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prismo

Contro il pop

intervista a Paolo Mossetti

Dalla religione del lavoro alla Londra post-Brexit, dall'anarchismo individualista alla prospettiva di un'Europa “mediterranea”: una conversazione con Federico Campagna, filosofo, attivista e autore di L'ultima notte

CAMPAGNA HERO 2Il sottotitolo è già una mappa: Anti-Lavoro, Ateismo, Avventura. E il movimento, al contrario dei soliti pamphlet pieni di denuncia, numeri e indignazione, è tutto in ascesa: si racconta ciò che ci tiene incatenati, il trionfo di una nuova religione – quella del Lavoro – e poi si naviga attraverso una miriade di rotte per uscirne. Non sarà un viaggio facile. E saranno proprio le convinzioni di noi gente di sinistra che verranno messe in crisi. 

Ispirato da una serie di articoli pubblicati tra il 2008 e il 2013 sul blog che lui stesso ha contribuito a fondare, L’ultima notte del filosofo e attivista Federico Campagna è tra i casi editoriali più interessanti del panorama saggistico attuale. Pubblicato tre anni fa dalla londinese Zero Books dopo che la bozza – caso più unico che raro – era stata consegnata direttamente in inglese dal suo autore, tradotto in italiano da Postmedia (Milano), il libro ha riscosso il plauso di intellettuali affermati come Simon Critchley, Mark Fisher, Franco Berardi o Saul Newman. Secondo quest’ultimo, “Campagna ha scritto niente di meno che un nuovo L’Unico e la sua proprietà, aggiornato per la nostra contemporaneità neoliberale – un’epoca in cui in teoria l’ego individuale regna libero e supremo ma dove, in realtà, l’individuo è soffocato dall’estasi celestiale della fede e della rinuncia a sé”.

Federico Campagna lo incontro a Londra, nella casa dove ha vissuto negli ultimi otto anni, a New Cross, un quartiere operaio a sud del Tamigi ora invaso da studenti alla moda.

Da cinque anni è il foreign rights manager di un editore importante come Verso, e da due è dottorando in Design Interactions al Royal College of Arts. Conosco Campagna da quando, in una classica scena da film collegiale di serie B, mi avvicinai con un vassoio al tavolo di una mensa universitaria milanese: lui seduto con l’immancabile sigaretta tra le dita, io logorroico fuorisede che cercava di attaccare bottone (ve l’ho detto, era un film di serie B). Io poi mi sono trasferito a New York e non ci siamo visti – incredibilmente – per ben quattro anni. Adesso Federico mi accoglie nel salotto dove mi rifugiai in tante notti di stupore alcolico; un soggiorno piccolo e molto accogliente, che negli anni è stato sommerso da libri, ricordi personali, dvd mai aperti, posaceneri stracolmi, bicchieri da whisky lasciati vuoti sul tappeto e adesso – questa la sorpresa più bella e grande – anche da un bimbo di due anni. “Fai ‘ciao’, Arthur”, dice il papà. Ma lui non ricambia la mia manona infreddolita, e tra i riccioli rossastri bisbiglia solo un timido “Hi”.

 

* * * *

Il tuo è un libro molto autobiografico, dove ogni capitolo è introdotto da un piccolo episodio personale. Ad un certo punto racconti di quella notte in cui in cui ti sei ritrovato in ospedale dopo un brutto malore, sospeso tra la vita e la morte – da qui poi il titolo del libro – e ti sono passate davanti tutte le “mattine buie sul treno verso il lavoro nella nebbia assonnata dei pendolari”. E hai provato rabbia “per i giorni d’estate visti dalle finestre dell’ufficio, per gli straordinari al lavoro, per i cocktail party svogliati” e per tutto ciò che hai fatto “nel nome di un’imperdonabile obbedienza”.

Sì, il libro ha quella struttura. La parte che dici tu è stata una banale illuminazione: la tipica illuminazione della mortalità. Anni fa ebbi un collasso polmonare piuttosto grave. Mi ritrovai da un momento all’altro imbottito di medicinali, con un tubo nel torace. La sensazione di stare per morire era autentica, e la rabbia che ho sentito mi rimase addosso. Che poi le banalità esistono solo a livello concettuale: quando ne fai esperienza, non sono più banalità.

 

Tu vivi a Londra da quasi dieci anni ormai, facendoti strada in un modo che non esiterei a definire brillante: hai scritto, hai tradotto, hai pubblicato, hai fatto politica, tenuto a bada due lavori e adesso hai anche un figlio. Eppure da ciò che scrivi emerge una notevole acredine nei confronti di questa città.

Vedi, il punto è che Londra, quando è filtrata dall’esperienza personale, si rivela una città piena di ricchezze per la maggior parte avvelenate.

È l’esempio di una metropoli perfetta secondo i parametri culturali contemporanei: servizi efficienti, sicurezza, eventi, divertimento a volontà. Un ambiente a cui non puoi non ambire. Vivendoci dentro, però, ti accorgi fin da subito che la prova dei fatti esistenziale non è quasi mai riconducibile alla cultura: qualcosa non ti torna. E questa del resto è l’idea di fondo del libro: c’è una distanza enorme, incolmabile tra le strutture culturali, sociali, economiche e l’esperienza unica, esistenziale dell’individuo. E questo ti porta a sviluppare una strategia di disimpegno, di distacco, di protezione, di sottrazione. E questa è l’idea alla base di un sacco di cose che ho fatto. 

 

Parlando di religione del lavoro, a un certo punto ti rendi conto che il suo mantra, sebbene annichilente nella pratica, sulla carta però offre una narrativa potentemente evocativa. In un’epoca come questa dove trionfa la retorica della hardworking people e dei taxpayer, non ti sembra una battaglia persa in partenza?

Penso che dobbiamo fare un giro più largo. Ok, il populismo si rivolge all’uomo della strada. Che però non ha più fame, come un tempo, ma ha paura. Ma come si può definire questo uomo della strada fantomatico? Innanzitutto non è un popolo, ma un individuo. Schiavizzato dalla parola “popolo”. O “nazione”. La seconda caratteristica di quest’individuo è di essere contemporaneo: rappresenta la propria epoca in maniera perfetta, è completamente riconducibile al proprio tempo. Un’epoca di instabilità, militarismo, commerciabilità. Ora il problema è che tutte le culture, anche quelle radicali, vogliono essere contemporanee. Se partiamo da questo, non riusciremo mai a uscire dalla trappola. Rimanere ancorati alla contemporaneità non ci farà sfuggire né dal populismo né dalla religione del lavoro. La contemporaneità è un filtro che non ci farà mai vedere cosa stiamo cercando. Qual è una delle forze dell’Islam? Vivere nel tempo sacro, mentre l’Occidente sembra esistere solo nella Storia. Secondo me è in questa atemporalità, nell’affermare che c’è un altro tempo, che non è il passato né il presente e nemmeno il futuro prossimo che possiamo trovare le risorse per uscire dalla trappola.

 

Il lavoro riprende certe categorie religiose, ritenendone solo alcuni aspetti: per esempio la sottomissione, l’incatenamento, la riduzione.

 

Nel libro parli di come certe costruzioni mentali, per esempio l’idea di avere una carriera, l’idea di avere una speranza, di avere uno scopo, siano tipicamente categorie religiose. E le chiami Astrazioni Normative.

Nel mondo contemporaneo del lavoro – un lavoro per lo più reso superfluo e obsoleto dalla tecnologia – le Astrazioni Normative sono usate come valuta per accettare se stessi. Per controbilanciare la possibilità di diventare qualcosa di meglio di ciò che sei. E il lavoro riprende certe categorie religiose, ritenendone solo alcuni aspetti: per esempio la sottomissione, l’incatenamento, la riduzione. Prendi il mondo dei monaci: lì il mondo viene reso piccolo, umile, misurabile, perché ridurre il nome del mondo serve ad ampliare la sua essenza, il suo aspetto post-linguistico. Ma se riduci il mondo senza nessuna ascesa, se dietro questa riduzione del linguaggio non c’è niente, che ti resta?

E questo avviene anche nelle questioni identitarie, a sinistra. Si riduce l’Uomo a categorie lessicali, grammaticali, mentre si nega sempre di più la sua dignità.

 

A prima vista sembra un discorso quasi mistico.

Forse, ma è anche tipico dell’anarchismo individualista, per esempio Max Stirner.

 

A proposito di Stirner. Mi sembra che abbia avuto un’influenza dirompente nel tuo lavoro.

Beh, innanzitutto come metodo: aprirmi gli occhi sulle questioni teologiche, che sono questioni esistenziali. “Io”, in quanto Unico, non sono riducibile a nessuno dei miei attributi. Questo rimanda un po’ alla teologia negativa, in cui si dice che “Dio esiste” è ridurre Dio stesso. Stirner dice che se vale per Dio vale anche per me. Lui poi prende gli ideali romantici, tipo Fichte, e li estremizza. Stirner mi ha insegnato un sano sospetto nei confronti delle cose dette, della parola. Poi chiaramente questo l’ho ritrovato in un sacco di altre persone, in Schopenhauer, nella filosofia indiana, nell’esoterismo… 

 

Mi sembra che ci sia un lavoro da fare che non è solo politico, anarchico, ma anche metafisico.

Non è solo la questione se ti piace il libero mercato oppure no: a quel livello le opzioni politiche sono limitatissime. Sei fottuto in partenza. E infatti per parlare di politica io non parlo solo di lavoro ma parlo di etica. Il mio prossimo libro sarà sulla magia. Tutte cose apparentemente non politiche, ma in realtà fondamentali. Pensa anche al discorso sugli immigrati: nel periodo d’oro del post-illuminismo, il secondo Dopoguerra, c’era questo discorso sull’essere umano, e sulla base di questo si sono create una serie di politiche. Ora il discorso non funziona più perché è cambiato il sistema di valori; l’essere umano si deve salvare solo se ha i soldi, se si integra, se è competitivo, eccetera.

 

Nella primavera di quest’anno hai finalmente ottenuto la cittadinanza britannica, mantenendo quella italiana. Subito dopo ti sei iscritto al Labour Party. Come si conciliano l’ateismo, l’individualismo del tuo lavoro con la tessera di un partito?

Ancora una volta la motivazione è teologica. Nella lettera ai Corinzi, Paolo di Tarso parla dell’arrivo del Messia, e la gente è impaziente. Allora San Paolo dice: “State buoni, per ora c’è in ballo il Katechon”, che è il potere della dilazione, che frena l’arrivo dell’Anticristo. Questo potere è una cosa cattiva, in un certo senso, perché rallenta la fine dei tempi e dunque l’arrivo di Dio. Ma è anche una cosa buona, perché frena pure l’arrivo del Maligno. 

 

Che in quel caso erano 1000 anni di governo, se non erro.

Ecco. Io penso che l’Unione Europea sia un moderno Katechon. E ho pensato che il Labour fosse un Latechon. Ho appoggiato Corbyn quando la sua leadership era contestata dai blairiani, ma non avevo un attaccamento morboso. E poi mi sono pentito amaramente…

 

L'Europa mi piace perché non ha molto di contemporaneo, ha un aspetto di umanesimo che è più mediterraneo. Certo, l'idea attuale si basa sul Nord Europa e sull’austerity, ma l'essenza del progetto europeo ha un centro

 

Mesi fa dicevi che la Brexit era nell’aria, nonostante i sondaggi dessero il Remain in vantaggio fino all’ultimo.

La prima cosa da guardare è la stampa di queste parti. Che è di qualità incomparabilmente più bassa di quella italiana. È come se tutti i giornali, o quasi, fossero Libero o La Padania. Non sto scherzando: ormai qualunque titolo in prima pagina ha a che fare con gli immigrati, con l’Europa, con i parassiti sociali, eccetera. Da questo punto di vista, Londra è fatta apposta per riflettere lo spirito dell’epoca, in quanto pienamente contemporanea. Al contrario della Mecca, la cui struttura è l’esatto opposto. 

 

Tu sei sempre stato un convinto europeista, anche se con tratti un pochino visionari, come quando hai sostenuto che le future capitali dell’Unione dovrebbero essere Atene e Alessandria D’Egitto. Cosa ti senti di salvare del progetto europeo?

L’Europa funziona un po’ come una sorta di Weimar in questo momento. Ritorniamo al discorso sul Katechon: Weimar era concausa del nazismo, ma anche era ciò che tentava di frenarlo. A un livello molto più profondo, invece, l’Europa ci ricorda che le barriere e i confini sono soltanto delle convenzioni, mentre la vita, l’esistenza in quanto tale è una realtà, e deve avere la precedenza. L’Europa mi piace perché non ha molto di contemporaneo, ha un aspetto di umanesimo che è più mediterraneo. Poi, certo, l’idea attuale dell’Europa si basa sul Nord Europa e sull’austerity. Ma l’essenza del progetto europeo, non tanto quanto progetto politico quanto culturale, ha un centro che è altrove, non necessariamente nell’Europa geografica.

 

L’Ultima notte “è stato scritto per gli adolescenti ed è a loro dedicato”.

Quella è una cosa che non rifarei. 

 

Non la vedi bene, questa generazione?

Penso che valga la pena lavorare saltandone un paio, di generazioni. Pensando a quelli che hanno zero anni o stanno per nascere: può sembrare un pietismo, ma penso a mio figlio. La mia generazione, quella dei cinquantenni o quella dei quindicenni di oggi sono senza speranza, oggettivamente senza speranza. C’è stata una stringa di generazioni inutili, del regresso, e noi ne facciamo parte.

 

Ma come, non è questa la generazione del politicamente corretto, della tolleranza religiosa e sessuale, del “multi”-tutto? Non c’è proprio niente da salvare?

Per cominciare io riposizionerei la genealogia della tolleranza. Da un lato, i millennial sono persone che sono educate a certe cose; non è che se le ritrovano nel sangue. Dall’altro, è una tolleranza molto selettiva: se sei un rifugiato siriano gay, allora i millennial ti riconoscono protezione. Se invece sei solo un poveraccio, uno che spende i benefit del governo in patatine e Coca-cola, allora non c’è più la spinta compassionevole. La solidarietà che seguì la Seconda guerra mondiale, quel tipo di universalismo solidaristico si è spento. Ma il problema ti ripeto è delle ultime generazioni, mica dei diciassettenni. C’è un conformismo davvero totale, ed è molto più profondo di quello degli anni precedenti, perché gli orizzonti si sono ristretti molto. È rimasta soltanto la contingenza materiale della finanza e della tecnica.

 

Una volta mi facesti una confessione: saresti potuto andare tante volte a New York, ma quello che ti frena è che proprio non sopporti la cultura americana, o cultura pop che dir si voglia.

È così, purtroppo. Forse un giorno mi ritroverò alla sede di Verso a Brooklyn e ti chiederò qualche dritta. Comunque sì, c’è una cultura in particolare, la cosiddetta cultura pop, la cosiddetta cultura bassa, che ci dice che c’è un solo livello che esiste e che non c’è una gerarchia, e dunque non c’è possibilità né di salire né di scendere, e dunque non puoi andare da nessuna parte. E dire che non c’è una cultura alta è paradossalmente un sistema castale. È un immobilismo totale. Ora, è a questo tipo di cultura tipicamente americana che l’Europa può dare un’alternativa. Se per Europa ovviamente intendiamo anche il Marocco, L’Albania, la Turchia, eccetera.

 

Ma come possiamo tornare a un sistema di “livelli” ben chiari e definibili, o di gerarchie come dici tu, senza arrivare a un’esclusione di intere fette di società, ammesso che questa esclusione non abbia ragione di esistere?

Beh, una cosa importante da dire è che il mezzo non è il messaggio. Altro che McLuhan: c’è una differenza enorme. C’è una differenza tra la tecnica di fare una cosa e la cosa stessa; e l’ipertrofia del mezzo, che oggi è una condizione accettata ovunque, non porta a un’espansione della qualità del messaggio. Ci sono dei mezzi di comunicazione enormi, ma per dirsi che cosa? 

 

Allora si deve trovare un modo per dire che l’ignoranza, in un certo senso, non esiste.

Certo: se tu dici che quello che vedi è quello che c’è, che quello che sei è quello che puoi essere; che non c’è una trasformazione vera nel poter chattare con un milione di persone in più. Ti devi mettere in testa che sei un ammasso di carne, più o meno rugoso, con più o meno skill

 

Però questo urta un po’ con la mia, come dire, scuola marxista, che dice che le masse di derelitti vanno emancipate, che l’invidia sociale è una cosa positiva, che c’è trasformazione nella consapevolezza.

Ma neppure Marx diceva che l’emancipazione materiale è fine a se stessa. Altrimenti diremmo che Steve Jobs era la persona più emancipata della terra. Oggi si confonde l’emancipazione materiale con l’emancipazione tout-court. Vedi, la base della democrazia contemporanea, che è un sistema politico del tutto insensato, è l’appiattimento totale delle possibilità. Vuol dire che qualunque stronzata chiunque dica in qualunque momento sia la migliore delle scelte possibili. Il che non è vero. Lo dico da fumatore: io so che la cosa che voglio è la cosa che mi uccide. E questo perché la mia volontà, in fondo, non dice niente di più della mia qualità. La mia qualità ovviamente è una qualità scarsa, anche all’interno delle mie possibilità; potrei essere molto meglio di quello che sono. E quindi devo prendere la mia volontà con le pinze. Dobbiamo avere il coraggio di dire, per quanto possa sembrare un’eresia, che ciò che vogliamo spesso è sbagliato. Che se la gente vuole la pena di morte e la tortura, è una cosa sbagliata.

 

Il problema è che non sappiamo trascendere le contingenze, andare al di là della cultura attuale, pensare a tempi altri. E quindi ce la prendiamo con la Banca Centrale, come se fosse una forza che fa rotolare una palla.

 

Sbaglio o quando parliamo di oligarchia sembra sempre che immaginiamo di poterne far parte?

Non so se oligarchia è la parola giusta. Però so che non vorrei essere uno dei governanti della città ideale. Al contrario, mi sono reso conto che per tantissimi ambiti della mia vita ho bisogno di persone che ne sappiano più di me: dall’idraulico al tecnico delle caldaie, ai maestri che mi consigliano cosa leggere. Invece, per quanto riguarda il governarsi, adesso sembra che siamo tutti in grado di farlo da soli. Questa è una fesseria. 

 

Ma del resto le pulsioni nichiliste o suicidarie di massa sono abbondate nella storia dell’umanità.

De La Boétie diceva che non c’è potere se non l’obbedienza. Pensa anche alla prima guerra mondiale. Sì, possiamo discutere delle responsabilità delle élite; ma stiamo parlando di venti milioni di disgraziati che si sono fatti mandare al macello da quattro generali. Il vero problema è che non sappiamo trascendere le contingenze, andare al di là della cultura attuale, pensare a tempi altri. E quindi ce la prendiamo con la Banca Centrale, come se fosse una forza che fa rotolare una palla. Ma nei rapporti tra uomini non valgono le leggi della fisica.

 

Quello che scrivi ha sempre tendenze individualistiche molto forti. E anche dal modo in cui ti poni nei dibattiti, con una sorta di elegante distacco, di misura, e anche dal tuo rifiuto per lo smartphone e i social media mi sembra che hai sempre cercato di essere coerente. Non hai mai avuto paura di essere frainteso e di apparire egocentrico e indifferente, o di indirizzare le persone verso una casa vuota, gelida e senza finestre?

Ma quando parlo di sviluppare la propria umanità non penso ad un niccianesimo da yuppie anni Ottanta, che ha a che fare con American Psycho, il baciarti i bicipiti mentre ti scopi una puttana. Ha a che fare con l’espansione della propria coscienza, che vede nella relazione con gli altri una forma anche di identità propria. Una relazione che diventa positiva, che rende la persona positiva; in cui la compassione ha una parte centrale. Ma dicendo ciò non sto dicendo nulla di nuovo: nel buddismo, nel cristianesimo, nel sufismo si vede quest’idea di compassione come uno dei pinnacoli della perfezione umana. Perché, in fondo, questo è il massimo che siamo in grado di pensare come perfettibilità dell’essere umano. 

 

Allo stesso tempo, però, ci tieni a far sapere che non sei il famoso “99%”.

Si prende quest’idea conformistica della parità, dell’uguaglianza che è annichilente, e ci fa tendere tutti al subumano. Quando vedi i sostenitori di Trump, ad esempio: working class o meno, il loro rapporto anempatico con il resto del pianeta, coi messicani, coi musulmani, eccetera, rivela che la loro umanità è bassa. Questo dobbiamo avere il coraggio di dirlo, anche a sinistra. Un bambino siriano non è subumano perché povero e ruba; un sostenitore di Trump coi soldi, invece, sì. Il che non vuol dire che lo dobbiamo ammazzare. Ma dobbiamo dire chiaramente che ci sono dei gradi di umanità: superiori e inferiori. 

 

Nell’Ultima notte, che più che un saggio politico è un libro di etica, tu offri una serie di micro-tattiche, come quelle che prendono vita all’interno di un gruppo di amici o di compagni, o di quell’“irrispettoso opportunismo” nella relazione tra il singolo e l’ambiente circostante. Per racchiuderle hai scelto questa bellissima parola, “avventura”. Ma ti guardi bene, mi pare, dall’elogiare l’illegalità fine a se stessa, il licenziarsi dal lavoro e abbracciare l’etica punk – che definisci “borghese” – o il ribellismo parolaio. Piuttosto, una serie di piccoli sabotaggi, senza rinunciare allo stipendio, alla sanità pubblica e alla possibilità di votare. E, ovviamente, all’alleanza temporanea con altri “egoisti”.

Sì, io suggerisco tattiche di invisibilità che prescindano dalle contingenze. Perché le contingenze ci schiacciano troppo sulle astrazioni normative, al punto tale che dell’umanità non resta più niente. Anche la compassione, anche il sentimento dell’amore,  che sono millenni che ne scriviamo ma non siamo riusciti a identificarlo, possono diventare astrazioni normative se restano solo delle parole. Ora, visto che dipendiamo molto dalla società per una serie di cose, e ci sono apparati repressivi molto forti, questo disentanglement come lo chiamerebbe Bifo dev’essere fatto con molta cautela. Perché, da un lato, urlarlo non serve a farlo diventare più forte. Dall’altro perché effettivamente è un lavoro che ha bisogno di un po’ di tempo e di un po’ di spazio che non ci vengono dati dalla società, o da una serie di conferme sociali come la promozione in ufficio o la manifestazione di piazza più o meno riuscita. La forza per questa spinta solidale deve venire da dentro. Altrimenti, se io pensassi che non ci sia vita migliore di questa, che tutto è solo una questione di skill o meno skill, ecco dopo aver avuto trent’anni anni di questa vita, ed essermi oggettivamente rotto il cazzo di me stesso, l’unica cosa sensata sarebbe ammazzare me e tutti gli altri. Capisci? Il suicidio e l’omicidio di massa sarebbero l’unica via d’uscita perché in fondo penseresti che non stai ammazzando niente, ma solo grumi di carne e sangue. 

 

E profili LinkedIn. Un’altra cosa di cui parli è lo “sperpero della speranza” come tattica centrale nel demolire la religione del lavoro. Ma la gente in fondo lavora per smettere di lavorare. E tu gli vuoi demolire pure quest’ultimo castello di illusioni?

Ma ovviamente l’uscita da questo castello non è mai una possibilità reale. E tutto sommato nemmeno io so se ne uscirò mai. Io parlavo di sperperare quei legacci che ti incatenano per impedirti di diventare una persona migliore. È il rimanere dubbioso, il rimanere distaccato; il non riporre fiducia in questa speranza che il proprio posto sia all’interno della contemporaneità. Ma cos’è invece la sustanza di cose sperate / e argomento delle non parventi di cui parlava Dante, che poi è la fede stessa? È, credo, la fede di diventare qualcosa di meglio di ciò che sono, di lasciare una traccia della mia avventura; ma non necessariamente nel mio corpo, nel mio tempo. Non è la speranza di diventare un supereroe, che in fondo è solo una persona col vestito diverso e i muscoli più grossi; con più poteri, certo, ma con gli stessi traumi. Un santo, piuttosto. Quando una persona diventa un santo non è più la stessa. Questa è un’aspirazione che si va perdendo sempre più. Se pensi di diventare un supereroe con i bicipiti più grossi, la vista più profonda, allora il mio suggerimento è: apri la finestra e ammazzati. Perché la tua vita è inutile. E troppo lunga. Per questo dico che la cultura pop è suicidaria e omicida: perché, visto con quell’ottica, ammazzare un seienne innocente o un jihadista ottantenne sarebbe la stessa cosa. 

 

Insomma sopportare tutto questo sbattimento per diventare qualcosa d’altro, anche in un’altra vita; diventando la tappa di un progresso più lungo.

Certo. Perché ci prenderemmo cura di un bambino, sennò?


Paolo Mossetti è nato a Napoli nel 1983 e ha lavorato a Londra e New York, dove si è occupato soprattutto di anarchismo, antropologia urbana e conflitti. Ha scritto per Domus, Lo Straniero, Rolling Stone e Il Manifesto. Ha un blog: kaosreport.com.  
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