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malacoda

Brecht. Arte e politica

di Mauro Ponzi

Mettere in scena in modo “dilettevole” – senza prediche e moralismi – per provocare una reazione nel pubblico

brecht4 1200x667Brecht ha ereditato uno dei principi fondanti dell’illuminismo tedesco: l’arte deve educare il fruitore, deve migliorare l’umanità (nel suo caso deve far affiorare nella coscienza dello spettatore la consapevolezza della situazione politico-sociale in cui vive)…

Assistiamo anche in Italia a un rinnovato interesse per l’opera di Brecht. I giovani leggono i suoi libri, gruppi teatrali professionisti e dilettanti mettono in scena le sue opere. Forse la crisi economica mondiale ha riportato in primo piano la politica e l’attenzione al sociale. Ma il personaggio Brecht è molto complesso e articolato. In realtà la sua fama non è mai venuta meno. Basta andare sul sito del Brecht-Archiv di Berlino o seguire il programma del Berliner Ensemble per accorgersi la risonanza mondiale della sua opera e il seguito di pubblico: a Berlino è molto difficile trovare un biglietto per le messe in scena dei suoi drammi, c’è sempre il tutto esaurito. Certo, la prospettiva con cui ci si accosta a questo autore oggi è un po’ diversa da quella del secolo scorso. Il Brecht stimolante, interessante, ancora quasi tutto da scoprire, non è quello del teatro epico, bensì il giovane Brecht, carico di vitalismo e interessato a forme di sperimentalismo provocatorie, legato alle avanguardie di Monaco e di Berlino, il Brecht poeta che ha saputo coniugare il rapporto con la tradizione alle malinconie soggettive senza mai perdere di vista la questione sociale e soprattutto senza mai dimenticare l’obiettivo primario della sua produzione artistica, ossia quello di far riflettere lo spettatore o il lettore sulla situazione politico-sociale, sulla situazione della comunicazione artistica e non, sulla possibilità di cambiare l’esistente.

Pochi critici letterari – tranne alcuni autori di lingua inglese – si sono soffermati sul fatto che Brecht ha mosso i primi passi come autore, attore, cantante e suonatore di chitarra nei cabaret di Monaco, a fianco di Karl Valentin che è rimasto per tutta la sua vita un modello di recitazione e di provocazione artistica. La caratteristica peculiare dell’opera di Brecht – di tutta la sua opera, quella teatrale e quella poetica – è stata quella di coniugare sperimentalismo, provocazione, impegno politico e divertimento. Tutti questi aspetti non sono visti in contraddizione l’uno con l’altro, ma strettamente connessi tra loro. Anche il Brecht maturo, il Brecht del teatro epico, non ha mai abbandonato l’ironia, il paradosso, la sperimentazione dei linguaggi scenici e soprattutto la convinzione che la funzione didattica del teatro non dovesse essere espressa in termini “culinari”, ma non per questo dovesse essere noiosa. Nel suo fecondo rapporto con la tradizione, Brecht ha ereditato uno dei principi fondanti dell’illuminismo tedesco: l’arte deve educare il fruitore, deve migliorare l’umanità (nel suo caso deve far affiorare nella coscienza dello spettatore la consapevolezza della situazione politico-sociale in cui vive), ma lo deve fare in modo “dilettevole”: niente moralismi, niente prediche, ma mettere in scena una farsa o una tragedia che fa ridere, e riflettere, che stupisce, ma provoca una reazione nel pubblico.

La caratteristica – che è anche la forza – del suo teatro, e della sua opera letteraria in generale, sta tutta nella convinzione che non bisogna accettare la realtà così com’è: la realtà può e deve essere cambiata, radicalmente modificata dall’azione dell’uomo che si costituisce in un’organizzazione politica. Allora, negli anni Venti e Trenta del Novecento, questa azione di radicale cambiamento si chiamava rivoluzione. L’opera di Brecht ha, infatti, una forte valenza politica. Nel secolo scorso, quando gli studi su Marx e sul marxismo erano molto diffusi, la maggior parte dei critici teatrali e dei critici letterari era perfettamente in grado di distinguere le varie correnti politiche all’interno del marxismo e di individuare le fonti delle opere di Brecht. Oggi di tutto questo si sono perse le tracce e persino emeriti professori tedeschi di storia del teatro considerano equivalenti termini quali “marxismo”, “comunismo” e “stalinismo” e giudicano l’opera di Brecht alla luce di questa equivalenza.

Nei drammi didattici di Brecht troviamo una singolare combinazione tra politicità e sperimentazione che può essere decifrata solo alla luce di una dialettica del paradosso. Allora bisogna porsi alcune domande, a cui gli studi brechtiani da decenni hanno tentato di fornire una risposta. Innanzitutto chi apprende nei Lehrstücke? A chi è indirizzata la “didattica” insita nei drammi? In primo luogo, ovviamente, al pubblico. Gli spettatori “imparano” a guardare il mondo con altri occhi, scoprono dove si annidano le contraddizioni e le aporie della società contemporanea. Ma la “didattica” è indirizzata anche, se non soprattutto, agli attori, che sperimentano nuove forme di recitazione. Ed è proprio in questo senso che il teatro didattico è stato utilizzato dopo Brecht. Infine anche per l’autore e regista la stesura di drammi didattici è stato un campo di apprendimento su come si possano esprimere, attraverso il paradosso e la sperimentazione, le aporie politiche che ci presenta la società contemporanea. Giacché i drammi didattici sono vicini al teatro dell’assurdo, vanno a cogliere come momenti esemplari quelle situazioni-limite, generate dalla militanza politica, con toni da teatro agit-prop, che mettono in crisi l’ordine costituito, anche l’ordine dei valori politici a cui si fa riferimento. Sono drammi, insomma, in cui si mette in scena la contraddizione. E, come tali, questi drammi mettono in crisi anche “l’ordine di pensiero”, per dirla alla Foucault, che si rifà alla dialettica hegeliana. La realtà sociale del mondo contemporaneo mette anche i “rivoluzionari”, coloro che si rifanno a posizioni marxiste, di fronte a contraddizioni irrisolvibili, o risolvibili solo attraverso scelte paradossali. Per questo è necessario analizzare cosa intendesse Brecht per politica, comunismo, marxismo, partito, militanza, appartenenza. È tutta una terminologia molto in uso negli anni Trenta, con significati molto specifici. Però se si attribuisce a Brecht il significato usuale di questi termini si rischia di non capire il senso in cui egli usa i termini “marxismo”, “comunismo”, “partito”, “rivoluzione”, ecc. e di conseguenza di fraintendere completamente il senso dei drammi didattici.

Il comunismo reale tendeva a fornire un’interpretazione “ortodossa” e “unica” del pensiero di Marx che coincideva meccanicamente con la politica del partito comunista dell’Unione Sovietica. In nome della “sistematicità” del pensiero di Marx non erano ammesse critiche nemmeno parziali, nemmeno a singoli aspetti secondari della politica del partito, giacché avrebbe messo in crisi tutto il “sistema”. L’unica interpretazione possibile e autorizzata del pensiero di Marx era quella fornita dal Partito comunista sovietico. Quindi essere “marxisti” significava sostenere senza riserve la politica dell’URSS. Non c’è bisogno di ripercorrere le tappe della storia del comunismo per sostenere che questa era una interpretazione di Marx, quella cosiddetta “ortodossa”, che coincideva con lo stalinismo. Ma, come ben sappiamo, fin dall’inizio il pensiero di Marx è stato interpretato diversamente da Rosa Luxemburg fino a Lev Trockij, passando per una serie di posizioni intermedie. Oggi, sulla base del libro di Jacques Derrida, Spettri di Marx (1993), le cui posizioni erano state anticipate da una serie di filosofi italiani negli anni Settanta del secolo scorso che conoscevano bene Gramsci, si tende a distinguere Marx dal marxismo: un conto è il filosofo Marx e il pensiero di Marx, un altro conto è l’interpretazione di Marx e i suoi sedicenti discepoli. Tanto che in italiano (come anche in altre lingue) ci sono due diversi aggettivi: “marxiano” per indicare afferente a Marx e al suo pensiero e “marxista”: relativo agli interpreti di Marx. Non c’è, insomma, un rapporto immediato e meccanico tra il pensiero di Marx e il marxismo. Questo ha “liberato” Marx dalle implicazioni politiche del comunismo reale, lo ha restituito a una dimensione astrattamente filosofica, forse lo ha relegato nel pensiero “utopico” e ricondotto alle sue origini idealiste. Comunque ha fatto sì che Marx oggi venga trattato come un qualsiasi altro filosofo di cui esistono molte e diverse interpretazioni. Del resto, il primo a distinguere Marx dai suoi interpreti è stato lo stesso Marx: Paul Lafargue, che era suo genero, in quanto aveva sposato la figlia Laura nel 1868, scrisse un libro dal titolo Il materialismo economico di Karl Marx, pubblicato nel 1884. Marx lo lesse in bozze e affermò, come riferisce Engels, «si ça c’est le marxisme, moi, je ne suis pas marxiste».

Allora la domanda che si pone è: a quale Marx fa riferimento Brecht? Qual è la sua interpretazione del pensiero marxiano? Certamente la sua non è un’interpretazione che coincide con la visione stalinista. In Brecht troviamo sempre una tensione – soprattutto dopo il 1933 – tra la necessità di schierarsi a fianco delle forze della sinistra rivoluzionaria per poter liberare la Germania e l’Europa dal nazismo e l’esigenza di distinguere la sua posizione politica da quella stalinista. Anzi, si potrebbe affermare che il senso dei drammi didattici sta proprio nel tentativo di far venire alla luce le contraddizioni e le aporie tra la concreta realtà e i presupposti politici del marxismo “ortodosso”. E il tono paradossale con cui Brecht vuole enfatizzare queste contraddizioni è dettato dalla doppia esigenza di criticare lo stalinismo, ma di non essere confuso con i “nemici del popolo”, di cercare, insomma, un’interpretazione alternativa di Marx. Forse questa autonomia dal marxismo “ortodosso” era dovuta al fatto che Brecht si è accostato al marxismo e ha conosciuto intellettuali di sinistra in prospettiva di una produzione artistica. È noto infatti che nella prima fase della rivoluzione bolscevica e della costituzione Sovietica la politica culturale del partito fosse orientata verso la “rivoluzione delle forme” e in perfetta sintonia con le avanguardie futuriste, costruttiviste, cubo-futuriste. ecc. Rivoluzione politica e rivoluzione dei linguaggi artistici sembravano coincidere. Questo aveva un’implicazione anche nella produzione della propaganda politica: i manifesti, le prime pagine dei giornali politici, le azioni di agitazione e propaganda erano orientati verso lo sperimentalismo e il fotomontaggio.[1] Ma aveva anche un’implicazione politica di schieramento all’interno delle varie correnti nel partito. Nella struttura dell’Unione Sovietica si assiste alla sovrapposizione della organizzazione del partito alla gerarchia dei soviet, creando quel dualismo di centri di potere che è stata una caratteristica dei paesi del comunismo reale. In ogni fabbrica, in ogni ufficio, in ogni scuola, in ogni azienda agricola c’era una cellula del partito bolscevico e in ogni organo direttivo un “commissario politico”, ossia un esponente del partito che spesso era anche membro della polizia segreta. Questa struttura procedeva sino ai vertici dello Stato, per cui a un ministro della cultura, corrispondeva un “commissario politico per la cultura” all’interno della Direzione o dell’ufficio politico del partito. Fino al 1929 il commissario politico per la cultura era Anatolij Lunačarskij, un sostenitore delle avanguardie. Ma già nella seconda metà degli anni Venti cominciò a prevalere una linea legata a Stalin, e poi rappresentata da Andrej Ždanov, che considerava l’arte e l’organizzazione degli scrittori “una cinghia di trasmissione” della linea di partito verso le masse. Prevalse la teoria del “realismo socialista”. Sebbene si trattasse di posizioni teorico-critiche e artistico-produttive, per la stessa struttura del lavoro (anche del lavoro artistico) nella Unione Sovietica, esse avevano una diretta implicazione politica. Sostenere il realismo o le avanguardie veniva recepito come una presa di posizione politica in favore di Stalin o in favore dei dissidenti, alcuni dei quali legati a Trockij. Quindi schierarsi per le avanguardie significava vedersi accusati di “formalismo” e di essere vicini ai sostenitori della “rivoluzione permanente” e di essere avversari della teoria staliniana del “socialismo in un paese solo”. L’aporia e la tensione insita nelle posizioni politiche di Brecht è tutta racchiusa nella sua convinzione di voler portare avanti un’arte legata all’esperienza delle avanguardie e di voler nel contempo sostenere la lotta politica contro il fascismo. Tutte le sue lodi al partito e all’Unione sovietica sono tasselli di questa singolare posizione politica tesa a non essere confinato nel novero dei trotzkisti e dei “controrivoluzionari”. Le organizzazioni degli scrittori rivoluzionari nell’epoca dell’esilio costituivano un concreto aiuto per gli scrittori di sinistra, ma erano schierate politicamente per le implicazioni di cui abbiamo finora parlato. Va anche considerato il fatto che in Unione Sovietica le ritorsioni nei confronti dei dissidenti e dei “formalisti” erano molto concrete: si andava dall’espulsione dal partito e dall’Unione degli Scrittori fino alla deportazione in Siberia e alla pena di morte. Brecht è sempre stato contrario al marxismo “ortodosso” e allo stalinismo. Walter Benjamin riferisce che in una conversazione avvenuta Svendborg il 21 luglio 1938, Brecht abbia affermato che «non ci può essere un’economia socialista in un solo paese».[2] E in un’altra conversazione all’inizio di agosto: “In Russia domina la dittatura sul proletariato”.[3] In queste conversazioni Brecht precisa però che non ci si può opporre alla Unione Sovietica «finché questa dittatura compie ancora un lavoro pratico per il proletariato», e, d’altro canto, cerca di distinguere le sue posizioni da quelle dei trotzkisti.

Brecht conosce Marx e il marxismo attraverso Karl Korsch (1886-1961). Korsch studiò a Londra tra il 1912 e il 1914, allo scoppio della Rivoluzione di Novembre aderì alla Lega di Spartaco, partecipò alla Repubblica dei Consigli bavarese, aderì nel 1920 al Partito Comunista Tedesco. Pubblicò nel 1923 il libro Marxismo e filosofia, che fu aspramente criticato dal partito, da cui fu espulso nel 1926. Curò l’edizione tedesca del Capitale di Karl Marx e pubblicò a Londra, in inglese, un libro, Karl Marx, nel 1938. Brecht ha letto la versione tedesca del manoscritto di questo libro già nel 1936, come si desume da una lettera a Korsch in cui commenta nei dettagli il primo capitolo.[4] In uno scritto del 1936, Brecht lo definisce “il mio maestro”.[5] In una lettera a Korsch del 1937, in cui lo chiama “compagno”, e in cui lo ringrazia di averlo informato sulle peripezie della pubblicazione del libro su Marx, Brecht cita la famosa frase di Marx, mutandola un po’, per marcare ancora una volta la sua differenza dallo stalinismo: «Un famoso comunista ha detto: se questo è il comunismo, allora io non sono comunista. Forse ha ragione».[6]

Quando quindi Brecht nei suoi scritti teorici parla di “realismo” bisogna attribuire a questo concetto tutte le implicazioni politiche che esso aveva negli anni Venti e Trenta: il valore di una presa di posizione a fianco degli scrittori rivoluzionari e di sostegno all’Unione Sovietica nella lotta contro il fascismo. Ma l’accezione con cui Brecht usava questo termine dal punto di vista della teoria dell’arte era del tutto differente da quella in cui lo interpretava Lukács o i fautori del “realismo socialista”. La difficile situazione politica costringeva Brecht a differenziare la “tattica” dalla “strategia”. Del resto, anche dopo la seconda guerra mondiale, quando è ritornato in Europa e si è stabilito nella Repubblica Democratica Tedesca, Brecht ha avuto sempre una serie di difficoltà con il Partito (la SED) per le sue messe in scena, accusate costantemente di “formalismo” ed è riuscito ad andare avanti da un lato grazie al successo internazionale della sua attività al Berliner Ensemble, e dall’altro grazie alla “protezione” politica del ministro della cultura Johannes R. Becher, che in gioventù aveva frequentato i circoli delle avanguardie.

Siamo giunti al problema centrale: quale partito e quale appartenenza? Brecht non è mai stato iscritto al partito comunista. Era, come si usava dire, un “compagno di viaggio”, il che gli consentiva quella libertà di azione e quella autonomia di pensiero che non lo costringeva a seguire la “linea di partito”. Il giovane Brecht era molto interessato alle condizioni economico-sociali del suo tempo, ma aveva seguito distrattamente gli avvenimenti politici, non si poteva definire uno scrittore “impegnato”. E tuttavia, ironia della sorte, ha fatto parte del Consiglio degli operai e dei soldati di Augusta all’epoca della repubblica dei Consigli Bavarese. Nel 1918 frequentava assiduamente Lilly e Georg Prem, dirigenti della USPD (il Partito Socialdemocratico Indipendente) di Augusta, sembra più perché attratto dal fascino della signora Lilly Prem che dal programma politico del partito.[7] Brecht era stato eletto dai soldati perché provvisto di un titolo di studio, ma non prese mai la parola e fece di tutto per essere sostituito.[8]

Tra aprile e giugno 1924 Brecht fece un viaggio in Italia in compagnia della moglie Marianne Zoff. A Capri e Positano incontrò Bernhard Reich, Asja Lacis, e Caspar Neher. Allora la costa Amalfitana era frequentata da una “colonia” di autori, intellettuali e pittori tedeschi legati alle avanguardie. Reich e Asja Lacis erano esponenti del teatro rivoluzionario. In quel periodo a Capri soggiornò anche Walter Benjamin che strinse un legame intellettuale con Asja Lacis. Quando si trasferì a Berlino, Brecht frequentò la cerchia di artisti e intellettuali di sinistra, quasi tutti impegnati nella produzione artistica, quasi tutti marxisti, ma dalle posizioni molto differenziate. Proprio la tipologia delle sue amicizie e frequentazioni berlinesi ha fatto sì che il marxismo con cui Brecht venne a contatto fosse orientato su posizioni “eterodosse”, legato alla prassi artistica e teatrale, contiguo alle posizioni di Lunačarskij. Agli amanti delle statistiche e dei dati biografici va ricordato che le teorie e gli atteggiamenti politici non nascono solo dalla lettura di testi teorici o di programmi politici, ma anche da discussioni, incontri, seminari. Tra il 1929 e il 1933 Hermann Duncker, un dirigente del partito comunista, tenne una serie di lezioni su Marx alla “Marxistische Arbeiterschule” di Berlin-Mitte. La scuola, fondata dai comunisti, non era una scuola di partito. Più dell’80% del pubblico non era iscritto al partito comunista.[9] Vi tenevano conferenze anche Hanns Eisler, Erwin Piscator, John Heartfield, Bruno Taut, Walter Gropius. Brecht ascoltò qualche conferenza e entrò in contatto con questa cerchia di intellettuali. Quando nel 1932 la polizia proibì l’uso delle aule scolastiche alla associazione, Brecht, Eisler, Feuchtwanger, Heartfield e altri misero a disposizione le loro case per le conferenze. Brecht conobbe il marxismo e tutta la letteratura marxista soprattutto attraverso i colloqui intensi con Karl Korsch. Nel 1931 Korsch coordinò un seminario, tenutosi nell’appartamento di Brecht, sul materialismo dialettico. Dal novembre del 1932 al febbraio del 1933 tenne una serie di lezioni sul marxismo alla Marx-Schule di Berlin-Neukölln.

Quindi per le sue frequentazioni, sia pure “distratte”, della cerchia degli spartachisti ai tempi di Augusta, per le conoscenze con gli “scrittori rivoluzionari” e gli autori teatrali sovietici, per la sua amicizia con Karl Korsch, il marxismo di Brecht era un marxismo di “sinistra”, “rivoluzionario”, poco ortodosso rispetto alla linea del partito comunista, a cui per altro non fu mai iscritto. La sua avversione per il riformismo trova le sue radici nel pensiero di Korsch.[10] Nel 1932 Brecht si recò a Mosca, assieme a Slatan Dudow, per la proiezione di Kuhle Wampe, film di cui aveva scritto la sceneggiatura, dove incontrò di nuovo Bernard Reich e Asja Lacis e anche Erwin Piscator che stava girando un film tratto da La rivolta dei pescatori di Santa Barbara di Anna Seghers. Sergej Tretjakov gli fece conoscere la città e i circoli intellettuali. Ma il viaggio a Mosca fu deludente, anche per lo scarso successo del film presso il pubblico. Tuttavia Brecht aveva stretti contatti con l’intellighentsia sovietica per la massiccia presenza di intellettuali e artisti russi a Berlino e quindi conosceva bene i termini delle discussioni teorico-artistiche e politiche all’interno degli scrittori di sinistra.

Allora, riprendendo la domanda iniziale, possiamo affermare che la didattica politica è rivolta al pubblico, nell’intento di farlo riflettere sulle condizioni reali della società contemporanea, ma anche sulle condizioni politiche, sui tempi difficili, che impongono scelte tattiche per lo stato di emergenza della lotta contro il fascismo e che ci conducono in situazioni paradossali dove affiora clamorosamente il contrasto insanabile tra destino individuale e lotta collettiva. E il tema fondamentale di quasi tutti i drammi didattici è proprio il “sacrificio” dell’individuo in nome di un bene comune, un bene della classe operaia e proletaria che è un po’ difficile individuare secondo il senso comune. La didattica politica può essere quindi letta come il prevalere di una tattica contingente dettata dalle circostanze particolari della lotta di classe rispetto a una strategia più complessa che prevede una critica dello stalinismo. Ma può anche essere letta invece come un Umweg, come la costruzione di una parabola per far affiorare le contraddizioni dello stalinismo e mettere in scena l’impasse a cui conduce il comunismo “ortodosso” che verrebbe così criticato in maniera radicale anche se in termini paradossali che ricordano il teatro dell’assurdo. Qui davvero politica e sperimentazione, linguaggio e presa di posizione politica coincidono come nei primi anni della rivoluzione bolscevica in cui rivoluzione politica e rivoluzione dei linguaggi artistici coincidevano persino nei manifesti della propaganda, nel teatro e nella stampa di partito.

È noto che Brecht, pur operando una forte rivoluzione delle forme teatrali, attinge a piene mani dall’esperienza della tradizione precedente.[11] In primo luogo alla tradizione del teatro espressionista, con la sua interruzione dell’azione, con le didascalie, le foto, lo Stationendrama, ecc. Riutilizza anche molti stilemi del teatro politico, del teatro agit-prop, spesso modificando lo loro funzione – la famosa Umfunktionierung cardine della sua teoria teatrale. Ma con l’utilizzazione delle maschere e della tipicizzazione dei personaggi, con l’abbattimento della quarta parete e l’importanza del coro, attinge anche al teatro classico greco e al teatro politico russo nonché al teatro cinese. In Brecht, insomma, innovazione e tradizione vanno di pari passo. Le rivoluzioni delle forme teatrali non sono vuoti esperimenti stilistici, ma riutilizzazione e attualizzazione di motivi pre-esistenti a cui viene attribuita una diversa funzione. Paolo Chiarini sostiene che Brecht con il dramma didattico si distingue dai criteri dell’espressionismo[12] ossia “rifunzionalizza” una diversa tradizione teatrale: gli autos sacramentales di Calderon e in genere della drammaturgia barocca,[13] In Un uomo è un uomo Brecht attinge a Kipling, ma anche a Prirandello. Proprio l’elemento politico, la didattica come “senso” politico dei Lehrstücke segna una demarcazione dalla poetica individualistica dell’espressionismo che aveva contrassegnato i suoi drammi fino a L’opera da tre soldi.

Brecht non aderisce a un modello di raffigurazione diretta e immediata del lavoro di fabbrica (modello che ricorre nella letteratura proletaria) e tuttavia egli si trova idealmente dalla stessa parte della barricata, ma Brecht è ben lontano da rinvenire nella strumentalizzazione dell’individuo un punto di arrivo dell’etica marxista.[14] Brecht preferisce la condanna indiretta, ma tanto più efficace, che scaturisce da una contestazione immanente realizzata attraverso il paradosso portato all’assurdo. Chiarini considera i drammi didattici un punto di svolta nella drammaturgia di Brecht il passaggio dall’espressionismo al dramma politico con implicazioni specifiche della struttura drammaturgica: abbandono o meglio maggiore autonomia dagli stilemi espressionisti e utilizzazione della tradizione (dramma medioevale e barocco teatro pedagogico).

In conclusione, i drammi didattici rappresentano per Brecht un momento di passaggio in cui trasforma la sua drammaturgia, autonomizzandosi dagli stilemi espressionisti e riutilizzando altri modelli teatrali, a loro volta attualizzati nell’ottica di una polarizzazione tra “buono” e “cattivo”, tra “giusto” e “ingiusto” funzionale all’intento didattico a cui non è estranea la parodia e il paradosso che diventano per ciò stesso un mezzo espressivo. Il passaggio alla fase successiva, che porterà al teatro epico, è caratterizzata dal fatto che i personaggi, anti-eroi, non sono più rappresentati solo come “maschere” nel loro carattere paradigmatico, ma acquistano anche una singolarità in cui l’individuo trova la sua strada per acquisire la coscienza di classe.


Note
[1] Cfr. Mauro Ponzi – Aldo Mastropasqua (a cura di), Europa Futurista. Simultaneità, costruttivismo, montaggio, Mimesis, Milano 2015.
[2] Walter Benjamin, Conversazioni con Brecht, in Avanguardia e rivoluzione, Einaudi, Torino 1973, p. 229.
[3] Ivi, p. 233.
[4] Cfr. “Alternative” 105, Dez. 1975, p. 247.
[5] Ivi, p. 259.
[6] Ivi, p. 247.
[7] Cfr. Werner Mittenzwei, Das Leben des Bertolt Brecht, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1987. vol. 1, p. 94.
[8] ivi, p. 94. In una lettera del 18 luglio 1966, Ernst Niekisch, presidente del Consiglio dei soldati e degli operai di Augusta al tempo della Repubblica Bavarese, ricorda: «Bert Brecht faceva parte del Consiglio degli operai e die soldati di Augusta, ma, per quanto mi ricordo, non ha mai preso la parola» (W. Frisch – K. W. Obermeier, Brecht in Augsburg, Aufbau, Berlin-Weimar 1975, p. 144).
[9] Cfr. Werner Mittenzwei, op. cit., p. 405.
[10] Cfr. ivi, p. 410.
[11] Cfr. Hans Mayer, Brecht e la tradizione, Einaudi, Torino 1972.
[12] Paolo Chiarini, Bertolt Brecht, Laterza, Bari 1967, p. 166.
[13] Ivi, p. 177.
[14] Ivi, p. 174.
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