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marx xxi

Nuovi rigurgiti dell’imperialismo straccione

di Giuseppe Amata

md30504836261.jpg1. La definizione di “imperialismo straccione”, come è sin troppo noto, è stata di Lenin, in riferimento alle mire espansionistiche del capitalismo italiano verso la mitteleuropa e i balcani partecipando alla Grande guerra. Straccione, perché il suo sviluppo era iniziato con ritardo rispetto a quello degli altri Stati imperialistici (Inghilterra, Francia, Stati Uniti, Giappone, Germania, Austria e anche Turchia) e avvenuto con eccessivo protezionismo e soprattutto sfruttando in modo selvaggio, dopo l’Unità, il Mezzogiorno, del quale analizzarono superficialmente alcune cause prima Gaetano Salvemini e Guido Dorso e dopo, con un’analisi storica ed economica molto approfondita, Gramsci, il quale ha messo in risalto la questione contadina, quella vaticana e la grande disgregazione del tessuto sociale che ne è scaturita con il drenaggio e il trasferimento di forza-lavoro (migrazione interna da Sud a Nord ed estera verso le Americhe e l’Australia) a basso costo, con la crisi delle piccole attività imprenditoriali nel settore zolfifero in seguito alla scoperta negli Stati Uniti di procedimenti estrattivi più economici, attività che a loro volta si basavano, oltre che su salari di fame, impiegando migliaia di ragazzini (i carusi) al di sotto dei quattordici anni nel trasporto del materiale estrattivo in superficie e nelle attività collaterali, quando in molti Paesi europei il lavoro minorile era espressamente vietato dalle rispettive legislazioni; nonché soppiantando l’industria artigianale nel settore della lavorazione della seta e delle costruzioni legnose (piccoli cantieri navali per barconi da pesca e da trasporto, mobilifici e arredi, sviluppatisi nel tempo per la bravura e abilità di chi vi lavorava) per favorire la grande industria tessile del Piemonte e le industrie del Nord in generale; infine raccattando i risparmi della piccola borghesia urbana e rurale a favore delle grandi banche.

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fuoricollana

Il Sud Africa e il dovere di prevenire il genocidio

di Stefano Bellucci*

israele 1 690x362.jpgSe le parole hanno un senso, gli stati non sono i governi e le nazioni non sono gli stati. Israele è uno stato ma la nazione israeliana non è il governo che guida il suo stato. Le accuse del Sud Africa al governo israeliano non sono un atto contro gli ebrei o contro lo stato di Israele, che anch’essi non sono la stessa cosa. La richiesta del governo del Sud Africa alla Corte internazionale di giustizia di adottare misure cautelari nei confronti di Israele affinché il suo governo non attui un genocidio a Gaza è stata accolta favorevolmente dalla Corte stessa.

 

L’ANC, razzismo e genocidio

Il procedimento per evitare un genocidio istituito dal governo del Sud Africa a guida African National Congress (ANC) è rivolto al governo di emergenza nazionale guidato da Benjamin Netanyahu e non contro gli ebrei, come afferma qualche scellerato. Proprio come Hamas non è il volto di tutto il popolo palestinese, il governo israeliano non riflette il volere di tutta la nazione, che comprende anche arabi, musulmani e cristiani, non ce lo dimentichiamo. Il governo d’emergenza israeliano, infatti, comprende tutta una serie di piccoli partiti espressione di una galassia di destre religiose invasate e pericolose per gli israeliani stessi oltre che per i palestinesi. L’opposizione di sinistra è piccola ma esiste in Israele ed è formata dai laburisti e dai comunisti di Hadash.

Il Sud Africa ha un governo guidato dall’ANC, il partito di Nelson Mandela, ovvero dell’africano più popolare del ventesimo secolo. L’ANC è un partito di sinistra, anche se lo è solo sul piano sociale e non più su quello economico, dato che dopo trent’anni al potere il Sud Africa è uno dei paesi africani con i più alti tassi di disuguaglianza e criminalità del continente.

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futurasocieta.png

Venezuela: il 2 di febbraio inizia il sogno bolivariano

di Geraldina Colotti

hugo chavez homage in la habana cuba.jpg“Nel centenario della morte di Lenin, si può intendere, seguire e apprezzare lo sforzo per richiamare la storia, come maestra di lotta e di vita, che compie costantemente la rivoluzione bolivariana, e prima ancora la rivoluzione cubana.”

Se la storia non viene ridotta a museo, date e ricorrenze ricordano la lotta delle classi subalterne, che ne hanno costruito o subito i corsi e ricorsi. Se la storia non viene ridotta a parodia, celebrare momenti e figure che ne hanno interpretato il senso, anticipandone salti e rotture, aggiunge nuove pagine al libro del futuro. Innalza nuove bandiere.

Se la storia non viene consegnata ai tribunali o agli specialisti in complotti e dietrologie, come accade nella “civilissima” Europa, anche dalle sconfitte i giovani possono innalzare nuove bandiere.

È così che, nel centenario della morte di Lenin, si può intendere, seguire e apprezzare, lo sforzo per richiamare la storia, come maestra di lotta e di vita, che compie costantemente la rivoluzione bolivariana, e prima ancora la rivoluzione cubana, che si è inserita nel corso di quelle venute prima. È così che si può intendere, come ogni anno, l’omaggio a un febbraio punteggiato di rivolte, di orgoglio e di vittorie. Un omaggio non rituale, ma una guida per l’azione, un monito a non dimenticare il 2, il 4 e il 27 di febbraio.

Il calendario degli anni imporrebbe di leggerle al contrario, a partire da quel 27 febbraio del 1989 in cui dalla rivolta del Caracazo si levò il primo grido del popolo contro il neoliberismo, autoproclamatosi allora come unica via dopo la caduta del Muro di Berlino – che anticipava la fine dei 70 anni di grande paura provati dalla borghesia.

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comedonchisciotte.org

Il silenzio dei dannati

di Chris Hedges – The Chris Hedges Report

Le nostre principali istituzioni umanitarie e civili, comprese le più importanti istituzioni mediche, si rifiutano di denunciare il genocidio di Israele a Gaza. Questo smaschera la loro ipocrisia e complicità

187769 md.jpgA Gaza non c’è più un sistema sanitario efficace. I neonati muoiono. Ai bambini vengono amputati gli arti senza anestesia. Migliaia di malati di cancro e di persone che hanno bisogno di dialisi non vengono curati. L’ultimo ospedale oncologico di Gaza ha cessato di funzionare. Si stima che 50.000 donne incinte non abbiano un luogo sicuro dove partorire. Vengono sottoposte a parti cesarei senza anestesia. I tassi di aborto spontaneo sono aumentati del 300% dall’inizio dell’assalto israeliano. I feriti muoiono dissanguati. Non ci sono servizi igienici né acqua pulita. Gli ospedali sono stati bombardati e bombardati. L’ospedale Nasser, uno degli ultimi funzionanti a Gaza, è “prossimo al collasso“. Le cliniche e le ambulanze – 79 a Gaza e oltre 212 in Cisgiordania – sono state distrutte. Sono stati uccisi circa 400 medici, infermieri, operatori sanitari e operatori sanitari – più del totale di tutti gli operatori sanitari uccisi nei conflitti di tutto il mondo messi insieme dal 2016. Altri 100 sono stati detenuti, interrogati, picchiati e torturati o sono scomparsi ad opera dei soldati israeliani.

I soldati israeliani entrano abitualmente negli ospedali per effettuare evacuazioni forzate – mercoledì le truppe sono entrate nell’ospedale al-Amal di Khan Younis e hanno chiesto ai medici e ai palestinesi sfollati di andarsene – e per rastrellare i detenuti, compresi i feriti, i malati e il personale medico. Martedì, travestiti da operatori ospedalieri e civili, i soldati israeliani sono entrati nell’ospedale Ibn Sina di Jenin, in Cisgiordania, e hanno assassinato tre palestinesi mentre dormivano.

I tagli ai finanziamenti per l’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione dei Rifugiati Palestinesi nel Vicino Oriente (UNRWA) – punizione collettiva per il preteso coinvolgimento nell’attacco del 7 ottobre di 12 dei 13.000 operatori dell’UNRWA – accelereranno l’orrore, trasformando gli attacchi, la fame, la mancanza di assistenza sanitaria e la diffusione di malattie infettive a Gaza in un’ondata di morte.

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sinistra

Riflessioni sulla Palestina

di Comitato Antimperialista Arezzo e Collettivo Millepiani Arezzo

Manifestazione per la Palestina 3.jpeg1. Resistenza e Rivoluzione in Palestina

Il genocidio che lo Stato neocoloniale israeliano sta perpetrando sui palestinesi di Gaza e della Cisgiordania, un genocidio che strazia le sue vittime con tutta la sproporzione tecnica dei suoi mezzi offensivi, a cominciare dal calcolato piano generale – amministrativo, militare ed etnico – inflessibilmente seguito, si scontra tuttavia con un ostacolo, poiché viene contrastato, e quindi indebolito, nella sua furia genocida, dalla irriducibile Resistenza di mobilissime formazioni di fedayyin, che spuntano improvvise e che scompaiono prontamente in quelle distese di macerie che una volta erano gli edifici di Gaza. Il genocidio sta dentro una guerra implacabile: una guerra di sterminio, da una parte; una guerra di liberazione dall’altra. Questo è il senso storico e politico di quanto sta avvenendo in Palestina, dal quale non si può assolutamente prescindere, in un’azione di massa che miri a dare forza e valore all’espressione “Palestina libera”, gridata in tutte le piazze. Infatti, se non si appoggia, se non si rende visibile, se non si dà un volto politico alla “lotta di liberazione armata” del popolo palestinese, la parola d’ordine “Palestina libera” diviene semplice coreografia. Occorre pertanto rendere netto e inconfondibile il profilo della lotta di liberazione armata dei palestinesi e, contemporaneamente, occorre adoperarsi con tutte le nostre forze per conquistare le masse popolari occidentali a un deciso e completo “riconoscimento” di questa guerra popolare di liberazione. Come per la Repubblica spagnola, aggredita nel ’36 dall’imperialismo nazifascista, e per il Vietnam bombardato con il Napalm dall’imperialismo statunitense negli anni Sessanta, una mobilitazione internazionalista sostenne il peso di una lotta comune, così oggi, di fronte alla “soluzione finale” avanzante a Gaza con gli aerei e i blindati israeliani, diventano urgenti le idee e le parole d’ordine internazionaliste per sostenere fino in fondo e senza perifrasi la Resistenza palestinese.

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comuneinfo

La contro-insurrezione estesa

di Ana María Morales

immagine 2 14 1500x1536.jpgCome interpretare, a più di tre anni dalla grande sollevazione indigena e popolare dell’ottobre 2019 che era riuscita a mettere in ginocchio il governo di Quito, l’attuale esplosione di violenza in Ecuador? Il governo di Daniel Noboa ha dichiarato lo stato d’eccezione e il coprifuoco per combattere la sua guerra contro l’escalation della violenza armata dei Narcos. È noto da molto tempo, tuttavia, che la “guerra alla droga”, è una strategia opaca che ha coperto da decenni ben diversi e tremendi obiettivi elaborati dai governi degli Stati Uniti, della Colombia e del Messico, per citare solo i più rilevanti. Anche in Ecuador, naturalmente, le spettacolari esplosioni di violenza dei giorni scorsi sono il frutto di un lungo processo. Su Comune lo ha raccontato molto bene Francesco Martone nei giorni scorsi. Raquel Gutiérrez Aguilar, filosofa, matematica, femminista e molte altre cose, che insegna all’Università messicana di Puebla ma ha grandi conoscenze e una lunga esperienza di lotta in tutta l’America latina (perfino nella guerriglia katarista nella Bolivia degli anni Ottanta), proprio alla luce del confronto con la guerra al narcotraffico messicana, offre in questa intervista una interpretazione dell’attuale situazione ecuadoriana che mette in luce elementi in parte originali e di grande interesse. A cominciare dalle connessioni con la sollevazione del 2019, inquadrando lo scontro tra Stato e Narcos di queste settimane in una nuova declinazione, “estesa” o ampliata, della tradizionale tecnica di contro-insurrezione. Il fatto che un’esplosione così rilevante e acuta di una violenza – anche nelle carceri sotto il controllo dello Stato – in apparenza apolitica, sostiene Raquel, non sia in un primo momento ascrivibile a una fase di contro-insurrezione, è proprio una delle sue caratteristiche innovative, in un momento di grande caos sistemico, quella di cercare di rimanere occulta agli occhi degli analisti e della società intera. In altri termini, non si tratterebbe dell’apparente scontro di potere tra criminalità organizzata e Stato ma di una sorta di assestamento di potere tra soggetti ormai indistinguibili.

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resistenze1

Confronto tra il modo in cui l'Occidente e la Cina offrono prestiti ai Paesi in via di sviluppo

di John P. Ruehl - countercurrents.org

Le istituzioni economiche occidentali consolidate stanno affrontando una sfida formidabile da parte dei nuovi arrivati cinesi, ognuno dei quali offre strategie di prestito distinte e competitive con conseguenze di vasta portata per le infrastrutture e lo sviluppo globale

bank of china.jpgNell'ottobre 2023, nel corso delle celebrazioni per il 10° anniversario della Nuova via della seta (Belt and Road Initiative, BRI) della Cina a Pechino, i leader pakistani e cinesi hanno firmato un accordo multimiliardario per un progetto ferroviario. Come componente centrale degli sforzi della Cina per promuovere l'integrazione economica e sviluppare le infrastrutture all'estero, il Pakistan ha ricevuto un'importante assistenza allo sviluppo da Pechino attraverso il Corridoio economico Cina-Pakistan (CPEC) da 62 miliardi di dollari.

Tuttavia, anche le nazioni occidentali e le entità finanziarie hanno effettuato manovre strategiche in Asia, con il Fondo monetario internazionale (FMI) che ha approvato un prestito di 3 miliardi di dollari per il Pakistan a luglio, "salvandolo dall'insolvenza sul debito". Altri Paesi della regione stanno sperimentando una concorrenza simile. Il Bangladesh, ad esempio, ha inaugurato il Collegamento ferroviario del Ponte Padma (Padma Bridge Rail Link) legato alla BRI in ottobre e settimane dopo ha ricevuto un prestito di 395 milioni di dollari dall'UE. Nello stesso mese, lo Sri Lanka ha concluso un accordo sul debito con la Cina, mentre gli Stati Uniti hanno concesso un prestito di 553 milioni di dollari per la costruzione di un porto a Colombo all'inizio di novembre.

Con l'aumento della competizione per le infrastrutture e gli investimenti negli ultimi anni, si sono intensificati gli stalli tra i finanziatori occidentali e cinesi per la ristrutturazione del debito e gli sgravi. I creditori esitano a offrire pacchetti di sgravi, temendo che la concessione di un creditore possa consentire al Paese debitore di utilizzare il denaro degli sgravi per pagare gli altri. Queste impasse sottolineano le sfide che il sistema finanziario dominato dall'Occidente da decenni e le iniziative di prestito devono affrontare.

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comuneinfo

La Striscia di terra bruciata

di Joshua Frank

immagine 2 11.jpgDopo aver abbattuto le persone e le case, c’è da avvelenare la terra e l’acqua. Ci penseranno l’utilizzo del fosforo bianco, l’inquinamento delle falde e l’abbattimento degli ulivi. Come rendere Gaza, una volta conclusa la campagna di sterminio, un angolo del mondo invivibile anche per le generazioni palestinesi a venire. Ci vorranno almeno cento anni per eliminare gli effetti ambientali di questa guerra.

* * * *

Su una pittoresca spiaggia nel centro di Gaza, 1.600 metri a Nord del campo profughi di Al-Shati, ormai raso al suolo, lunghi tubi neri serpeggiano attraverso colline di sabbia bianca prima di scomparire sottoterra. Un’immagine rilasciata dalle Forze di Difesa Israeliane (IDF) mostra decine di soldati che posano condutture e installano quelle che sembrano essere stazioni di pompaggio mobili che devono prelevare l’acqua dal Mar Mediterraneo e convogliarla nei tunnel sotterranei. Il piano, secondo vari rapporti, è quello di allagare la vasta rete di gallerie e tunnel sotterranei che Hamas avrebbe costruito e utilizzato per svolgere le sue operazioni.

“Non parlerò dei dettagli, ma includono esplosivi per distruggere e altri mezzi per impedire agli agenti di Hamas di utilizzare i tunnel per danneggiare i nostri soldati”, ha detto il Capo di Stato Maggiore dell’IDF, il Tenente Generale Herzi Halevi. “Qualsiasi mezzo che ci dia un vantaggio sul nemico che usa i tunnel, privandolo di questa risorsa, è un mezzo che stiamo valutando di utilizzare. Questo è un buon piano”.

Anche se Israele sta sperimentando la sua strategia di allagamento, non è la prima volta che i tunnel di Hamas vengono sabotati avvalendosi dell’acqua di mare.

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linterferenza

Multipolarimo, socialismo e decolonizzazione del mondo

di Antonio Castronovi

gettyimages 127966916 1024x1024.jpg“Nel mondo che emerge, un mondo fatto
di conflitti etnici scontri di civiltà,
la convinzione occidentale dell’universalità
della propria cultura comporta tre problemi:
è falsa, è immorale, è pericolosa…
l’imperialismo è la conseguenza
logica e necessaria dell’universalismo.”
(S. P. Huntington: Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale).

Il mondo è scosso come non mai da un moto tellurico che sta rompendo gli ingiusti “equilibri” secolari ereditati dal colonialismo occidentale che ha saccheggiato, depredato e colonizzato interi continenti: dall’Africa all’Asia, dalle Americhe all’Australia. Interi popoli stanno riemergendo oggi dall’oscurità della storia e dalla marginalità, e stanno ritrovando le vie del proprio riscatto e della propria indipendenza e sovranità, accelerando la tendenza al multipolarismo.

La frattura che ha provocato questo evento è stata causata dalla decisione coraggiosa della Russia di non sottostare alle provocazioni della NATO di voler fare dell’Ucraina un avamposto anti-russo, minacciandone così la sicurezza. La guerra che ne è seguita sta mettendo in crisi l’ordine unipolare USA nel mondo, accelerando le spinte anticoloniali che si stanno liberando dall’egemonismo occidentale in Africa, in Asia, nel Medio Oriente, in America Latina.

Sta prendendo sempre più forma un nuovo ordine mondiale multipolare, con nuove istituzioni, nuovi rapporti di cooperazione tra Stati e paesi, con nuovi e diversi valori alternativi e contrapposti a quelli neo liberali.

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iltascabile

Oltre la Françafrique

I colpi di Stato in Africa nel processo di decolonizzazione

di Gabriele Santoro

ènjuhg.jpegNei venti anni successivi all’indipendenza, ottenuta nel 1960, l’Alto Volta (dal 1984 Burkina Faso) vide tre colpi di Stato. Dopo quello del 1980 iniziò l’ascesa del militare e politico rivoluzionario Thomas Noël Isidore Sankara, classe 1949, il Presidente più giovane che l’Africa abbia conosciuto. Nominato Capitano, poi segretario di Stato per l’informazione, si distingueva spesso dalla condotta governativa quando questa avversava il popolo. Conquistavano il suo linguaggio coerente nel tempo con i comportamenti, la creatività, l’energia che sostanziarono un immaginario, quello del riscatto antimperialista dei vinti, che sostenne, seppure in assenza di libere elezioni, la sua scalata al vertice dello Stato.

“Osiamo inventare l’avvenire” sosteneva Sankara e non era semplice farlo nel secondo Paese africano più povero, dove l’aspettativa di vita non raggiungeva i quarant’anni. Non era semplice denunciare il fallimento degli stati postcoloniali, creati in quella regione del continente sotto la forte influenza francese, divenuti delle “democrature” segnate da regimi gerontocratici e prive di alcun contrappeso nei poteri statuali. Uno degli elementi più interessanti della breve e intensa vicenda sankarista fu proprio la messa in discussione del paradigma della Françafrique, perpetuatosi anche dopo il 1960, che è tuttora una questione politica e sociale aperta. Negli ultimi tre anni cinque paesi francofoni hanno vissuto colpi di stato militari: Guinea, Mali, Burkina Faso, Niger e da ultimo il Gabon.

Nel giorno della liberazione del Mali, Charles De Gaulle aveva ammonito: “L’indipendenza reale, l’indipendenza totale non appartiene a nessuno. Non c’è politica possibile senza cooperazione”.

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seminaredomande

Da vent’anni li aiutiamo a compiere i peggiori crimini

di Francesco Cappello

L’Italia è colpevolmente al fianco dei governi israeliani, in qualunque loro azione, contribuendo fattivamente alle sue reiterate criminali politiche di guerra. La scelta, ormai ventennale, di collaborare al potenziamento dell’apparato bellico israeliano ha avuto l’effetto collaterale della completa perdita di credibilità del ruolo di mediatore in Medio Oriente del nostro Paese

2d04d8e9ad2c01d7891b6c5604f35b40 1.jpegLa cooperazione tra l’industria militare italiana e quella israeliana è stata ratificata dal terzo governo Berlusconi che codificò un precedente accordo generale nella forma di memorandum di intesa, sulla cooperazione militare tra Italia e Israele, con la Legge 94 del maggio 2005, passata grazie a uno schieramento “bipartisan”. Il memorandum coinvolge i Ministeri degli Esteri e della Difesa con la piena partecipazione del Ministero dell’Università e della Ricerca. Prevede misure per promuovere gli scambi di tecnologie, formazione, reciproco addestramento (1), ricerca militare, manovre militari congiunte, nonché il reciproco trasferimento di armi e tecnologia.

L’industria militare e le forze armate del nostro Paese sono coinvolte in attività militari congiunte con Israele di cui persino il Parlamento della Repubblica Italiana non ha piena conoscenza. Siamo complici delle reiterate carneficine contro i civili palestinesi che loro chiamano guerra.

Nel luglio 2012, è stato raggiunto un nuovo accordo per l’esportazione dei sistemi militari italiani verso Israele, inclusi gli aerei M-346 consegnati alle forze armate israeliane nel luglio 2014, nel bel mezzo della criminale operazione “Margine protettivo” a Gaza (Le vittime furono circa 2300, tra cui 600 bambini e 11100 feriti). Sebbene i nuovi velivoli siano utilizzati per l’addestramento al pilotaggio dei caccia, possono anche essere armati e utilizzati per bombardare. In particolare, grazie alla loro facilità di utilizzo, possono essere utilizzati in zone urbane e durante conflitti con forze armate a basso dispiegamento di contraerea.

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comedonchisciotte.org

Il caso legale di genocidio

di Chris Hedges - chrishedges.substack.com

La Corte internazionale di giustizia potrebbe essere tutto ciò che si frappone tra i palestinesi di Gaza e il genocidio

scream.jpgL’esauriente memoria di 84 pagine presentata dal Sudafrica alla Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) che accusa Israele di genocidio è difficile da confutare. La campagna israeliana di uccisioni indiscriminate, la distruzione su larga scala di infrastrutture, tra cui abitazioni, ospedali e impianti per il trattamento dell’acqua, insieme all’uso della fame come arma, accompagnata da una retorica genocida da parte dei suoi leader politici e militari che parlano di distruggere Gaza e di eradicare i 2,3 milioni di palestinesi, sono tutte ottime ragione per arrivare alla condanna di Israele per genocidio.

Il fatto che Israele abbia diffamato il Sudafrica definendolo il “braccio legale” di Hamas esemplifica il fallimento della sua difesa, una diffamazione a cui hanno fatto eco quelli che sostengono che le manifestazioni organizzate per chiedere un cessate il fuoco e proteggere i diritti umani dei palestinesi sarebbero “antisemite”. Israele, con il suo genocidio trasmesso in diretta al mondo intero, non ha argomenti sostanziali per controbattere.

Ma questo non significa che i giudici del tribunale si pronunceranno a favore del Sudafrica. La pressione degli Stati Uniti – il Segretario di Stato Antony Blinken ha definito le accuse sudafricane “prive di merito” – sui giudici, scelti tra gli Stati membri dell’ONU, sarà intensa.

Una sentenza di genocidio è una macchia che Israele – che utilizza l’Olocausto come arma per giustificare la brutalizzazione dei palestinesi – avrebbe difficoltà a rimuovere. Sarebbe una sconfitta per l’insistenza di Israele che gli Ebrei sono le eterne vittime.

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sinistra

Il "proletariato" palestinese

Un po’ di cifre

di Alessandro Mantovani

F190224ARK006 1200x800.jpgI proclami e i comunicati della resistenza contro Israele non ne fanno menzione; per essa le sue rivendicazioni specifiche non hanno nella lotta di liberazione nazionale luogo a procedere. Parliamo del proletariato palestinese.

Per contro diverse tendenze internazionaliste occidentali danno per scontato che esista, che possa essere autonomo dal nazionalismo borghese, che debba respingere le false sirene della lotta nazionale e combattere - assieme al proletariato del Medio Oriente, incluso eventualmente quello israeliano - contro la propria borghesia, in vista della propria emancipazione1.

Esiste davvero un proletariato palestinese? E se sì, qual è il suo peso sul totale della popolazione araba della Palestina? Non è facile determinarlo, dal momento che non solo le statistiche sono incomplete ma soprattutto redatte secondo criteri di non facile lettura marxista.

Per il marxismo la classe proletaria, in quanto classe rivoluzionaria, non si definisce in base al mero fatto di percepire un salario, bensì tenendo conto di quegli elementi dinamici che fanno di uno strato sociale un fattore in grado di incidere sui rapporti tra le classi: ad esempio una maggior concentrazione sul territorio, nelle unità produttive e nei servizi conferiscono notevole influenza sociale e politica anche a gruppi relativamente poco numerosi rispetto al resto della popolazione. Il proletariato russo arrivò al potere in Russia, nel 1917, benché minoranza, perché a Pietrogrado era concentrato e forte. Un altro elemento da tenere presente è il grado di “purezza” del rapporto fra capitale e lavoro salariato. Ad esempio un salariato stagionale, ancora legato parte dell’anno all’agricoltura, differisce alquanto per mentalità da un operaio industriale. Un lavoratore dei servizi differisce da un addetto alla catena di montaggio, ecc.

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sulatesta

Palestina, i diritti negati

Alba Vastano intervista Michele Giorgio

palestina giorgio vastano.pngAlba Vastano: Prima di entrare nel tema dell’intervista, possiamo fornire ai lettori brevi informazioni  su come è avvenuto che la tua storia professionale si è intrecciata con la storia della Palestina?

Michele Giorgio: Mi sono recato a Gerusalemme per motivi di lavoro, per qualche periodo alla fine del 1989 per conto di un agenzia di stampa. Nel periodo successivo sono andato e tornato varie volte. Vivevo tra Roma e Gerusalemme. Un momento importante è stato nel periodo della guerra del Golfo del ‘91quando sono venuto qui per scoprire quello che accadeva nei territori occupati palestinesi e in Israele durante quella guerra. Poi ho cominciato a collaborare con “il Manifesto”. Sono diventato poi il corrispondente da Gerusalemme. Ho effettuato vari viaggi di lavoro per “il Manifesto” in vari paesi del Medio oriente, nel Nord Africa e in Asia centrale. Nel 2021 ho fondato con altri colleghi una rivista che si chiama “Pagine esteri.it”, rivista di approfondimento politico e culturale sugli Esteri.  

 

AV: Su quanto accaduto il 7 ottobre i media  continuano a ribadire  che la scintilla che ha scatenato il conflitto con Israele l’ha accesa Hamas con l’attentato definito  di matrice terroristica. Qual è la tua opinione, ma soprattutto, qual è la verità sul conflitto in corso e sulle dinamiche dell’escalation? 

MG: Sicuramente a Gaza  è avvenuta una grossa rappresaglia, da parte di Israele, che ha causato la morte di molti civili innocenti. Non lo affermo sulla base di un mio convincimento personale, ma sulla base di quello che sono le notizie, soprattutto sulla base di quello che riferiscono le agenzie umanitarie più importanti.

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lantidiplomatico

Israele: un “Protocollo Annibale” di massa prolungato nel tempo?

di Giacomo Gabellini

720x410c50moiufjtrx.jpgConformemente al suo ruolo di spina nel fianco del governo guidato da Benjamin Netanyahu, il quotidiano israeliano «Haaretz» è tornato nuovamente sul tema dell’inadeguatezza “sospetta” manifestata dalle forze militari e di intelligence israeliane nel corso del 7 ottobre, sollevando il delicatissimo tema relativo al cosiddetto “Protocollo Annibale”. Vale a dire una procedura operativa introdotta per impedire la riproposizione di episodi analoghi a quello verificatosi nell’estate 1986, quando Hezbollah rapì e assassinò tre soldati israeliani inquadrati nella Brigata Givati, i cui cadaveri sarebbero stati consegnati a Israele nel 1996 in cambio della restituzione dei corpi di 123 guerriglieri del Partito di Dio.

Pochi giorni dopo il rapimento, il generale Yossi Peled, il colonnello Gabi Ashkenazi – che avrebbe successivamente ricoperto gli incarichi di Capo di Stato Maggiore e ministro degli Esteri – e il colonnello Yaakov Amidror si riunirono presso il quartier generale del Comando Nord per stilare quello che si configura come uno degli ordini operativi più controversi nella storia delle forze di difesa israeliane, che definiva la condotta da tenere in caso di rapimento di uno o più soldati dell’Israeli Defense Force. «Durante un rapimento – recita la direttiva – la missione principale consiste nel salvare i nostri soldati, anche a costo di ferirli. Le armi da fuoco devono essere impiegate per eliminare i rapitori o comunque fermarli. Se un veicolo con a bordo i rapitori non si arresta, occorre bersagliarlo deliberatamente con un singolo colpo di arma da fuoco mirato contro i sequestratori, anche se ciò dovesse significare colpire i nostri soldati. In ogni caso, verrà fatto di tutto per fermare il veicolo e non lasciarlo scappare».