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mondocane

Beirut come Belgrado, Kiev, Teheran, Bengasi, Damasco

Minsk come Caracas, Roma come allora. Anzi, peggio

di Fulvio Grimaldi

rivoluzione colorataI “comunisti” neocon del Terzo Millennio e i loro “rivoluzionari”

In prima pagina, con esaltata gigantografia, titolo e occhiello che un giornale, con la tracotanza di chiamarsi “quotidiano comunista”, dovrebbe dedicare all’ottobre 1917 di Leningrado, al luglio 1789 di Parigi, al gennaio 1959 dell’Avana. E, invece, confermandosi organetto dei neocon globali, sussidiato da pubblicità turbocapitaliste e, indecentemente, da cittadini ignari depredati per questo scopo dallo Stato, celebra in tal modo il contrario di quanto chiedevano le lotte di massa in quegli eventi emancipatori.

Le rivolte in cui il giornale, peggio mimetizzato da indipendente, o di sinistra, si riconosce sono altre. Tutte di destra estrema. Quelle i cui fili dipartono dalla Vedova Nera, il mostro letale che fa tessere la sua tela a Langley, Wall Street, Pentagono, Bilderberg, Davos. Parliamo dei “rivoluzionari libici”, così omaggiati da Rossana Rossanda, dei vari “colorati” alla Otpor, dei “ribelli democratici” di Hong Kong o Portland, di “Black Lives Matter”, Me TooI e affini. E, si parva licet, delle nostrane Sardine, anch’esse fasulle e dunque di vita brevissima, rispetto a quella dei nobili pesci di cui avevano usurpato il nome.

Il modo più facile per riconoscerli è l’uniformità degli slogan, l’attrezzatura logistica omogenea e immediata, la violenza estrema e indistinta nella ricerca del caos, lo sfruttamento di rivendicazioni popolari mutate, su ordine della Cupola, in regime change attraverso il depistaggio su obiettivi che i militari chiamano “falsi scopi”. Immancabili il plauso unanime di tutta la propaganda finto-giornalistica del globalismo, il finanziamento da centrali occulte, ma per niente oscure, tipo Open Society di Soros, Fondazione Ford, Fondazione Rockefeller, National Endowment for Democracy e tante altre.

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lordinenuovo

Bielorussia: un futuro complesso tra due imperialismi in lotta tra loro

di Redazione

S Tikhanovskaya 768x461Le elezioni in Bielorussia hanno portato alla riconferma per la sesta volta consecutiva del presidente uscente Aleksandr Lukašenko, rieletto con l’80,23% dei voti.

È opportuno precisare subito che il presidente bielorusso non è un comunista, ma un “paternalista autoritario”, fautore di “un’economia di mercato socialmente orientata”. Nel 1994, anno della sua prima elezione, basò la sua campagna elettorale su un programma di lotta alla corruzione dilagante negli apparati statali e di introduzione di riforme di mercato e di privatizzazioni meno selvagge che nelle altre repubbliche ex-sovietiche.

Successivamente ha più volte ribadito la necessità di favorire e accelerare la destatalizzazione dell’economia, pur mantenendo il controllo pubblico dei grandi monopoli strategici, organizzati in forma di società per azioni, cioè di imprese capitalistiche, in cui lo stato viene ad assumere il ruolo di “capitalista collettivo”: una cosa ben diversa dalla proprietà socialista. Non stiamo parlando, quindi, di un’economia socialista pianificata, ma di un tipo di gestione della restaurazione dell’economia di mercato in maniera meno selvaggia che altrove. Un capitalismo di stato che, tuttavia, ha permesso alla Bielorussia di ottenere una buona performance economica, con la disoccupazione allo 0,5% (percentuale ben più bassa che negli USA e in tutti gli stati europei), il PIL pro capite più alto tra tutte le repubbliche ex-sovietiche, un apparato produttivo solido e funzionante per il 50% ancora nelle mani dello stato, un welfare molto più sviluppato che in altri paesi, una sanità efficiente ereditata dall’Unione Sovietica e un tenore di vita discretamente elevato. Sono queste le ragioni del relativo consenso di cui gode Lukašenko tra la popolazione.

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contropiano2

Libano: il collasso del neo-liberalismo e la prima tappa della nuova guerra fredda

di Rete Dei Comunisti

Libano botteLunedì 10 agosto il governo libanese si è dimesso a fine giornata, sei giorni dopo l’esplosione che ha devastato il porto ed il centro di Beirut ed al terzo giorno consecutivo di proteste popolari.

L’esecutivo uscente con a capo Hassan Diab era in carica da gennaio dopo le dimissioni di Saad Hariri lo scorso ottobre che erano state provocate da inedite mobilitazioni popolari per la storia recente del Libano.

Lo scorso sabato il premier nel tardo pomeriggio aveva promesso che lunedì avrebbe chiesto “elezioni anticipate”, chiarendo che sarebbe potuto rimanere in carica “per due mesi” cioè il tempo necessario affinché le forze politiche si fossero accordate per tale fine.

Ma l’effetto domino delle dimissioni “a catena” di vari ministri, la pressione popolare e le non poche interferenze straniere hanno spinto per la scelta delle dimissioni “in toto”, aprendo una fase di “vuoto politico” in una situazione sull’orlo della bancarotta economica e con classe dirigente delegittimata.

Per comprendere la situazione che si sta sviluppando nel “Paese dei Cedri” è indispensabile capire come questa sia diretta conseguenza di un modello di sviluppo al capolinea, di un sistema politico che ha portato il Libano ad essere uno “Stato Fallito”, con il concorso dell’Occidente così come delle petrol-monarchie del Golfo.

Il sistema politico di stampo confessionale sostanzialmente tuttora vigente sorto dopo la Seconda Guerra mondiale sulle ceneri del colonialismo francese, è stato costruito più in una logica di spartizione di potere tra notabili delle comunità principali, piuttosto che sulla necessità di dare rappresentanza a tutte le componenti della popolazione del complesso mosaico etnico-confessionale.

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La proiezione internazionale della Cina nello stallo degli imperialismi

di Paolo Beffa e Lorenzo Piccinini

cina stallo imperialismiIn questo articolo presenteremo una breve ricostruzione della storia della proiezione internazionale della Repubblica Popolare, per poi ripercorrere come il recente protagonismo cinese stia venendo interpretato in occidente, in particolare riguardo alle teorizzazioni di un “imperialismo” cinese.

Infine abbiamo tradotto e pubblichiamo un articolo dello studioso zimbabwiano Sam Moyo su un aspetto specifico della proiezione internazionale cinese: Prospettive riguardo le relazioni Sud-Sud: la presenza cinese in Africa.

 

1. Il contesto internazionale: lo stallo degli imperialismi

Ci troviamo ormai da decenni all’interno di una crisi sistemica del sistema sociale ed economico capitalista, che periodicamente si manifesta sotto forme diverse. Che sia come crisi finanziaria o, come stiamo vivendo in questi mesi, una crisi sanitaria globale che impatta in maniera più forte quei paesi che del libero mercato hanno fatto il proprio feticcio, la causa di fondo rimane la stessa: una disperata difficoltà a livello globale di valorizzazione degli investimenti, che spinge il capitale a cercare i profitti di cui disperatamente ha bisogno nella speculazione finanziaria, nella distruzione dell’ambiente naturale, nel saccheggio del patrimonio pubblico, nelle privatizzazioni barbariche e sregolate.

Con l’esaurirsi della spinta data dalla mondializzazione avviata dopo la caduta del muro di Berlino, questa sempre maggiore difficoltà alla valorizzazione sta portando sempre di più ad una competizione internazionale tra macro-blocchi che si fa sempre più accesa (vedi per un’analisi più approfondita http://lnx.retedeicomunisti.net/2020/01/21/dazi-monete-e-competizione-globale-lo-stallo-degli-imperialismi-3/).

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mondocane

Beirut: chi, cosa, dove, quando, perchè

Basta riavvolgere il filo

di Fulvio Grimaldi

Beirut fumo“La fiducia dell’innocente è lo strumento più utile al bugiardo” (Stephen King)

Disinformare evitando il contesto

Clicca qui per vedere l'intervista fattami da Edoardo Gagliardi di Byoblu (aprire con CTRL e clic sul link), a poche ore dalle due esplosioni che il 4 agosto hanno distrutto il porto di Beirut, ucciso circa 150 persone, ferito altre 5000 e devastato gran parte della capitale libanese. Qui si tratta di un primo giro d’orizzonte lungo le domande che, codificate un tempo dalla stampa anglosassone, un qualsiasi cronista dovrebbe porsi. Le risposte dovrebbero inserire il fatto con le sue coordinate nel suo contesto ambientale, politico, geopolitico, temporale, storico. Un’abitudine da lungo tempo persa, o piuttosto abbandonata, dalla stragrande maggioranza della stampa nazionale e occidentale, che, in omaggio agli interessi dei suoi editori e referenti politico-economici, preferisce fornire le risposte da costoro richieste. Avendo attraversato più di mezzo secolo di pratica giornalista per un notevole numero di testate stampa, radio e televisive, sono testimone di questo trapasso.

 

Libano, la preda negata

E ho potuto anche essere testimone di ciò che è culminato ora a Beirut: una storia dei popoli arabi che, liberatisi dal gioco coloniale europeo, da quel momento subiscono la ritorsione, via via più feroce e letale, degli ex-colonialisti, dei quali hanno preso la guida due nuove presenze innestate in Medioriente, Usa e Israele.

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resistenze1

Marxismo senza socialismo, socialismo senza marxismo

di Greg Godels

7d67a3c7c87129c52fa2934291f8b660 soviet art soviet unionNegli Stati Uniti è appena iniziata una crisi inedita e multiforme, e sarebbe lecito attendersi che i nostri acuti pensatori cogliessero l'occasione per offrire risposte coraggiose e originali. Di fronte alla reazione popolare di rifiuto del razzismo, all'infuriare di un virus che semina morte, alla catastrofe del sistema bipartitico e a quella che è soltato la prima ondata di un disastro economico senza precedenti, saremmo indotti a sperare nella formulazione di soluzioni radicali, in grado di rispondere a sfide altrettanto radicali.

Al contrario, molti dei più influenti pensatori della sinistra statunitense ci stanno propinando del tè annacquato - un'improbabile serie di risposte tiepide, trite e scontate. Dopo le micidiali purghe anticomuniste attuate negli Stati Uniti negli anni Cinquanta, i movimenti dei lavoratori, per la pace, per l'eguaglianza razziale e delle donne e per la giustizia economica sono stati incatenati a forza alle ideologie anarchica, liberale e socialdemocratica. Di conseguenza, il «marxismo» anticomunista occidentale può entrare nel dibattito soltanto se depurato da qualsiasi aspirazione al socialismo. E di socialismo si può discutere soltanto prescindendo dalle idee fondamentali di Marx e Lenin.

Il «marxista» forse più noto negli Stati Uniti è il professor Richard D. Wolff. Nel corso della sua carriera ha contribuito attivamente a far conoscere Marx e il marxismo. È il punto di riferimento scontato a cui si rivolgono i media quando sono in cerca di un «marxista» accessibile ed eloquente. Purtroppo, non sempre notorietà e accessibilità costituiscono una garanzia di chiarezza o di una visione coraggiosa.

Il professor Wolff ravvisa giustamente nel momento attuale - questa inedita combinazione di disastri biologici, economici, sociali e politici - un'occasione irripetibile di cambiamento. In un recente articolo (How Workers Can Win the Class War Waged Against Them, Counterpunch, 19-6-2020), Wolff offre una breve ma attendibile ricapitolazione degli eventi essenziali che hanno condotto al momento attuale, sottolineando il ruolo fondamentale della classe operaia per il suo superamento.

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lantidiplomatico

"Venezuela e guerra in Siria sono fondamentali per individuare i pacifinti"

Geraldina Colotti intervista Massimo Zucchetti

22fb87e7c470b8e91600bb3e87708c5eMassimo Zucchetti è un ingegnere nucleare italiano che ha al suo attivo una impressionante quantità di pubblicazioni specialistiche, ma anche militanti. Infatti, quando firma i suoi articoli che coniugano la precisione dei dati con una visione radicale e controcorrente rispetto alla subalternità culturale che di solito abita il mondo accademico italiano, si definisce “scienziato, comunista, disordinatore delle narrazioni tossiche del potere”.

* * * *

Che significa, Massimo, questa definizione? Qual è stato il tuo percorso professionale e come si è intrecciato con l’impegno politico?

Mi sono laureato in ingegneria nucleare magna cum laude nel 1986, ma, un mese dopo: ecco il disastro di Chernobyl! Un decennio prima, al liceo, divenni anarchico leggendo “In his own write” di John Lennon: niente Bakunin o Kropotkin, niente laurea in scienze politiche su Marcuse, purtroppo non tutti hanno nobili origini come i Grandi Padri Fondatori della Sinistra Intellettuale. L’abitudine alle discipline tecniche mi ha lasciato il colpo d’occhio e l’intuizione per capire quando dietro una bella narrazione si nasconda il nulla montato a neve, come d’uso nella sinistra, oppure si celino depositi ideali di liquami tossici e fecali, come di norma nel centro-destra-sinistra di governo. Questa specie di talento è un dono di natura e, sebbene io sia ateo, ritengo sarebbe un peccato non metterlo a frutto, un po’ come nella parabola dei talenti, appunto. Da qui discende il mio impegno come anarco-comunista, scienziato contro la guerra, ambientalista. Sono un professore universitario da ormai un trentennio, ma non sono democristiano.

 

Tu insegni anche in una prestigiosa università statunitense. Come valuti le due esperienze, come funziona negli USA?

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contropiano2

Gli Usa sono fottuti, parola di finanziere

di Claudio Conti

In calce un intervento di Maurizio Novelli

usa fottutiDare un’occhiata a quel che pensano e scrivono gli “operatori sul mercato” (finanzieri, ossia “investitori professionali”) è sempre molto interessante. Permette infatti di vedere cosa c’è al di sotto dell’oceano di pessima informazione depistante che sgorga dai media mainstream.

Per la terza volta ci ha colpito l’analisi di Maurizio Novelli, del fondo di investimento svizzero Lemanik, che con grande disinvoltura elenca problemi del capitalismo attuale senza troppi giri di parole né rassicurazioni consolanti per i non addetti ai lavori.

Il titolo, anche stavolta su Milano Finanza, è decisamente “acchiappesco”: Perché è il momento di vendere Usa allo scoperto.

Le “vendite allo scoperto” sono una tecnica di mercato finanziario con cui si vendono titoli (azioni, bond statuali o aziendali, prodotti derivati, ecc) che non si possiedono. Come si fa? Ce li si fa “prestare” a termine prefissato, con la garanzia di restituirli al prezzo che avranno a quella scadenza.

Di fatto, una volta avuti li si vende massicciamente al prezzo di oggi, quindi si provoca un’offerta esagerata di quei titoli sul mercato, dunque un abbassamento drastico del loro prezzo in modo da resituirli avendoci guadagnato la differenza tra il prezzo attuale e quello futuro abbassato scientemente.

Speculazione pura, certo, ma dagli effetti molto reali.

Ma perché un finanziere svizzero (di lingua italiana) è pronto a speculare su titoli statunitensi di ogni tipo manco fossero i Cct italiani ai tempi della lira?

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coku

Anschluss, l'ultima lezione di Vladimiro Giacché

di Leo Essen

39331100. SX318 È da poco uscita per Diarkos una nuova edizione del fortunato libro di Vladimiro Giacché «Anschluss. L’annessione». Non si tratta di un raffinato esercizio culturale (alla francese), ma di un brutale abbattimento o de-costruzione (Rückbau) di tutti i luoghi comuni sulla Germania.

Il libro racconta la storia di come uno Stato, la RDT o Germania Orientale, orgoglio industriale del blocco sovietico, sia stato annesso alla Germania Occidentale e fatto regredire ad uno stadio preindustriale.

Dopo il passaggio del rullo capitalista, nei grandi centri industriali di Lipsia, Merseburgo, Magdeburgo, Vittimberga, Halle, Bitterfeld, Eggesin erano rimasti in piedi solo la pubblica amministrazione, l’artigianato, il commercio e il turismo.

Come conseguenza dell’annessione tutti i titoli di studio e le carriere apicali, come quelle degli amministratori delegati, dei quadri industriali, dei giudici, dei maestri e dei professori, degli avvocati, eccetera, furono azzerati. Stimati luminari, come il professore universitario Horst Klinkmann, quando non furono arrestati e condannati, furono sbattuti fuori dai loro posti di lavoro. Nemmeno il regime nazista era riuscito a far peggio.

La furia liquidatoria nei confronti della RDT giunse sino al punto di far pagare ai tedeschi orientali non solo i debiti contratti dal regime precedente, ma anche debiti inesistenti.

In una ragioneria impazzita il debito verso i soci di tutte le imprese della RDT, dunque il capitale di rischio, non venne considerato come il pareggio contabile dell’attivo. L’attivo venne assimilato ai rottami ferrosi, mera sopravvenienza di archeologia industriale di valore contabile pari a zero. Mentre il passivo venne assimilato a debiti verso terzi, debiti giustificati contabilmente da insussistenze passive, ovvero da ammanchi di cassa, dovuti a ruberie e distrazioni di fondi.

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tempofertile

Dibattiti sul problema dell’imperialismo: John Smith contro David Harvey

di Alessandro Visalli

nave nel desertoLeggeremo in questo post un serrato dibattito tra un ricercatore indipendente inglese, John Smith, e il famosissimo geografo marxista David Harvey. Smith attacca il libro “La guerra perpetua[1] nel saggio “Come David Harvey nega l’imperialismo”[2], e la replica dello stesso Harvey al libro di Prabhat e Utsa Patnaik “A theory of imperialism”, che abbiamo già letto[3]. Ci sarà quindi la replica dello stesso Harvey[4] e la controreplica di Smith[5]. Inoltre, per allargare lo sguardo, presteremo attenzione all’intervista a Utsa Patnaik, “Storia agraria e imperialismo”[6] al libro di John Smith, “Imperialism in the Twenty-First Century”, vincitore del “Paul A Baran – Paul M Sweezy Memorial Award”[7], ed alla recensione di Michael Roberts[8].

Cominciamo dalla prima accusa del ricercatore di probabile orientamento trotskista all’anziano geografo. Siamo nel 2018 e John Smith è, in particolare, colpito da una frase del testo nel quale Harvey sembra cedere alla vulgata neoclassica che vede l’imperialismo superato nella fase della mondializzazione. Afferma infatti Harvey che “lo storico drenaggio di ricchezza dall’oriente verso l’Occidente, protrattosi per oltre due secoli è stato in larga parte invertito negli ultimi trent’anni”. Può sembrare in effetti una descrizione obiettiva. Ed è, di fatto, una descrizione che assumono molta parte dei marxisti occidentali[9] o “euro-marxisti”[10], in coincidenza con buona parte della letteratura economica mainstream. Eppure è di assoluta e palmare evidenza che enormi flussi di profitti sono accumulati dalle società multinazionali, per grandissima maggioranza ‘occidentali’[11], sia in patria sia, in misura maggiore, in opportuni paradisi fiscali.

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znet italy

Il nazionalista inconsapevole

di Richard Seymour

Skulls‘E’ l’economia, stupido’. Questo è stato l’impudente, ottimista slogan elettorale di Bill Clinton nel 1992. Lo slogan sembrava sintetizzare la Weltanschauung prevalente di un ordine neoliberista, una versione volgarizzata dell’”egoismo illuminato” ereditato dall’economia politica classica. Più di un quarto di secolo dopo, in mezzo al collasso neoliberista, nulla potrebbe essere maggiormente l’opposto. L’egoismo illuminato, da Londra a Mumbai, non domina più. Non è l’economia, stupido.

I Conservatori di Boris Johnson sono stati rieletti con una grande maggioranza dopo un decennio di austerità e di stagnazione dei redditi, come se Johnson non fosse stato in carica. La sola quasi sua unica promessa era stata di ‘realizzare la Brexit’, un obiettivo per il quale il 60 per cento dei votanti a favore dell’Uscita (Leave) dice che sarebbe felice di vedere danneggiata l’economia. Il 40 per cento afferma persino di essere disposto a perdere il proprio lavoro.

Queste sono minoranze, ma minoranze di milioni, sufficienti a costituire lo zoccolo duro del voto Conservatore. Gli attivisti Tory sono una minoranza ancora inferiore, ma più influente. Quando chiesto loro che cosa sacrificherebbero per ‘realizzare la Brexit’, hanno risposto chiaramente: l’economia, l’unione [Regno Unito] e persino il loro stesso partito.

Molto è stato detto dei votanti a favore della Brexit “ingannati” da promesse di maggior spesa per il Servizio Sanitario Nazionale (NHS), ma la caduta di quell’affermazione non ha danneggiato la Brexit. E in ogni caso non era su questo che la campagna per il Leave era stata condotta.

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cumpanis 

Trump e l’antimperialismo

di redazione “l’AntiDiplomatico”

Con questo editoriale inizia la collaborazione della redazione de “l’AntiDiplomatico” con “Cumpanis”

 di rocky trump e un fotomontaggio o dell egocentrismo jmvkRibadire che l’attuale inquilino della Casa Bianca, al pari dei suoi predecessori, rappresenti semplicemente gli interessi del tracotante imperialismo nordamericano può apparire un esercizio inutile, superfluo, non necessario.

Eppure, non sono pochi i sostenitori di una certa vulgata che vuole Donald Trump come un presidente arrivato in quel di Washington sulla scorta di un grande supporto popolare, contro la volontà delle élite e del cosiddetto deep state. Per questo l’onda tellurica delle forti proteste provocata dal brutale omicidio del cittadino afroamericano George Floyd, avvenuto per mano della polizia a Minneapolis, sarebbe una sorta di rivoluzione colorata nella patria delle rivoluzioni colorate organizzate all’estero, per disarcionare il tycoon newyorchese.

Ad onor del vero una certa discontinuità c’è stata. Ma questa è ravvisabile esclusivamente nel campo semantico. Di fatti concreti nemmeno l’ombra. Donald Trump si è limitato a vuoti proclami. L’ultimo esempio lo abbiamo avuto in occasione del discorso di fine anno, tenuto dal presidente, presso l’accademia militare di West Point. Davanti agli allievi Trump ha dichiarato: «Il compito del soldato statunitense non è ricostruire le nazioni straniere, ma difendere e difendere con forza la nostra nazione dai nemici stranieri. Stiamo concludendo l'era delle guerre senza fine», e poi: «Non siamo il poliziotto del mondo».

A questo punto una domanda sorge quasi spontanea: gli Stati Uniti possono davvero smettere di fare il poliziotto del mondo? La risposta è no. Glielo impedisce la natura egemonica degli stessi Stati Uniti. Per mantenere l’egemonia, gli Stati Uniti devono espandere la propria influenza all'estero.

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sbilanciamoci

Stati Uniti, la crisi è epocale

di Bruno Cartosio

Le comunità nere si sono ribellate spesso, dagli anni Sessanta fino a tutto il nuovo millennio, fino a ora. Ma questa volta è diverso, la sollevazione non è mai stata così generale, così duratura, così politicamente forte e propositiva

foto black lives matter milano09 1170x600 1Contingenze e persistenze. Tra le prime, la peggiore delle pandemie, in coincidenza con la peggiore amministrazione presidenziale delle ultime generazioni. Tra le seconde, mezzo secolo di economia politica poco meno che criminale e di dominio da parte di un piccolo ceto di plutocrati. Al fondo, una crisi sociale, in cui la continuità plurisecolare del razzismo contro gli afroamericani ha fatto corto circuito con i processi pluridecennali della sottrazione di reddito, servizi, dignità a danno degli strati medio-bassi e poveri della popolazione. I fatti delle cronache di queste ultime settimane negli Stati Uniti sono stati ambivalenti: terribili per i reiterati omicidi polizieschi di cittadini afroamericani e straordinari per l’immediatezza della risposta nera e le grandi manifestazioni di solidarietà interrazziale, intergenerazionale, intersezionale (e internazionale) che l’hanno accompagnata finora. Il movimento afroamericano è diventato una sollevazione generale contro il razzismo, l’ingiustizia sociale, Trump. Sottraiamo dunque la cronaca dalle considerazioni che seguono per cercare di fornire qualche elemento che ne spieghi le radici e le ragioni. 

Supponiamo di prendere l’ormai famoso, apodittico giudizio espresso una decina d’anni fa dal finanziere Warren Buffett, uno degli uomini più ricchi del mondo: la mia classe ha fatto la lotta di classe e l’ha vinta. Le pezze d’appoggio sono tutte implicite. Nella lingua del vincitore sono date per acquisite, note, tanto evidenti da rendere indiscutibile quel giudizio. Anche gli sconfitti potrebbero essere altrettanto sintetici. Le prove materiali della sconfitta operaia al termine di un secolo di lotta di classe sono altrettanto note, sono le stesse. Sono sotto gli occhi di tutti, stanno nella distruzione delle grandi città industriali cresciute con la seconda rivoluzione industriale, nella disgregazione delle comunità di lavoratori che le hanno abitate e rese grandi, nell’approfondimento drammatico delle disuguaglianze sociali.

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mondocane

Mentre le stelle (russe e cinesi) stanno a guardare...

di Fulvio Grimaldi

Il sultano Erdogan si riprende ciò che gli arabi gli avevano tolto... e, grazie a Giulio Regeni e ai suoi sponsor, anche di più

Al sisi putin“Viva gli sciagurati (per lo sciagurato OMS) napoletani” (Anonimo fiorentino)

Le squadre in partita

Da una parte il subimpero del sultano ottomano neo-islamista, padrino di tutto il terroristame che imperversa in Medioriente e Africa, con alle spalle l’impero tenuto in piedi dal Deep State statunitense con il corredo dei “progressisti” imperiali di Soros, di nascosto Israele e, ultimo arrivato, paradossalmente, l’Iran del “moderato” Rouhani, suo rivale in Siria e Iraq.

Dall’altra l’Egitto, maggiore potenza araba, Arabia Saudita, Emirati, il pezzo più significativo del mondo arabo, Bengasi e gran parte della Libia liberata dai jihadisti, la Russia che traccheggia, la Cina che simpatizza da molto lontano. Queste le forze che si fronteggiano oggi nella regione. Il che è individuabile al semplice osservare le mosse dei due opposti schieramenti, ma mistificato e reso ingarbugliato dai servizi mediatici offerti ai soliti attori preferiti.

 

Regeni, la leva con cui sollevare il Medioriente

Si pensi al “manifesto”, arrivato a sostenere lo psicopatico guerrafondaio Bolton contro Trump, e al suo internazionalista “de sinistra” Alberto Negri. Antiamericano da vetrina, ma anche, all’uopo, antisaudita; detesta i turchi in quanto sterminatori di curdi (dichiarati “vincitori dell’Isis” al posto dei siriani, ed effettivi ascari antisiriani degli USA)), ma oggi come oggi, detesta di più al Sisi, da amico dei russi capovolto in “cocco di Trump”. Il suo condirettore, Tommaso Di Francesco, autonominatosi, nelle more dei giudici di Roma e del Cairo, PM, giudice e, domani, boia del presidente egiziano, dichiara Giulio Regeni “barbaramente fatto uccidere dai suoi servizi segreti”.

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lamericalatina

Il fascismo in Brasile

Diario alla vigilia di un possibile colpo di stato

di Alessandro Peregalli

IMG 0320 EditarMentre il Brasile è già il secondo paese per numero di contagi di Covid-19, nonostante mantenga l’indice più basso di tamponi del Sudamerica (0.62ogni 1000 abitanti), e veleggia ormai spedito verso il secondo posto anche per numero di morti, una crisi politica sempre più acuta si innesta, e si potenzia vicendevolmente, con la crisi epidemica. Non si tratta di una semplice crisi “di governo”, è la crisi della democrazia liberale brasiliana.

Da alcuni anni, con la crescita esponenziale dell’estrema destra in tutto il mondo, si sprecano i paragoni tra il presente momento storico e quella che Eric Hobsbawm ha chiamato “Era della Catastrofe” (1914-45), e sulla possibilità o meno di parlare di fascismo contemporaneo. Il problema si pone a partire da due domande. La prima: le diverse espressioni della nuova destra, dal trumpismo negli USA al lepenismo in Francia, da Lega e FdI in Italia a Vox in Spagna, da Jair Bolsonaro in Brasile a Narenda Modi in India, da Viktor Orbán in Ungheria a Rodrigo Duterte nelle Filippine, da Tayyip Erdogan in Turchia al governo golpista ucraino, si possono tutte definire alla luce dell’espressione “neofascismo”? La seconda: laddove questi personaggi e forze politiche sono giunti al governo, hanno portato alla creazione di regimi politici fascisti?

E’ difficile dare risposte univoche a queste domande. E’ però evidente che esistono alcuni elementi comuni al di là delle specificità dei singoli contesti, considerando che anche i fascismi storici furono esperienze ben più eterogenee tra loro di quanto l’adozione di modelli “classici” faccia sembrare. E che, tanto nel caso dei fascismi storici come in quello delle nuove destre, si tratta di fenomeni che appaiono in momenti di turbolenza globale e di profonda crisi di riproduzione sociale del capitalismo.