interiori, Le Nubi, 2010, p. 40).

La psiche attiva i suoi meccanismi di auto-difesa. Nelle giornate più buie degli attacchi israeliani sulla striscia di Gaza era quasi impossibile rimanere collegati ai social. Le immagini di corpi martoriati e case distrutte si alternano alle grida di dolore e alle testimonianze più atroci. È il dilagare della pornografia emotiva: foto di bambini trucidati postate da cittadini coscienziosi e attivi vengono accolte da salve accorate di «mi piace». La democrazia del «mi piace» non conosce la negatività (è positiva e basta, come dice han, anche nel senso che pone la propria pienezza, che ha orrore del vuoto), né tanto meno il pudore del silenzio, la dignità della sofferenza. Anche se si aggiungono altre faccine per altre emozioni standard, sempre di riempire il vuoto si tratta.

Non è stata la prima volta, e non sarà l’ultima, anzi possiamo scommettere che la pratica di illuminare con le luci della ribalta l’orrore quotidiano, come se potesse riscattarlo mettendolo in scena, è solo agli inizi. L’oscenità di questa trasparenza informativa da parte di chi la espone risiede nella mancanza di contesto, di racconto, di cura. Alberga nel suo porsi come risposta a buon mercato alla domanda di oscenità. A lungo andare, il riflesso automatico nei confronti del pornografico scava una distanza emotiva, un’indifferenza necessaria anche per continuare a condividere le immagini senza curarsi di ciò che alimentano e perpetrano. L’alienazione è la stessa del tornitore Gian Maria Volonté ne La classe operaia va in paradiso di Elio Petri: «come faccio» diceva, «penso al culo… un pezzo, un culo; un pezzo, un culo…», sordida ripetizione in attesa del collasso.

Ma la meschinità interiore non si limita alla classe operaia (o al suo sedicente nipote, il cognitariato). Vi sono nicchie più o meno estese di intellettuali, politici, giornalisti che utilizzano i network commerciali. Ne sono dipendenti per la loro attività. A loro andrebbe il premio per l’osceno retorico: parlare al posto di fare. Si crede che pronunciando le parole sante, giustizia, fiducia, riconciliazione o bellezza, si possa essere dispensati dal dare a esse una realizzazione concreta (Zinagali, Oscenità interiori, cit., p. 12).

Due tipizzazioni su tutte: il tecno-entusiasta, di cui abbiamo già visto molte declinazioni , e il critico, quest’ultimo forse ancora più interessante poiché: «a questa esistenza l’oscenità di cui parliamo appartiene come un fuori di sé dentro se stessi» (Zinagali, Oscenità interiori, cit., p. 14). I primi, entusiasti, son convinti che basti togliere la cappa del- la censura per veder sorgere la democrazia. La libertà diventa una conseguenza dell’uso della tecnologia adeguata e l’informazione libera l’ostia benedetta della buona novella democratica. I secondi son velati di malinconia. uscire dai social commerciali di massa, si dicono e ripetono, sarebbe come abdicare alla causa del confronto pubblico, per quanto siano consapevoli che si tratti in realtà di uno spazio privato e commerciale. L’ipocrisia dunque è quella di utilizzare una struttura dispotica, pur sapendo che nuocerà a se stessi e agli altri, semplicemente perché le altre possibilità richiedono maggiore fatica: «trattatela come ‘na reggina!» grida Alberto sordi puntando il dito (I nuovi mostri, Mario Monicelli, 1977), mentre abbandona sua madre, anziana ma autosufficiente, in un ospizio dove è noto che gli utenti sono maltrattati dal personale.

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Note
[1] I saperi sono necessariamente incarnati in corpi analogici o digitali, in un continuo interscambio tra organico e inorganico. Il saper-fare è incarnato nei corpi degli individui dotati di una particolare competenza. Anche i saperi cristallizzati in oggetti (testi, audio, video) appartengono al corpus conoscitivo, ma oltre a questo sono corpi più o meno organici, analogici o digitali. Una pergamena antica è un corpo organico, e analogico; la stessa classificazione si può effettuare per un vocabolario, un manuale di C o di qualsiasi altro linguaggio informatico.

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