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manifesto

La passione per il mondo di un ospite ingrato

 Donatello Santarone

Il poeta asseverativo ma anche a tratti pedagogico; il dialogo a distanza con Pier Paolo Pasolini; il confronto serrato con la tradizione letteraria italiana; il rapporto disincantato con l'ebraismo e con la religione all'insegna però del rifiuto di qualsiasi misticismo. La figura intellettuale di Franco Fortini in tre saggi da poco pubblicati

fortiniSono trascorsi ormai tredici anni dalla morte del poeta e saggista Franco Fortini, ma l'eredità del suo magistero di intellettuale complessivo, esponente di punta del marxismo critico europeo del secondo dopoguerra, continua a interrogare quanti rifiutano quel sistema di rapporti fra uomini mediato da cose che definiamo capitalismo.

Testimonianza di un interesse vivo nei confronti dell'opera fortiniana sono tre volumi di recente pubblicazione a lui dedicati. Il primo è di Romano Luperini (Il futuro di Fortini. Saggi, Manni, pp. 110, euro 12) e raccoglie dieci saggi scritti negli ultimi venticinque anni a documentare la lunga «fedeltà» del critico italiano nei confronti dell'opera di Fortini.

Con la sua prosa asciutta e antiretorica, Luperini mette a fuoco alcuni nodi centrali dell'opera del poeta, del saggista, dell'intellettuale critico. Da una parte, c'è in Fortini, secondo il critico fiorentino, il rifiuto netto di qualsivoglia «religione della poesia», l'odio per le sette letterarie quasi sempre complici di «chi sta in alto» (per dirla con l'amato Brecht), il suo classicismo «strabico o ironico», la polemica costante fatta di ammirazione e fastidio con Pier Paolo Pasolini («l'uno è poeta di inibizione, l'altro di esibizione»). Ma anche una concezione della poesia come «valore» e «disvalore» a un tempo, «segno di una possibile alterità, di una figuralità non consumabile nell'immmediato, e sigillo di un potere tramandato da una casta di mandarini».


Il collezionista di Benjamin


Vi sono inoltre nei saggi che compongono il volume temi come la rivendicazione della maturità come «arte della mediazione e della dialettica, coscienza che respinge l'immediatezza e la visceralità» e quindi il confronto aspro con la tradizione; una concezione della critica letteraria che provochi sempre, a partire da una disamina puntuale di un testo, un corto circuito tra opera e mondo, tra testo e storia, tra letterario ed extraletterario, sottintendendo - scrive Luperini - «un'idea assai alta della critica letteraria come attività eminentemente etico-politica, chiamata a mediare fra il senso dell'opera e quello del mondo che la circonda».



Su quest'ultimo punto, in un saggio del 2005 Su Fortini saggista e teorico della letteratura, Luperini coglie nella lukácsiana categoria di «totalità» una delle chiavi di lettura centrali per inquadrare la prospettiva fortiniana, nel fecondo connubio tra marxismo e letteratura che porta il critico fiorentino «a considerare l'oggetto letterario come "il luogo in cui si manifesta un determinato rapporto sociale"». Senza alcun piatto sociologismo, ma anzi partendo sempre da un dettaglio («come il collezionista caro a Benjamin, anche Fortini nell'oggetto, e persino nel particolare minuscolo, vede miniaturizzato il mondo») e con un'alta consapevolezza della dimensione formale del testo letterario, Fortini riesce a cogliere i nessi tra l'opera, la sua forma e la sua ideologia, e le strutture socio-economiche che ne condizionano gli esiti. In questa prospettiva egli dilata il concetto di «letteratura» proponendo di sostituirlo con l'espressione «scrittura-lettura». Con ciò - sostiene Luperini - egli «intende sottolineare una relazione dialettica e una dimensione sociale che rinviano, entrambe, all'extraletterario. Non solo la scrittura influenza la lettura, ma questa condiziona quella: ne determina infatti il significato. Affermare, come fa Fortini, che l''opera crea il suo pubblico meno di quanto il suo pubblico non la crei, vuol dire che il significato di un'opera è inseparabile dal processo della ricezione e che la storia della letteratura dovrebbe essere soprattutto storia della trasmissione e della ricezione, della fortuna e dei gusti, dei canoni e del pubblico, insomma dei processi di valorizzazione e attualizzazione dei testi».

Anche il volume di Felice Rappazzo - per due terzi dedicato a Fortini - si confronta con temi in parte analoghi a quelli sopra descritti (Eredità e conflitto. Fortini Gadda Pagliarani Vittorini Zanzotto, Quodlibet, pp. 184, euro 18). Nei sei densi saggi che il critico catanese dedica a Fortini - sulla funzione degli intellettuali, sul Negativo, sull'eredità e altro - è senza dubbio da segnalare quello relativo ad una delle poesie ultime di Fortini, Reversibilità (riprodotta in questa pagina, n.d.r.), la cui lettura - scrive Rappazzo - «chiarisce che cosa significhi l'estraneità di Fortini alle principali scuole e tendenze della poesia del suo secolo, e in particolare la lontananza dalla tradizione cosiddetta "novecentista", fondata sul presunto primato della poesia, sulla sua sacralità e sulla separatezza della lingua che le è propria, nonostante una certa frequentazione con l'ermetismo fiorentino (...) Nella poesia di Fortini invece assistiamo, col rifiuto della "lirica", alla ricerca di una funzione argomentativa e allegorica, narrativa e pedagogica, che si manifesta anche nei tratti asseverativi del linguaggio, quale egli poteva desumere dall'esperienza poetica internazionale che va dal surrealismo a Brecht. In particolare - aggiunge Rappazzo - dal poeta tedesco, da lui ampiamente tradotto, Fortini trae l'idea e la prassi di una poesia modernamente "civile", che si basi cioè non sulla presunzione di un compito specifico affidato agli intellettuali (il cosiddetto "mandato"), ma su una funzione di smascheramento dei pregiudizi, delle idee ricevute, della presunzione di un rango speciale per la poesia».

Originale è invece il terzo libro di questo «sentiero di lettura» fortiniano. Si tratta di un voluminoso e documentato studio di Davide Dalmas, giovane ricercatore dell'università di Torino, nella sostanza dedicato a rintracciare le fonti bibliche nell'opera in versi e in prosa di Fortini ed a interrogarsi sulla loro funzione (La protesta di Fortini, Stylos, euro 30).
Fortini lesse assiduamente la Bibbia, fin da quando a dieci anni il padre gli regalò un'edizioncina della Riveduta. L'ebraismo ereditato dal padre (laico progressista), il cattolicesimo della madre, la conversione alla religione valdese (dopo le leggi razziali del '38 egli dovette rinunciare all'ebraico cognome paterno Lattes), la costante attenzione alla dimensione religiosa (i «limiti oscuri» dell'esistenza) sono tutti fattori che hanno portato Dalmas a scavare questo versante dell'opera fortiniana nel tentativo di coglierne gli innesti sul suo marxismo insieme rigoroso ed eretico (almeno per lo stalinismo italiano del dopoguerra) e per individuare quell'analogia, per usare le parole di Pier Vincenzo Mengaldo, tra «attesa ebraico-cristiana della liberazione e "utopia" del socialismo».

Il titolo del volume, La protesta di Fortini, allude per Dalmas a tre significati: la ricostruzione del rapporto personale di Fortini con il protestantesimo (e con la Bibbia); la sua attitudine ad essere ospite ingrato, compagno scomodo, coscienza critica; ed infine, con recupero del significato latino, importante anche nella storia della cristianità riformata, la necessità del «pro-testari», l'esigenza della testimonianza a favore. Per Dalmas i riferimenti al linguaggio della tradizione ebraico-cristiana non sono solamente repertori di metafore, di modelli stilistici per la poesia e la prosa (che il critico tuttavia rintraccia con dovizia di particolari nella scrittura di volta in volta epigrammatica, assertiva, profetica, apodittica, sapienziaria di Fortini).


La Bibbia del materialista


I riferimenti religiosi presenti nelle opere di Fortini sono tuttavia sempre riferimenti ai contenuti, alle verità presenti in quelle tradizioni. Verità che richiamano una dimensione dell'esistenza umana fatta anche di «limiti» - la malattia, la vecchiaia, la morte, la demenza - che un'antropologia marxista deve - secondo Fortini - accogliere ed elaborare, deve, in altre parole, assumere su di sé, pena uno scadimento deterministico del marxismo stesso.

«Come per i classici della letteratura, - scrive Dalmas - siano essi Kafka o Leopardi, la lettura vera, che continua a mantenerli vivi, non è quella che li trasforma in monumenti degni di resistere alle ingiurie del tempo o quella che tenta una loro rinascita artificiale in nuove opere, tramite le più diverse tecniche dell'intertestualità, ma quella verifica che prende sul serio le loro intenzioni e le loro verità, per criticarle, ma anche per assumerle nella scelta di una tradizione che significa sempre proposta per il futuro, così è anche per quanto riguarda la Bibbia. Le parole degli Evangeli (in primo luogo quello di Matteo), di Paolo e dei profeti, che costituiscono i tre fuochi intorno ai quali ruotano principalmente la lettura e il pensiero di Fortini, possono essere riprese e riscritte, non per nobilitare od abbellire un testo, ma soltanto se, contrastando con gli elementi vicini o paradossalmente confermandoli, sprigionano una inattesa riserva di senso».

Il compimento di ciò che non è stato mantenuto è per Fortini il comunismo e la sua lettura del mondo è quella del marxismo. È importante non dimenticare tutto questo, per non scadere in letture equivoche delle sue componenti religiose. Nessuna concessione, quindi, a spiritualismi al servizio dei potenti, ma rivendicazione, spesso, anche di una dimensione materialistica della religione, in particolare di quella cattolica considerata la più «realista» («i pani e i pesci non si moltiplicano senza i fornai, i pescatori e chi trascina le ceste»; la Vulgata è stata «l'operazione più maoista che il cristianesimo abbia mai compiuto»).


L'inconfessata contraddizione


L'uso totalizzante e mistificatorio della religione, che maschera le contraddizioni socioeconomiche del mondo sarà d'altronde un elemento molto presente a Franco Fortini. Un'attitudine critica che aiuta a comprendere, in un momento in cui i progetti di trasformazione della società non godono certo di grande fortuna, l'insorgere dei fondamentalismi. «Mi sono reso conto, - scrive nell'aprile 1989 in occasione di un viaggio a Gerusalemme - per la prima volta, di come la maggior parte della mia esistenza intellettuale, nel cinquantennio trascorso, avesse impiegato di continuo metafore di origine religiosa, anzi, non solo metafore ma modi di interpretazione religiosa del mondo, contro il progressismo laico e razionalistico della mia medesima parte politica, mentre la realtà del mondo veniva sempre più producendo, massime nell'ultimo ventennio e sotto le apparenze di un inveramento delle mie speranze, una condizione generalizzata di sporcizia spiritualistica e mistica. Dico sporcizia perché è qualcosa che si accorda col potere, anzi che tende ad identificarsi con quello per riceverne benefici, come il Monarchia sapeva già sette secoli fa; e a vivere così nella menzogna di una inconfessata contraddizione».

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