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prismo

Fatti non foste, ma solo interpretazioni

di Flavio Pintarelli

La crisi della verità nelle società occidentali è ormai conclamata: ma è possibile ripensare la società a partire da queste basi?

pinocchiettiQual è il filo conduttore che lega tra loro Brexit, Donald Trump e i 35 euro che migranti e rifugiati riceverebbero ogni giorno dal governo italiano? La risposta sta in un’espressione inglese di due parole: post truth. Un’idea, quella che la nostra società stia attraversando un’epoca di “postverità”, elaborata per la prima volta nel 2004 dallo scrittore e saggista americano Ralph Keyes in un libro intitolato The Post-Truth Era: Dishonesty and Deception in Contemporary Life. Ma di che cosa parliamo, precisamente, quando parliamo di postverità?

Dire che la postverità sia semplicemente una menzogna è riduttivo, anche perché la bugia è sempre esistita e ha da sempre fatto parte dell’armamentario retorico dei politici. Semmai, in questo caso siamo di fronte a qualcosa di diverso: perché la postverità non è una semplice falsificazione della realtà, bensì un ordine del discorso che si appella all’emotività per superare i fatti e dare così consistenza a una credenza. Esempio: affermare che i migranti accolti nel nostro paese “ricevono” 35 euro al giorno, tecnicamente non è una menzogna; piuttosto, è un’affermazione che ignora deliberatamente che quella cifra rappresenta il costo medio giornaliero pro capite speso per la gestione di una persona immigrata nel nostro paese. Oltrepassare questo particolare, permette quindi di costruire una narrativa in cui gli italiani vengono rappresentati come vittime di un’ingiustizia, che viene sfruttata per portare avanti una precisa agenda politica.

L’uso politico della postverità sancisce così un predominio della soggettività sul dato oggettivo. Il suo affermarsi come uno degli ordini del discorso contemporaneo – forse l’ordine del discorso per eccellenza dell’epoca che stiamo vivendo – apre a un ulteriore oltrepassamento; quello dei fatti, appunto. All’epoca della postverità fa insomma da corollario una società post-fattuale, in cui le tradizionali istituzioni deputate all’accertamento della verità perdono progressivamente ogni autorità e sono costrette a rinegoziarla su un piano che appare oggi completamente mutato.

Rispondendo “sono felice di non avere nessuna di queste organizzazioni dalla mia parte, perché penso che la gente di questo paese ne abbia abbastanza degli esperti” a un giornalista che lo sfidava a nominare una singola istituzione economica indipendente a favore dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea, il Brexiter Michael Gove ha forse fornito la certificazione più cristallina di questo stato di cose. Nel suo caso il giudizio degli esperti, coloro a cui la società ha delegato il compito di aiutarla a stabilire cosa è vero e cosa non lo è, cessa di essere così la pietra angolare sulla quale vengono prese le decisioni, per diventare un’opzione disponibile tra tutte le altre, negoziabile anche con quelle opinioni che non si basano su un metodo di valutazione condiviso (o che addirittura lo rifiutano). Ma in che modo si è prodotto questo oltrepassamento dei fatti, nonché della nozione di “verità” basata su di essi?

 

Dal volere divino alla società dei dati: breve storia del giudizio

Reso celebre da una battuta pronunciata due volte in sei stagioni di Game of Thrones da Tyrion Lannister, il processo per combattimento, così come quello per calvario, è un metodo di accertamento della verità basato sul giudizio divino. Ovvero un retaggio atavico per cui la verità discende sulla terra per volere di Dio. Perciò se sei abbastanza resistente, cazzuto o ricco hai sempre la possibilità di far valere il tuo punto di vista sugli altri; non importa che tu sia colpevole o innocente: se vinci il combattimento o resisti alla tortura, il volere di Dio è con te e certifica che la verità è dalla tua parte.

La pubblicazione della Magna Carta e la conseguente abolizione del processo per calvario misero fine a questo sistema di giudizio nel 1215 d.C. Il principio per cui un uomo non poteva essere imprigionato, arrestato o giudicato se non in base al giudizio dei suoi pari o alle leggi del paese introdusse quindi un nuovo genere di processo: quello condotto da una giuria. Fu grazie a questo cambiamento che nacque una vera e propria “cultura del fatto”. Ovvero l’idea che solo quanto poteva essere osservato e testimoniato dovesse costituire la base della verità, nonché l’unica forma di prova ammissibile non soltanto in tribunale ma in ogni ambito in cui a essere in discussione fosse la verità di qualcosa.

La nozione di verità basata su fatti osservabili e testimoniabili ha caratterizzato la nostra società da allora più o meno fino alla metà del ventesimo secolo, quando il postmodernismo da una parte e il fondamentalismo dall’altra hanno cominciato a metterla in discussione. Il primo lo ha fatto diciamo così “da sinistra”, decostruendo i rapporti di potere che soggiacevano all’idea di verità per mostrare come questa fosse una nozione culturalmente costruita da cui derivavano una serie di conseguenze in termini di dominio, sfruttamento e normalizzazione dei rapporti e delle forme di vita. Il secondo lo ha fatto “da destra”, reintroducendo nel concetto di verità la variabile divina, all’esterno della quale non si dà alcuna verità.

Alla base di questo indebolimento c’è anche e soprattutto la progressiva sostituzione dei fatti coi dati, ovvero la sostituzione dei fenomeni osservabili con quelli quantificabili.

Se le origini del superamento dei fatti come base per la verità vanno ricercate in queste due correnti di pensiero, l’evento scatenante che apre a una società post-fattuale è tuttavia l’avvenuta transizione digitale della nostra cultura. Come nota Katharine Viner in un saggio pubblicato sul Guardian lo scorso luglio, la tecnologia ha disintermediato la verità. Ovverosia l’ha fatta deragliare dai binari in cui eravamo abituati a collocarla, per farle assumere una fisionomia del tutto nuova e, forse, oggi non ancora chiaramente definita. L’avvento di internet e delle tecnologie digitali ha infatti avuto come conseguenza un aumento esponenziale della quantità di informazione che produciamo e a cui siamo esposti. Non soltanto per la facilità e l’economicità con cui abbiamo accesso agli strumenti di produzione e distribuzione di informazione (blog e social network su tutti), ma anche perché il semplice collegarci a internet da un pc o da uno smartphone significa trasformare noi stessi in produttori di (meta)dati.

L’indebolimento dell’autorevolezza dei tradizionali istituti (giornali, università, centri di ricerca) a cui era delegato il compito di analizzare i fatti, e stabilire in base a essi la verità, è perciò da una parte conseguenza dell’aumento del numero di possibili fonti di informazione a cui attingere, e della ridefinizione della gerarchia del sapere che la rete ha determinato, favorendo l’orizzontalità di un rapporto basato sul numero di legami tra una fonte e le altre (l’ecosistema dei link), piuttosto che la verticalità di un rapporto basato sulla mutua autovalutazione di una fonte sull’altra, all’interno di un gruppo chiuso (la pratica della peer review).

Dall’altra parte, alla base di questo indebolimento c’è anche e soprattutto la progressiva sostituzione dei fatti coi dati, ovvero la sostituzione dei fenomeni osservabili con quelli quantificabili. Un esempio ce lo fornisce il concetto di Signals Intelligence, ovvero il controspionaggio basato sull’analisi di segnali elettromagnetici: come appare dalla lettura dei Drone Papers, nello scenario della guerra al terrorismo molte delle decisioni sulle esecuzioni a distanza portate a termine dalle agenzie di intelligence americane attraverso l’uso di droni vengono prese esclusivamente sulla base dell’analisi di dati digitali. L’accensione di un determinato telefono satellitare in una certa zona e a un’ora definita, sono segnali considerati sufficienti per far scattare un’operazione. Il tutto senza dover disporre di alcuna conferma o testimonianza diretta dell’attività in cui il bersaglio è impegnato al momento in cui si producono le condizioni per l’inizio dell’attacco.

Com’è facile sospettare (e come emerge dai leak pubblicati da The Intercept) questa pratica finisce per ridursi spesso e volentieri nel semplice sparare alla cieca, dimostrandosi di gran lunga più dannosa che efficace. Eppure l’idea che sia possibile sostituire all’accertamento della verità tramite fatti osservabili e testimoniabili un accertamento della verità basato sulla raccolta e l’analisi dei dati digitali, non risulta per nulla scalfita dall’inefficacia di strategie del genere. E questo accade proprio perché la nostra società è in piena transizione verso un modello in cui saranno i dati a rappresentare la base del nostro giudizio e delle nostre pratiche di accertamento della verità: una società post-fattuale, appunto.

 

Ciò a cui credi dà forma alla tua realtà

Ma in una simile società, in che modo potremo accedere ai dati e, di conseguenza, come potremo accedere alla verità? Secondo la celebre tesi di Lev Manocivh, ci sono due modi per accedere all’esperienza tramite i linguaggi digitali: lo spazio virtuale 3D da una parte, e il database informatico dall’altra.

Seppure esistano forme pure di queste due modalità di accesso digitale all’esperienza, la maggior parte del tempo che trascorriamo connessi a un dispositivo digitale lo facciamo attraverso interfacce che le ibridano. Si tratta prevalentemente dei social network e dei motori di ricerca, ovvero di spazi virtuali al cui interno possiamo compiere una serie di operazioni sui dati presenti nei loro database. In questo senso, è quindi cruciale capire che forma di accesso all’esperienza e al mondo configurano per noi i social network.

Facebook, Twitter e gli altri sono in primo luogo uno spazio entro cui definiamo la nostra identità. La scelta di un avatar, la compilazione di una scheda con le nostre informazioni e la pubblicazione di contenuti all’interno della piattaforma, sono tutti atti e momenti che servono a costruire la nostra identità dentro quello specifico spazio. Tuttavia, diversamente da quanto accadeva un tempo, oggi le piattaforme di social networking tendono proprio a far coincidere la nostra identità virtuale con quella reale. È la diretta conseguenza del modello di business prevalente per le piattaforme: un modello che si basa sulla vendita di spazi pubblicitari a inserzionisti interessati a poter disporre di raffinati strumenti di targeting per le loro campagne di comunicazione. Perciò, più l’identità virtuale degli utenti coincide con la loro identità reale, e più questi dati saranno attendibili e dunque di valore per gli inserzionisti interessati ad acquistarli. 

Esiste un mondo di contenuti e informazioni potenzialmente differente per ogni singolo utente di ogni singola piattaforma. Questa continua e pervasiva personalizzazione delle esperienze tende a isolare gli utenti, impermeabilizzandoli nelle loro credenze.

Ovviamente la questione non si esaurisce qui. Perché più informazioni sull’utente la piattaforma ha a disposizione, e più questa può migliorare l’esperienza d’utilizzo, portando quindi a una fidelizzazione dell’utente. La raccolta e l’analisi dei dati è infatti alla base della personalizzazione delle nostre esperienze all’interno degli spazi digitali: processati da potenti algoritmi, questi dati vengono elaborati per fornirci contenuti basati sulle nostre precedenti esperienze di navigazione e quindi ritenuti potenzialmente “interessanti”. Di fatto, esiste un mondo di contenuti e informazioni potenzialmente differente per ogni singolo utente di ogni singola piattaforma. Questa continua e pervasiva personalizzazione delle esperienze tende a isolare gli utenti, impermeabilizzandoli nelle loro credenze e favorendo la creazione di reti e cluster di utenti estremamente polarizzati intorno a singole idee, contenuti, fonti di informazione.

Non bisogna però credere che noi utenti assumiamo una postura passiva di fronte a questa situazione. Le interfacce con cui accediamo alla rete sono infatti disegnate per garantirci un certo grado di interattività attraverso quelle funzioni dette call to action. Di conseguenza le piattaforme sono pensate per permetterci di agire e influire sull’esperienza del mondo che queste apparecchiano per noi.

Il carattere di queste interazioni è, prevalentemente, imperativo: “pubblica”, “retwitta”, “condividi”, “posta”, non sono – come potrebbe sembrare – delle semplici possibilità, ma un orizzonte chiuso di azioni che possiamo scegliere di eseguire o meno, ma a cui di fatto non possiamo sottrarci.

Il realismo è la soluzione?

L’esito del referendum sull’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea ha mostrato quali siano i rischi che si corrono vivendo in una società post-fattuale e agendo in un’era di postverità. La mancata assunzione di responsabilità da parte dei leader sostenitori della Brexit ha sottolineato in modo doloroso quanto una politica basata esclusivamente sulle emozioni possa nuocere al processo democratico di un paese. Ma come possiamo affrontare questa transizione da una società che per secoli ha basato sui fatti l’accertamento della verità, a una che sta sostituendo i fatti coi dati?

La ricerca di una soluzione tecnologica, come quella che Facebook rincorre da anni, per limitare la diffusione di bufale e notizie false in rete non sembra aver portato i risultati sperati. Facebook non è riuscita a limitare l’incidenza delle notizie fake all’interno del proprio network né appoggiandosi agli utenti attraverso meccanismi di segnalazione, né affidandosi in toto agli algoritmi. Giova inoltre ricordare che la piattaforma continua a non volersi considerare una media company, dovendosi così confrontare con gli standard deontologici che questa definizione porta con sé.

Diventa però a questo punto urgente cominciare a ripensare radicalmente il concetto di verità in base alla transizione tra il mondo dei fatti e quello dei dati che stiamo vivendo. Se non altro, un tale cambiamento di paradigma ci aiuterebbe a ricostruire la nozione di “realtà” sulla base delle trasformazioni che stanno interessando la nostra società.

Già qualche anno fa, il filosofo Maurizio Ferraris ha proposto un ormai celebre Manifesto del New Realism che a un primo sguardo parrebbe proprio andare in questa direzione. Il dibattito sul “nuovo realismo” che ne è seguito di certo è seducente, eppure continua a non sembrarmi la prospettiva più corretta. Perché la proposta di Ferraris non pare tenere conto dello spostamento di paradigma che abbiamo provato ad analizzare nei paragrafi precedenti: il realismo, da solo, non basta a ricostruire il nostro rapporto con la realtà, perché esso non è altro che una configurazione discorsiva culturalmente influenzata. Arrivati a questo punto, a essere in gioco qui è semmai la possibilità di un giudizio di verità basato sull’analisi dei dati, attorno al quale ricostruire un sistema di istituzioni che permetta di stabilire cosa è vero e cosa non lo è. La sfida è farlo prima che venga presa una qualche decisione irreparabile, senza che ci sia nessuno disposto ad assumersene la responsabilità.

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