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machina

Contronarrazioni. La crescita illimitata è irrinunciabile?

di Alberto Ziparo

0e99dc 0f4f8215543f48db9824a86e135caa03mv2Le risposte che la realtà fornisce alla domanda posta nel titolo – si può rinunciare alla crescita illimitata? – appaiono inequivocabili anche alla luce della pandemia in atto: non solo si può, ma si deve abbandonare il paradigma della crescita illimitata.

La crescente accelerazione della crisi climatico-ambientale e i disastri conseguenti, basterebbero da soli a significare un drastico mutamento di rotta. Ad essi tuttavia sono da aggiungere altri «guai di fase»: guerre, povertà e iniquità sociale, nuove migrazioni epocali, degrado e distruzione di quote crescenti di territorio, dissesti ecologici diffusi, invivibilità delle iperurbanizzazioni, riapparizione di problemi socio-culturali già sconfitti dalla storia del novecento – fascismi, razzismi, paura del diverso, disagi diffusi collettivi ed individuali. Il tutto è aggravato dalla profonda crisi delle forme politico-istituzionali che erano emerse nel novecento: se il «comunismo realizzato» è stato sconfitto innanzitutto dalle proprie rigidità e chiusure e dalle sue applicazioni burocratizzate, degenerate spesso in potere assoluto, imperiale e devastante; le democrazie liberali sono state via via stravolte dal loro degradarsi in iperliberismo, ulteriormente aggravato dalla pervasività dell’attuale finanziarizzazione globalizzata, che ha fagocitato nel tempo economia e politica.

Fino a una situazione paradossale in cui un numero limitatissimo di reali e consistenti apparati dirigenti – le direzioni delle grandi agenzie finanziarie, costituite spesso da un numero limitatissimo di soggetti gratificati – sono in grado di controllare e determinare scelte e strategie di istituzioni economiche e politiche a livello planetario. E quindi di imporre direttive generalizzate di portata globale che ricadono e condizionano i diversi contesti. Ciò comporta enormi benefici economici e sociali per i pochissimi controllori; ma i problemi ricordati in apertura per il resto della società.

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effimera

“Verso un’economia di merda”

In ricordo di David Graeber

di Franco Berardi (Bifo)

David Graeber 1200x800Conobbi David a Sapporo, nell’anno 2008 nella palestra dove si teneva la riunione iniziale delle giornate di contro-summit, mentre il G8 si riuniva in qualche luogo iper-protetto della città capitale dell’Hokkaido. Eravamo arrivati da poche ore, io e Claudia dall’Italia, David da Londra, e avevamo un sonno bestiale. Mentre i compagni giapponesi facevano i discorsini introduttivi al contro-summit, David si stese per terra e si addormentò per un po’.

Quando la riunione si concluse lui si alzò tutto stropicciato e ce ne andammo all’Hotel dove eravamo ospitati, o per meglio dire inscatolati. Ma la sera bussò alla nostra porta e ci chiese se avevamo qualcosa contro il mal di pancia. Avevamo quel che occorreva e lui si fermò per un’oretta a raccontarci quando era stato in Madagascar, e la percezione del tempo nella cultura africana e il fatto che è inutile darsi appuntamento qui o là tanto nessuno va mai agli appuntamenti, si dice tanto per dire allora ci vediamo alle tre al caffè, poi è inutile che ci vai tanto non ci trovi nessuno. Magari puoi fermarti lì in attesa che prima o poi quello con cui avevi preso appuntamento passi di lì casualmente e allora sai che festa, che gioia, che fortuna vederti.

Nel settembre del 2008 (ci conoscevamo da poco) mentre crollava la Lehman Brothers e altri colossi barcollavano, David mi mandò un messaggio che diceva: Non so se ho le traveggole ma mi sembra di capire che il capitalismo è finito.

Poi ci rivedemmo a New York con il nostro comune amico Sabu Kosho. E poi ci rivedemmo a Londra un paio di volte. L’ultima volta che ci siamo visti è stato un anno fa. E’ venuto a Bologna con Nika, e io li ho portati a vedere il Compianto di Niccolò dell’Arca nella chiesa di Santa Maria della Vita.

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la citta futura

«La tecnologia verde non esiste»

Simone Rossi intervista Jeff Gibbs

Planet of the Humans pone domande difficili sul fallimento del movimento ambientalista per fermare il cambiamento climatico e salvare il pianeta. Per cercare una risposta intervistiamo il regista

fogliaRilasciato alla vigilia del 50° anniversario della Giornata della Terra e nel bel mezzo della pandemia globale causata dal Sars-Cov-2, Planet of the Humans ci racconta come il movimento ambientalista ha perso la sua battaglia facendosi convincere che pannelli solari e mulini a vento ci avrebbero salvato e cedendo agli interessi di Wall Street.

Per questi motivi, nessuna sorpresa che il film abbia generato polemiche. È stato criticato come parzialmente obsoleto e fuorviante e alcuni lo hanno accusato di distorcere le energie rinnovabili e di propagandare un “malthusianesimo anti-umano”.

Per fugare ogni dubbio abbiamo deciso di intervistare il regista e sceneggiatore del film, Jeff Gibbs.

Nato a Flint, nel Michigan, Jeff lavora da tempo come collaboratore di Michael Moore. Il primo film a cui ha lavorato è stato “Bowling for Columbine” e ha prodotto scene cult tra cui “la banca che ti dà una pistola”, “cacciatore di cani” e “Michigan Militia”. Dopo il successo di “Bowling for Columbine”, Jeff è diventato co-produttore di “Fahrenheit 9/11”, il documentario campione di incassi di tutti i tempi. Jeff ha anche scritto la colonna sonora originale di entrambi i film. Da “Fahrenheit 9/11”, sebbene si sia preso una pausa occasionale per produrre altri film tra cui il documentario di Dixie Chicks “Shut Up and Sing”, Jeff è stato singolarmente ossessionato dal destino della terra e dell'umanità.

* * * *

Domanda. Ciao Jeff. Grazie per averci concesso l’intervista. Il documentario si basa su dati scientifici. Quanto tempo è stato necessario per raccoglierli e quanto sono affidabili?

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sinistra

Introduzione a Ian Angus: Anthropocene

di Giuseppe Sottile

GMO are an ‘invention’ of corporations, and therefore can be patented and owned.
Ana Isla

Nature, too, awaits the revolution
Herbert Marcuse

copertina angusIl libro di Ian Angus è stato pubblicato nel 2016. Da allora si sono avute novità e conferme. Il 21 maggio dello scorso anno, l’Anthropocene Working Group ha formalizzato la proposta di considerare quella in cui viviamo una nuova epoca successiva all’Olocene, definita Anthropocene, il cui inizio viene datato a partire dalla metà del secolo scorso, con quella che è stata definita la «Grande accelerazione». Adesso si attende il parere di altri organismi.ii L’AWG individua questa nuova realtà cronostratigrafica in una serie di fenomeni imputabili alle recenti attività umane, che consentono di paragonare “l’umanità” ad una potente e distruttiva forza geologica.

Fondamentali cicli naturali sono stati compromessi a causa dei processi di industrializzazione ed urbanizzazione per come li abbiamo conosciuti e delle attività militari in campo nucleare, cosa che ha procurato il riscaldamento globale a cui stiamo assistendo, nonché una generale devastazione del pianeta; e molti di questi cambiamenti sembra persisteranno per millenni. La più importante traccia (primary marker) che segnala lo spartiacque tra le due epoche geologiche viene individuata nella presenza di radionuclidi dovuta alle esplosioni nucleari, che al ritmo di una ogni 9,6 giorni hanno caratterizzato il Secondo dopoguerra dal 1945 al 1988.

Intanto, vasti incendi hanno interessato la Russia, la California, l’Amazzonia e di recente in misura ancora più drammatica l’Australia, e inondazioni il Sud-Est asiatico. Circa dieci milioni di ettari di vegetazione scomparsi a causa degli incendi e si stimano un miliardo di animali morti nella sola Australia. In fondo, tutto come niente fosse.

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chefare

Quattro modi in cui l’ecologia ci fa dare di matto

di Bruno Latour*

Pubblichiamo un estratto da La sfida di Gaia di Bruno Latour (Meltemi)

53069361e984ab7fffe8c103a3bf563aNon c’è mai tregua, ogni mattina ricomincia tutto da capo. Un giorno, l’innalzamento delle acque; un altro, la sterilità del terreno; la sera, la scomparsa accelerata dei ghiacciai; dal telegiornale delle venti apprendiamo che, tra un crimine di guerra e l’altro, migliaia di specie sono destinate a scomparire prima ancora di essere state adeguatamente classificate; ogni mese, il tasso di Co2 nell’atmosfera è sempre più elevato, ancor più di quello della disoccupazione; ogni anno che passa, ci dicono, è l’anno più caldo mai registrato dalle stazioni meteorologiche; il livello dei mari non fa che innalzarsi; i litorali sono sempre più minacciati dalle tempeste di primavera; quanto all’oceano, a ogni campagna di misurazione risulta sempre più acido. È quel che i giornali definiscono vivere nell’epoca della “crisi ecologica”. Purtroppo, parlare di “crisi” sarebbe ancora un modo per darsi facili rassicurazioni, per dirsi che “passerà”, che “presto ci lasceremo alle spalle” questa crisi.

Se fosse soltanto una crisi! Se solo fosse stata semplicemente una crisi! Secondo gli specialisti, si dovrebbe parlare piuttosto di “mutazione”: eravamo abituati a un mondo; passiamo, mutiamo in un altro. Quanto all’aggettivo “ecologico”, lo utilizziamo troppo spesso, anch’esso, per rinfrancarci, per porci a una certa distanza dai problemi che ci minacciano: “Ah, state parlando di questioni ecologiche, be’, non sono cose che ci riguardano!”.

 

Una mutazione nel rapporto con il mondo

Come è già accaduto, d’altronde, nel secolo scorso, quando si parlava di “ambiente” e si designavano con questo termine gli esseri della natura considerati da lontano, al riparo di una teca di vetro. Ma oggi, siamo tutti noi – dall’interno, nell’intimità delle nostre preziose, piccole esistenze – a essere toccati, coinvolti in prima persona, dicono gli esperti, dai bollettini che ci mettono in guardia su quel che dovremmo mangiare e bere, sul nostro modo di sfruttare i terreni, di spostarci da un luogo all’altro, di vestirci.

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carmilla

La sfida di Gaia

di Alessandro Barile

Bruno Latour, La sfida di Gaia, Meltemi, 2020, pp- 420, € 24,00

ecopsicologia 770x470 1Il nuovo ultimo libro di Bruno Latour riprende una serie di conferenze tenute nel 2013 attorno al tema della “religione naturale”. Nonostante gli anni trascorsi, possiamo dire con una buona dose di certezza che i problemi rimangono attuali, e in via di peggioramento. L’azione dell’uomo sulla natura sta cambiando e l’uomo e la natura. Questo il dato assodato. Da qui, però, iniziano le incognite, per nulla confinabili entro il dibattito tra scienziati ecologisti e lobby industriali. Latour prova a ricostruire una sorta di orizzonte di senso dei fatti e della posta in gioco, attraverso l’uso della sua strumentazione dialettica fortemente visionaria, dai tratti profetici a volte utili, altre volte affaticanti. Sono d’altronde i rischi e le virtù delle narrazioni ibride, e questa si colloca volontariamente al confine tra l’antropologia, la filosofia e la sociologia. Il risultato può essere spiazzante, come onestamente segnala nella prefazione Luca Mercalli, stordito – pare – da un linguaggio e da ragionamenti a volte eterei, altre mistici. C’è un fatto che però sembra dar ragione a Latour in questo suo tentativo forse naif: scienza e cultura sono andate separandosi nel corso del secondo Novecento, ma risultano oggi talmente intrecciate tra loro che senza il lavorio epistemologico delle scienze umane non è possibile cogliere l’essenza della nostra società: divisi a forza i loro destini, la scienza si è mutata rapidamente in tecnica (peggio, in tecnologia produttiva), la cultura in una sorta di sociologia dell’inessenziale. Occorre riavvicinare i due capi della scienza, ed è il condivisibile proposito di Latour.

La vicenda del Covid, d’altronde, lo ha dimostrato: ogni discorso anti-scientifico è destinato clamorosamente a contraddirsi; viceversa, ogni aristocrazia, sia essa fondata sulla ricchezza o sulla sapienza scientifica, confligge con la democrazia e con la logica dello sviluppo umano.

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effimera

Capitalismo, razzismo, guerra, e devastazione dell’ambiente

di Angelo Baracca

173908317 de1833c3 3d4a 4d8e 9a5d 5ea12444d8e1 800x528Il bell’articolo di Bruno Gullì, «Le radici della rivolta attuale: la triplice pandemia di razzismo, Covid-19 e capitalismo dei disastri»[1], discute in termini molto efficaci “il disastroso presente, la vulnerabilità, il futuro soffocato” negli Stati Uniti di oggi, soffocati appunto dalla triplice pandemia di razzismo, Covid-19 e capitalismo dei disastri.

Apprezzo molto, fra le altre cose, la caratterizzazione della figura e del ruolo di Obama rispetto all’amministrazione Bush che lo aveva preceduto, “la continuazione di una storia di disprezzo per la vita”: la cosa che immediatamente mi torna alla mente è dopo la pretestuosa ed efferata guerra all’Iraq del 2003, quando a fronte di mezzo milione di bambini morti (e circa tre volte vittime totali) il suo Segretario di Stato, Madeleine Albright, per la prima volta una donna, interrogata se riteneva che ne fosse valsa la pena rispose con un cinismo rivoltante “we think the price is worth it”.

Proprio questo mi da l’occasione, nel mio giudizio positivo dell’articolo, per fare un appunto critico ma costruttivo, a mio avviso non di poco conto. Le “tre pandemie” discusse da Gullì costituiscono, con le conclusioni che trae, una buona base per inquadrare la situazione interna degli Stati Uniti: ma il paese si caratterizza in modo peculiare come la maggiore potenza militare del pianeta, e da qui trae la sua forza e la sua fisionomia, anche per molti aspetti della sua struttura interna, politica, sociale ed economica. I Democratici, come del resto Gullì argomenta, non hanno mai messo in discussione la politica imperiale di Washington: per le elezioni di novembre i candidati democratici che avrebbero potuto, pur tiepidamente, contrastare questa politica militare sono ormai fuori gioco, ma anche i più radicali non mettevano in discussione il ricorso alla guerra alla base della politica di dominio imperiale degli Stati Uniti.

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agendadigitale

Il neoliberismo sta uccidendo la Terra: cambiamo l’economia o perdiamo tutto

di Lelio Demichelis

La pandemia doveva essere occasione per comprendere l’importanza di una “riconversione ecologica e sociale” del sistema tecnico ed economico. Ma il mondo spinge per ripartire come prima. Senza una riflessione profonda sulle inefficienze e le irrazionalità strutturali dell’attuale capitalismo

garden wall 1080x720.jpgStiamo forse perdendo la nostra ultima grande occasione per uscire non solo dalla pandemia, ma dalla ben più grave e drammatica crisi ambientale (che stiamo dimenticando, ma che è sempre lì, attorno e davanti a noi)? Davvero possiamo dire che la pandemia è stata un “inciampo della storia”, facendo come Benedetto Croce che diceva: “Heri dicebamus“, così salutando la fine del fascismo?

“Ieri dicevamo” voleva significare, per il filosofo, che il discorso collettivo, politico e sociale andava ripreso esattamente dal punto dove lo aveva interrotto la “parentesi” mussoliniana, dimenticando che il fascismo non era stata una “parentesi”, ma qualcosa di assai più profondo (Piero Gobetti aveva scritto, vent’anni prima, che era “l’autobiografia della nazione”; oggi possiamo anche dire che è l’autobiografia non solo dell’Italia). Davvero oggi possiamo riprendere il discorso dell’economia e della tecnica esattamente dal punto dove lo ha interrotto il coronavirus?

Invece di una continuità, ci servirebbe una discontinuità con il passato. La pandemia – lo abbiamo scritto più volte anche su queste “pagine” – poteva (anzi: doveva) essere l’occasione per ripensare profondamente e radicalmente il nostro sistema produttivo e consumistico che dura ormai da tre secoli, che sembra sempre diverso ma che è sempre uguale a se stesso, che è capace di trasformarsi incessantemente trasformando incessantemente uomini e società (purché non lo si metta in discussione), ma che è incapace di uscire dalle proprie contraddizioni. Che non risolveremo certo con un “heri dicebamus”.

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sinistra

Capitalocene

di Salvatore Bravo

Sunrise Dam open pit 1L’epoca del Capitalocene è il regno della produttività e delle scissioni. Il Capitalocene con la conseguente crisi ecologica è la manifestazione più evidente di un processo che ha il suo centro nella trasformazione della natura e degli esseri umani in risorse per la valorizzazione. La natura, ma si potrebbe aggiungere anche la comunità umana, dal capitalismo regnante è giudicata “esogena” e pertanto sostanza altra, scissa dalla totalità, la cui unica finalità è di essere trasformata in valore di scambio. La scissione diviene “visione del mondo” (Weltanschauung) al punto che il soggetto si autopercepisce come abitato da due sostanze in relazione gerarchica tra di loro: res cogitans e res extensa. Il Capitalocene è il pungolo nella carne che disfa le unità per strutturare relazioni di dominio. L’esternalizzazione della natura, e dunque la separazione tra il “soggetto occidentale” e la “natura” è radicata nella relazione tra mente e corpo, la prima ridotta a solo cervello, da controllare e capire attraverso schemi anatomici applicati, il secondo a semplice corpo meccanico da modellare ed ostentare al fine di fondare relazioni di dominio e visibilità. Lo sfruttamento, in tal modo, è sistemico, niente e nessuno sfugge dalla valorizzazione. La rete della matematizzazione diviene il modello unico a cui ogni ente deve sottostare. Il dominatore in tale contesto è anche dominato, poiché si autopercepisce e si decodifica unicamente secondo parametri di ordine efficientistico e produttivo. Ogni linguaggio e visione altra è cancellata in nome della produttività. Il Capitalocene assimila energia, include per omologare. In tale processo il modello unico assimila le altre culture e visioni, mediante il fascino acritico del calcolo, della produzione, dell’eccedenza: il valore d’uso è sostituito dal valore di scambio.

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voxpopuli

Le radici dell’ecologia

di Controtempi

redongreen radici ecologia«La crisi non avviene semplicemente per il confronto diretto esterno fra società e natura: essa si traduce in formazione di contraddizioni che acutizzano e fanno esplodere antagonismi interni alla società»
M. Nobile, Merce-natura ed ecosocialismo, Massari editore, Roma 1993

1. FFF e il sentimento ecologista

Il 15 marzo 2019 decine di milioni di persone, soprattutto giovani, sono scese in piazza in tutto il mondo per manifestare contro il cambiamento climatico. Il successo di queste manifestazioni è stato replicato e addirittura superato il 24 maggio e il 27 settembre. A suo modo, il movimento nato in questi mesi è un fatto inedito nella storia contemporanea. Una mobilitazione che spontaneamente si sviluppa a livello mondiale, in modo tanto ampio e tanto trasversale, non si era avuta nemmeno in occasione delle guerre in Afghanistan e in Iraq, o, guardando a un passato più lontano, negli anni ‘60 e ‘70. È un movimento che sembra sorto dal nulla: un movimento senza un passato e venuto alla luce così, come un fungo, senza preavviso, grazie alle azioni di Greta Thunberg. Eppure l’ampiezza e il successo delle manifestazioni in tutto il mondo mostrano come un certo sentimento ecologista sia già penetrato, in sordina, in strati importanti della popolazione nel corso degli ultimi anni, e non aspettasse che un segnale per manifestarsi. Si tratta di un bagaglio di idee positivo, che però non può rimanere allo stadio di senso comune, di coscienza irriflessa, ma che al contrario è bene analizzare, sviluppare, e chiedersi quali problemi apra e quali conseguenze nasconda al proprio interno.

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resistenzealnanomondo

I loro virus, le nostre morti

di Pièces et main-d’œuvre

3 ESCHER Giorno e Notte«La speranza, al contrario di ciò che si crede,
equivale alla rassegnazione.
E vivere quello non è rassegnarsi»
Albert Camus, Noces

Le idee, lo diciamo da lustri, sono epidemiche. Circolano di testa in testa più veloci dell’elettricità. Un’idea che si appropria delle teste diventa una forza materiale, come l’acqua che mette in moto la ruota del mulino. È urgente per noi, Scimpanzé del futuro, ecologisti, cioè anti-industriali e nemici della macchinazione, rinforzare la carica virale di alcune idee messe in circolazione in questi due ultimi decenni. Per servire a ciò che potrà.

 

1) Le “malattie emergenti” sono le malattie della società industriale e della sua guerra al vivente

La società industriale, distruggendo le nostre naturali condizioni di vita, ha prodotto ciò che i medici chiamano non a caso «le malattie della civilizzazione». Cancro, obesità, diabete, malattie cardio-vascolari e neuro-degenerative, in buona sostanza. Gli umani dell’era industriale muoiono di sedentarietà, di malnutrizione e di inquinamento, quando i loro antenati contadini ed artigiani soccombevano per le malattie infettive.

Eppure è un virus che nella primavera del 2020 confina a casa propria un abitante terrestre su sette, come per un riflesso ereditato dalle ore più buie della peste e del colera.

Oltre ai più vecchi fra di noi, il virus uccide soprattutto le vittime delle «malattie della civilizzazione». Non solo l’industria produce nuovi flagelli, ma indebolisce la nostra resistenza a quelli passati. Si parla di «comorbidità», come di «coworking» e di «covettura», queste fecondazioni incrociate di cui l’industria detiene il segreto (1).

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danieladanna

Il modo di produzione informatico

di Daniela Danna

bandaLe parole di Marx a proposito dei cambiamenti del modo di produzione colpiscono oggi, agli inizi di aprile 2020, come una sassata: “A un determinato stadio del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, ovvero – ciò che ne è semplicemente l’espressione giuridica – con i rapporti di proprietà nel quadro dei quali fino ad allora si erano mosse. Da forme di sviluppo delle forze produttive, questi rapporti si convertono in loro catene. Arriva così un’epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica, l’intera immensa sovrastruttura si trascina più o meno rapidamente nel cambiamento”1.

Oggi per accomodare le nuove forze produttive è necessaria la fine della sfera della privatezza, della privacy in inglese, l’espressione con cui si intende la capacità dei singoli di sottrarsi allo sguardo degli altri, e nuove enclosures nell’ambito delle trasmissioni elettromagnetiche.

Le forze di produzione si sono infatti sviluppate (o “evolute”, come in altre traduzioni) rendendo possibile il controllo a distanza dei lavoratori. “Evolute” lo si può dire naturalmente nel senso di rendere possibili profitti maggiori, questo è in un sistema capitalistico l’unico senso del loro “sviluppo”, cioè della direzione che economia e società stanno prendendo, direzione voluta e guidata dalla classe dominante.

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resistenzealnanomondo

Primavera silenziosa

di Resistenze al nanomondo

5 1È ragionevole descrivere
una sorta di imprigionamento per mezzo di un altro
quanto descrivere qualsiasi cosa
che esiste
realmente
per mezzo di un’altra che non esiste affatto

Daniel Defoe

Perché dovremmo sopportare una dieta di veleni non del tutto nocivi, una casa in sobborghi non del tutto squallidi, una cerchia di conoscenze non del tutto ostili, il frastuono di motori non così eccessivo da renderci pazzi?
Chi dunque vorrebbe vivere in un mondo non del tutto mortale?

Rachel Carson, Primavera silenziosa

Negli anni ’60 Rachel Carson, biologa e ambientalista americana simbolo del movimento ambientalista internazionale, con il libro Primavera silenziosa lanciava una forte denuncia e un grido di allarme nei confronti dell’avvelenamento del pianeta causato dall’uso dei pesticidi e in particolare del DDT, al tempo prodotto e usato su vasta scala.

Una nocività di larghissimo uso come il DDT, usato ancora oggi anche se in forme più subdole, aveva portato a silenziare le campagne dai canti primaverili degli uccelli. Oggi, in tempi di Coronavirus, le nocività, oltre ovviamente i pesticidi, non solo sono aumentate, ma si sono trasformate in un intero sistema malato che quotidianamente quando non mette a rischio la sopravvivenza degli organismi viventi li condanna a vivere in un’esistenza tossica e sempre più sterile di biodiversità. La verità è molto semplice: noi stiamo soltanto cominciando a subire massicciamente l’effetto ritardato dell’avvelenamento chimico-nucleare-biologico-elettromagnetico cumulativo del pianeta, avvelenamento che accresce qualitativamente e quantitativamente ogni anno.

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poliscritture

«Spillover»: il libro del momento

di Donato Salzarulo

 Spillover di David Quammen Adelphi dettaglio copertina1. Ecco un libro che forse non avrei mai letto se il coronavirus non fosse venuto a turbare e a rendere infausti i nostri giorni. La curiosità mi è sorta leggendo l’articolo di Paolo Giordano sulla “matematica del contagio che ci aiuta a ragionare” (Corriere della Sera del 26 febbraio), articolo – non mi stancherò di ripeterlo – benedetto, di cristallina chiarezza, che merita di essere diffuso dappertutto, in primo luogo nelle scuole; merita di essere diffuso perché di questo virus non ci libereremo facilmente e, comunque, altri virus sconosciuti sono o potrebbero essere in agguato per la nostra specie. Quindi, è decisivo far crescere la nostra consapevolezza razionale.

Lo scrittore (e fisico, non dimentichiamolo), dopo aver accennato alla nostra fatica di accettare qualcosa di radicalmente nuovo e complesso – fatica che conosco; a scuola suggerivo spesso agli insegnanti il libro «Attesi imprevisti» per interpretare il processo d’apprendimento, che è tale soltanto se è nuovo – ricorda che quanto ci sta succedendo in questi giorni non è davvero inedito. Il letterato, che un po’ è in me, avrebbe ovviamente subito pensato a Camus, Garcia Marquez, Saramago, Manzoni, Boccaccio, Tucidide…Giordano, che pure ha vinto il premio Strega con «La solitudine dei numeri primi», riporta un brano di David Quammen (chi è costui?…) in cui racconta come nel 2003 fu domata a Singapore l’epidemia della Sars. Poi scrive:

«Spillover, il libro di Quammen, meriterebbe un articolo a sé. Basti dire, qui, che è il modo migliore per comprendere le varie sfaccettature, la complessità per l’appunto, di questa epidemia. Per non viverla come una strana eccezione o un flagello divino. Per metterla in relazione ad altri disastri ecologici del nostro tempo, come la deforestazione, la cancellazione degli ecosistemi, la globalizzazione e il cambiamento climatico stesso. E per entrare, addirittura, nella mente del virus, decifrarne le strategie, intuire perché la specie umana sia diventata così golosa per ogni patogeno in circolazione.

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scienzainrete

Aids, Hendra, Nipah, Ebola, Lyme, Sars, Mers, Covid…

di Laura Scillitani

Deforestazione e cambiamenti climatici stanno trasformando profondamente gli ecosistemi e creano un'interfaccia innaturale tra essere umano e animali. Ma la salute dell'ambiente è legata a doppio filo a quella della nostra specie. Laura Scillitani ripercorre i meccanismi per i quali la pressione antropica - e i cambiamenti climatici - favoriscono l'insorgenza di alcune malattie e altera le dinamiche della trasmissione di patogeni

deforestation 351474 1280 1“Quando l’epidemia sarà finita torneremo alla vita di prima”, ci ripetiamo come un mantra in questi giorni di reclusione forzata in casa, mentre osserviamo la primavera avanzare oltre le nostre finestre. In realtà, se volessimo trarre un beneficio dalle avversità, dovremmo inquadrare ciò che è accaduto in una cornice più ampia. Covid-19 è l’ennesima dimostrazione di quanto la nostra sopravvivenza sia strettamente legata alla tutela della natura e alla integrità della biosfera.

L’Organizzazione mondiale della sanità stima che nel mondo muoiano 4,2 milioni di persone all’anno a causa dell’inquinamento atmosferico, e considera i cambiamenti climatici come una delle maggiori minacce, stimando che dal 2030 si potrebbero verificare almeno 250 mila morti all'anno. L’attuale tasso di crescita della popolazione è esponenziale (7,7 miliardi di persone secondo l’ultima stima), e di conseguenza aumenta in proporzione la domanda di beni e servizi. Gli ecosistemi sono sottoposti a una trasformazione profonda, tale che il periodo attuale è stato considerato una nuova era geologica, l’Antropocene. Un ambiente alterato non garantisce più i servizi ecosistemici (ad esempio aria respirabile, acqua potabile, suolo fertile), e può compromettere la salute umana anche facilitando la trasmissione di agenti patogeni nuovi per l’uomo, e il diffondersi di epidemie come quella che stiamo vivendo.