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La decrescita secondo i banchieri

di Mario Pezzella

Dovremo subire una nuova rivoluzione passiva, dopo quella che ha colpito il termine federalismo, e sentiremo parlare di decrescita da parte dei nuovi poteri? Una decrescita ridotta alla miseria condivisa da quasi tutti e all’arricchimento folgorante di pochissimi?

Nel suo significato originario, decrescita non significava pauperismo, austerità e regressione,  ma una diversa qualità della produzione e dei consumi, capace di rispettare le risorse naturali e di impedirne la distruzione. Il termine sta ora subendo una vera e propria “rivoluzione passiva”, ed è diventato un sinonimo della depressione che le manovre finanziarie stanno imponendo ai paesi deboli dell’Europa del Sud. In una possibile spartizione coloniale, la “decrescita” è riservata alla maggioranza dei popoli del Mediterraneo, mentre la “crescita” è l’ossessivo mantra dei padroni dell’Europa del Nord e delle élites loro complici. I due termini, invece di opporsi, come sembrava fino a qualche tempo fa, vengono a coesistere nella composizione di una nuova forma di società autoritaria. La depressione alla base della piramide è necessaria, perché lo sviluppo dei profitti continui al suo vertice.

In questo contesto, della parola decrescita si sta accentuando il senso negativo e privativo, invece che quello positivo e trasformativo: è comunque importante ricordare, al di là del termine, il suo significato: che – almeno per me – si identificava con l’ “arresto” di un modo di produzione distruttivo e la “svolta” verso una qualità intensiva della vita.

Questa non prevede il ritorno a uno stato primitivo o premoderno, non la cancellazione della tecnica, ma il suo affinamento e il superamento del carattere catastrofico ad essa imposto dal capitalismo.

Scriveva Benjamin nelle Tesi sul concetto di storia che l’esaltazione del lavoro industriale e della sua natura intrinsecamente emancipatoria “non si sofferma a lungo sulla questione di come il prodotto del lavoro agisca sui lavoratori stessi finché essi non possono disporne: vuol tenere conto solo dei progressi del dominio della natura, non dei regressi della società. Esso mostra già i tratti tecnocratici che più tardi s’incontreranno nel fascismo” [1].

Benjamin non è un nemico della tecnica in quanto tale: nella stessa tesi, all’idea di un illimitato sfruttamento della natura, che si ritorce contro la sopravvivenza  dell’umano, si oppone l’immagine di una tecnica, che, invece di distruggere il cosmo o usarlo come un inerte materiale di dominio, lo considera come un grembo in cui sono in germe inedite creazioni. Alla tecnica come sfruttamento si oppone la tecnica come liberazione di forze latenti, che attendono l’intervento dell’uomo per nascere e liberarsi. Benjamin pensava a un lavoro capace di sgravare la natura delle creazioni “sopite nel suo grembo”, senza esaurirne le risorse in modo estremo e distruttivo.

Nell’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Benjamin distingue due forme di tecnica: una è dominata da un’intenzione arcaica, simile a quella della magia, diretta al dominio della natura e alla volontà di potenza su di essa [2]. Essa era giustificata fin quando la natura era percepita come una potenza ostile sovrastante e invincibile; diviene tuttavia sempre più unilaterale e rischia di esaurire le risorse elementari della vita. Esiste invece una seconda forma di tecnica, che tende a sviluppare un rapporto armonico tra l’umanità e la natura; essa tende – come si dice nell’edizione francese dell’opera – a un gioco armonico, a un “jeu armonien” [3], che riguarda anche il rapporto reciproco degli uomini, e questo termine è ispirato direttamente dalle utopie di Fourier.

Esso sospende dunque l’intenzione magica della volontà di potenza, caratteristica della “prima tecnica”, e si realizza grazie a una “seconda tecnica”, non più finalizzata necessariamente allo sviluppo e all’incremento delle quantità prodotte, ma alla qualità delle relazioni umane fra produttori. Questa è fondata su un limite accettato nel rapporto con la natura, che non viene cancellata, ma intensificata, rispettandone le energie primarie ed elementari. Di qui le conseguenze fantastiche che Fourier attribuiva a questo tipo di tecnica: “Tutto ciò illustra un lavoro che, ben lontano dallo sfruttare la natura, è in grado di sgravarla delle creazioni, che, in quanto possibili, sono sopite nel suo grembo” [4].

Nell’ultimo aforisma di A senso unico, Benjamin mette in rilievo il pericolo estremo che l’umanità corre restando legata alla “prima tecnica” [5]. In effetti la logica dello sviluppo e dell’incremento illimitato di potenza conduce alla guerra, che di essa rappresenta l’intensificazione inevitabile. La storia della tecnica è segnata da snodi discontinui e decisivi, in cui viene operata una decisione a favore dell’una o dell’altra delle due forme. In effetti il passaggio dalla “prima” alla “seconda” tecnica, dalla necessità alla libertà, non ha in se stesso nulla di necessario; ed anzi le due concezioni possono allontanarsi in modo irrimediabile l’una dall’altra. L’opzione per la “seconda” tecnica è compito proprio della decisione politica, ed essa dipende dai rapporti di forza, dallo stato della lotta di classe, e dal prevalere – o men o- del principio d’uguaglianza su quello di dissimetria e di padronanza.

Per queste ragioni, Benjamin descrive l’accettazione dello sfruttamento della natura operata dalla socialdemocrazia e dal marxismo ortodosso come un tradimento e come la premessa per la tecnicizzazione e la burocratizzazione della società stessa. Il dominio della “prima tecnica” induce infatti alla trasformazione in macchina funzionale e burocratica del corpo sociale, alla costituzione di un “apparato incontrollabile” [6], che prolifera in tutte le forme di totalitarismo. Benjamin rifiuta una concezione semplicisticamente progressiva delle forze produttive; certo, esse contengono in sé una possibilità di liberazione della percezione e delle facoltà umane, purché si operi il salto e la discontinuità tra la prima e la seconda forma di tecnica. Nessun progresso automatico e necessario porta dallo sviluppo delle forze produttive, quali sono attualmente, alla liberazione dal lavoro e dallo sfruttamento, neppure nell’ipotesi di un regime che abolisca la proprietà privata dei mezzi di produzione.

L’“arresto” di una tecnica asservita al profitto, alla quantità del valore di scambio, allo sfruttamento del lavoro salariato, diviene così la premessa di una “svolta” verso un diverso consumo basato sulla qualità e sull’intensità vitale dei produttori e dei prodotti. Perdere qualcosa nella quantità del consumo, esaltando invece la qualità di ciò che si consuma, dell’ambiente, e dei soggetti che vivono insieme in un “comune”: così proporrei di intendere il termine decrescita, in un modo di produzione che non ha niente di sacrificale o di regressivo, ma che intensifica il “vivere bene”.

 
[1] Tesi, p. 41.
[2] “Tuttavia va qui osservato che il ‘dominio della natura’ definisce l’obiettivo della seconda tecnica solo in modo estremamente discutibile; esso lo definisce dal punto di vista della prima tecnica. La prima ha realmente l’intenzione di dominare la natura; la seconda, invece, mira piuttosto a un’interazione tra natura e umanità”.  W. Benjamin,  Opere complete, vol. VI, Einaudi, Torino 2004, p. 280. Si tratta della prima stesura del saggio, almeno nella numerazione seguita dall’edizione italiana, che è alla base della versione francese, l’unica pubblicata in vita di Benjamin. Per la complessa vicenda dell’opera, cfr. p. 571 e sgg.
[3] Ivi, nota 1 a p. 532.
[4] Tesi, p. 41.
[5] “Ma poiché l’avidità di profitti della classe dominante contava di soddisfarsi a spese di essa, la tecnica ha tradito l’umanità e ha trasformato il letto nuziale in un mare di sangue”; invece essa dovrebbe essere “non dominio della natura, dominio del rapporto tra natura e umanità”. W. Benjamin, Opere complete, vol. II, Einaudi, Torino  2001, p. 462.
[6] Tesi, p. 39.

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