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Rosa Luxemburg, Raul Sendic e Lenin bevono mate e discutono di potere in Uruguay
di Bollettino Culturale
Insurrezione e riflessione
Le classi dominanti latinoamericane (complici e allo stesso tempo fedeli servitori del colonialismo e dell'imperialismo) hanno sempre costruito l'immagine di un mostro spettrale e caricaturale per evocare e reprimere la ribellione delle classi popolari. Prima battezzarono quella bestia demoniaca come "cannibale indigeno" e "bighorn nero". Quindi "Giacobino assetato di sangue". Più tardi "stupratore anarchico" e "comunista mangiatore di bambini" (il pittore messicano Diego Rivera rise molto dicendo che, essendo un comunista, in Unione Sovietica provò la carne di bambino e la trovò molto gustosa). Avanzando nel tempo, quel fantasma onnipresente adottò la figura di "offensore sovversivo e apolide". Più tardi fu demonizzato come "terrorista" fino a quando non arrivò ai nostri giorni con il molto ripetuto dai media degli Stati Uniti "narco-terrorismo"...
Il filo rosso che attraversa questa prolungata demonizzazione è l'attribuzione dell'irrazionalità e della follia alle nostre ribellioni popolari. Ogni ribelle è un delirante, completamente privo di ragione e di logica.
Contrariamente a questa storia maccartista, ripetuta e riciclata fino ad oggi dalla voce del maestro, l'insurrezione in America Latina è stata più che prolifica nei suoi tentativi di riflessione, fondamento logico e argomentazione ragionata delle sue ribellioni. La tradizione della scrittura segna una chiara continuità durante l'insurrezione. Che Guevara, oltre ad essere un comandante di guerriglia e un convinto comunista internazionalista, è soprattutto uno scrittore prolifico. Il vertice più alto di un'intera tradizione di scrittura e pensiero marxista ribelle.
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«Siamo i sovversivi della diplomazia»
Geraldina Colotti intervista Jorge Arreaza
Intervista in esclusiva al ministro degli Esteri della Repubblica Bolivariana del Venezuela
Pubblichiamo questa bella e interessante intervista, ricca di spunti, realizzata in esclusiva da Geraldina Colotti a Jorge Arreaza, ministro degli Esteri della Repubblica Bolivariana del Venezuela. Durante il colloquio con la giornalista italiana il ministro venezuelano ribadisce alcuni concetti chiave della diplomazia bolivariana, forgiata da Hugo Chavez. «Con il comandante Chavez, ma possiamo dire già con Bolivar, ci configuriamo come un attore internazionale sovversivo che si oppone all’ordine economico e politico dominante», afferma Arreaza, per poi aggiungere in un altro passaggio: «Non voglio offuscare i meriti degli altri, ma la differenza tra chi si limita ad applicare il protocollo e la diplomazia di pace è che in Venezuela governa il popolo, l’essere umano, la comunità».
Il popolo venezuelano è ben cosciente di quanto affermato da Arreza e per questo difende strenuamente il proprio governo e la Rivoluzione Boliviariana. Al contrario di quanto avviene ad esempio in Ecuador dove il popolo in rivolta contro il neoliberismo è deciso a mandare a casa il governo guidato dal traditore Lenin Moreno.
Jorge Arreaza, ministro degli Esteri venezuelano, ci riceve nel suo ufficio a Caracas. Con il suo stile sobrio e incisivo, ha smascherato e schivato molte trappole tese al Venezuela a livello internazionale, evidenziando l’alto livello raggiunto dalla “diplomazia di pace” del suo paese. Gli chiediamo di spiegarci la lunga marcia del socialismo bolivariano negli organismi internazionali.
* * * *
Tu sei uno dei volti più rappresentativi del chavismo. Qual è stato il tuo percorso e come ti sei trovato ad affrontare questa difficile congiuntura internazionale?
Io ho un percorso di studi in relazioni internazionali, concluso con un dottorato a Cambridge, nel Regno Unito, sugli Studi europei, che non ho mai avuto modo di esercitare. Mi è toccato farlo nel momento più complicato per le nostre relazioni internazionali: quando gli Stati Uniti hanno iniziato a imporci misure unilaterali, sanzioni. Trump ha minacciato di ricorrere all’opzione militare una settimana dopo che ho assunto l’incarico.
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Siria: chi ha vinto, chi ha perso. E chi sono i curdi
Medioriente: yankee go home
di Fulvio Grimaldi
Cosa ne viene da Sochi
Del miscione che gli arnesi stampati e videoriprodotti del colonialismo 2.0 ci rifilano, confondendo in obnubilante simmetria rivolte contro il Potere e sommosse gestite dal Potere, da Libano e Iraq a Ecuador, Cile e Bolivia, parleremo nel prossimo articolo. Prima, ci interessa evidenziare con grande soddisfazione la rabbia da rettili pestati sulla coda con cui i media reagiscono agli esiti della soluzione (positiva, ma parziale, s’intende) che Putin, con il concorso obtorto collo di Erdogan, ha saputo imporre al branco di sbranatori della Siria. Media tra i quali riconosciamo il ruolo da mosca cocchiera al giornaletto anticomunista “il manifesto”. La vocina vernacolare del Governo Parallelo Usa (obamian-clintoniani, Intelligence, Pentagono, Wall Street, lobby talmudista), si è distinta per accanimento a stigmatizzare come imperialismo russo la difesa vincente della (quasi) integrità territoriale e della stessa sopravvivenza della Siria, aggredita e maciullata, e il ridimensionamento drastico degli appetiti degli aggressori (Turchia, illuministi coronati del Golfo, esportatori di diritti umani americani e israeliani).
Il grande lamento degli amici degli amici
Per questo pifferaio di carta, che è riuscito a trascinare nel baratro la colonna sperduta dei bambinelli di sinistra, l’esito del vertice di Sochi è una catastrofe planetaria. Catastrofe, ovviamente, per chi si riprometteva, come l’augusta fondatrice Rossanda ai tempi della Libia, uno Stato libero, sovrano, prospero ed equo cancellato dalla faccia della terra per mano di sicari tagliagole, scatenatigli contro dal meglio delle pluto-mafio-psicopatocrazie occidentali.
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Siria, Russiagate, Ucrainagate al tempo del Ministero della Verità
The Donald non va alla guerra? Impeachment!
di Fulvio Grimaldi
“La bussola va impazzita all'avventura e il calcolo dei dadi più non torna” (Eugenio Montale, “La casa del doganiere”)
Giornalisti e sinedri
Di certezze, in questo mondo di spinte e controspinte in costante e confusa moltiplicazione, che lo fanno sembrare un cesto di serpenti in fregola di libera uscita, ce ne sono poche. Ce l’hanno in esclusiva inconfutabili mediatici che questo mondo lo interpretano con la saggezza, l’indipendenza e la competenza che gli assegna l’Ufficio delle Risorse Umane del rispettivo datore di lavoro, a sua volta responsabile verso qualche sinedrio molto in alto e poco conoscibile. Sinedrio che, tra gli altri, cura il ministero della “Difesa” e quello, di orwelliana definizione, della “Verità” (“Miniver”). Noi che ritenevano come i giornali di opposizione dovessero criticare e contestare l’esistente e il governante, nel caso “il manifesto” o “Il Fatto Quotidiano”, ci dobbiamo rassegnare al dato che quell’ufficio delle risorse umane e quel sinedrio non permettono giri di valzer a nessuno. Su quel che conta nel sinedrio, il coro è uno e unico. E allora la possibilità di una ricerca, non tanto di certezze, ma di qualche brandello di probabilità sfuggito al coro di queste eccellenze ministeriali, si riduce a un criterio molto primitivo, rozzo, ma di discreta approssimazione.
Anche per quei due giornali si può tranquillamente ragionare, al netto delle oneste penne, non intinte nel veleno di quegli altri rettili, che insistono a fornirgli foglie di fico, su un criterio di questo tipo: ciò che essi sostengono e promuovono, va avversato e respinto; viceversa, ciò che li irrita e li muove al vituperio, ha ogni probabilità di meritare consenso e appoggio.
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Qualche spunto sulla Siria
di Giovanni Dall'Orto
Parliamo di cosa ci ha insegnato la guerra in Siria in questi giorni.
Purtroppo non riesco più a trovare (non credevo fosse importante, non mi sono segnato l’Url) l’intervista in inglese alla Zakharova, l’intelligente portavoce del ministero degli esteri russo, che a un giornalista occidentale che le chiedeva se i russi sarebbero stati disposti a mollare il loro uomo, Assad, per ottenere la pace in Siria, reagì con una faccia sbalordita e la frase: “Ma Assad non è il nostro uomo. Assad è il vostro, uomo”.
Ecco. Se la propaganda di guerra non soffocasse la possibilità di ottenere notizie, sarebbe più facile capire cosa succede nel mondo. Purtroppo però non è così.
Partiamo allora pure dal preconcetto secondo cui i russi mentono sempre, a prescindere, perché amano farlo. Se fuori piove e chiedete alla Zakharova che tempo fa, lei vi dirà che c’è il sole. Va bene, sia. E diciamo quindi che Assad in realtà sia il “loro” uomo, nonostante sia stato educato in Occidente e fosse intenzionato a vivere a Londra (e non certo a Mosca) come medico, se l’erede al trono siriano, suo fratello, non fosse morto.
Resta il fatto che la portavoce del ministero degli esteri russo ci ha tenuto a puntualizzare che a titolo ufficiale loro non lo considerano il “loro” uomo.
Forse voi avete dimenticato che Assad fece di tutto per riavvicinarsi agli Usa, e che fece offerte e proposte per risolvere il conflitto con Israele in base al principio “pace (e riconoscimento di Israele) in cambio di territori” – progetto fallito solo per l’opposizione di Israele, che non vuole restituire un solo centimetro di territorio siriano.
Forse voi dimenticate le “special renditions”, ossia di quando la Cia mandava i propri prigionieri islamisti in Siria per farli torturare dal tiranno Assad. Il che fa del regime siriano un regime di torturatori, esatto, ma anche un regime torturatore che collaborava strettamente con la Cia in questioni di politica internazionale, e non con la Russia.
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Il dollaro è in crisi?
di Giacomo Gabellini
Con piacere vi presentiamo questo interessante articolo dell’analista Giacomo Gabellini su un tema molto spesso sottovalutato: la crisi del dollaro
In appena un anno, la Banca Centrale russa si è liberata dei circa 90 miliardi di dollari di Treasury Bond (T-Bond) statunitensi di cui era in possesso per incrementare le riserve in yuan da 0 a qualcosa come il 15% del totale. Percentuale sbalorditiva, che supera di molto la media – prossima al 5% – delle riserve in yuan di cui dispongono i 55 Paesi interessati dal mega-progetto della Belt and Road Initiative (Bri), ma che potrebbe essere eguagliata da un numero ben più consistente di Paesi in un futuro non troppo remoto. Lo suggeriscono i dati relativi alla composizione delle riserve valutarie detenute dalle Banche Centrali di tutto il mondo pubblicati dal Fondo Monetario Internazionale (Fmi), da cui emerge che nel quarto trimestre del 2018 lo yuan è arrivato a rappresentare l’1,89% del totale, pari a 202,79 miliardi di dollari. Di per sé, la quota può apparire insignificante, se raffrontata a quella del dollaro (61,69%, pari a 6.617,84 miliardi di dollari), dell’euro (20,69%, pari a 2.219,34 miliardi di dollari), dello yen (5,20%, pari a 558,36 miliardi di dollari) e della sterlina (4,43%,pari a 475,45 miliardi di dollari). Il discorso cambia però radicalmente se si considera che la moneta cinese ha registrato aumenti della propria quota in cinque degli ultimi sei trimestri e che, nel quarto trimestre del 2016, le Banche Centrali di tutto il mondo detenevano yuan per appena 84,51 miliardi di dollari: un incremento di 2,5 volte nell’arco di un biennio. Il tutto a spese del dollaro, che pur mantenendo saldamente il primato, nel quarto trimestre del 2018 ha conosciuto un calo di ben 14,31 miliardi di dollari. E lo stesso fatto di rappresentare il 61,69% delle riserve valutarie globali assume un significato assai meno rassicurante se raffrontato alla situazione del 2000, quando qualcosa come il 72% delle scorte monetarie in possesso delle Banche Centrali era costituito da dollari.
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Il popolo curdo: un continuo saltare dalla padella alla brace
di Michele Castaldo
Ci sono strani “misteri” nella storia dei popoli. Uno di questi, dopo quello palestinese, è certamente quello del popolo curdo. Una popolazione di circa 50 milioni distribuiti in 4 stati: Turchia, Iran, Iraq e Siria. Un popolo che rincorre la creazione di un proprio Stato, a lungo promesso dalle potenze occidentali dalla fine della prima guerra mondiale, e che a tutt’oggi ne è ancora privo. Quali le cause passate e innanzitutto quelle di questi anni?
Verrebbe da dire: maledetta l’invenzione del motore a scoppio e con esso del petrolio che sta nel sottosuolo del Medio Oriente; perché è in questo rapporto che si nascondono tutte le tragedie di decine di milioni di persone che vivono su quel vasto territorio. Perché il popolo del Kurdistan, oltre ai palestinesi, rappresenta l’anello debole dell’area, l’anello sul quale si sono accanite le mire rapinatrici degli occidentali, per un verso, e le fameliche borghesie dei paesi concorrenti dell’area che hanno puntato a subordinare i curdi negando loro non solo la costituzione di uno proprio, per l’altro verso.
La storia antica e moderna di questo popolo è un susseguirsi di guerre e di conquiste. Per comodità espositiva va segnata la data del 1920 come svolta dell’epoca moderna e della formazione degli stati nazionali, quando in occasione del Trattato di Sèvres, firmato tra le potenze alleate della grande guerra e l’Impero ottomano, ai curdi venne promessa la concessione di uno stato autonomo. Ma si trattava di una promessa da marinai, perché Regno Unito, Francia e Usa non mantennero la promessa e diedero il via libera alla creazione di altri Stati nella zona. Da quel momento la Turchia – dove viveva circa il 50% dei curdi - incominciò una dura repressione nei confronti dei curdi proprio per evitare che si costituissero in Stato autonomo.
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Lezioni venezuelane
di Militant
«Vi abbiamo messo in guardia contro la retorica umanitaria degli stati capitalisti che si dichiarano pronti a venire in soccorso della Russia sovietica affamata». Così si avviava il primo numero della “Correspondance Internationale” nel lontano 1921, quando gli immediati tentativi messi in atto dalle potenze mondiali, fino a poco prima impegnate in una lotta per l’annientamento reciproco, si concentravano per sopprimere sul nascere il più grandioso tentativo rivoluzionario che la storia abbia conosciuto. Il Venezuela non è di certo la nascente Unione Sovietica – sebbene sia una delle poche esperienze rivoluzionarie che abbia tenuto alta la bandiera della sinistra di classe riuscendo a dare ancora un senso a questo lèmma – ma la fase imperialista, mutatis mutandis, è sempre la stessa.
E le ingerenze delle potenze imperialiste in paesi in cui sorge un’alternativa anticapitalista, contrabbandate a mezzo stampa per interventi umanitari (proprio come quelle a cui abbiamo assistito nel caso venezuelano, con estremi quali i tentativi di sfondamento da parte di convogli provenienti dal confine colombiano) (leggi), sono uno strumento vecchio e stravecchio, come testimonia in modo chiaro il titolo dei rivoluzionari del ’17. Una storia di lungo corso quella di questo genere di interventi “umanitari”, che se venisse ripercorsa mettendola nero su bianco, ci si potrebbe per assurdo riempire le pagine di questo blog. Ovviamente non è questo l’esercizio che a noi interessa sebbene anche la mera cronaca, talvolta, sembri esercitare effetti miracolosi sulla generale assenza di memoria storica che caratterizza il nostro secolo. Quello che ci preme ricordare adesso, invece, sono alcune delle ragioni che hanno precipitato una delle più originali esperienze del socialismo moderno in una fase di stallo e di crisi, di cui fanno parte anche, ma non solo, gli appetiti imperialistici.
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Crisi economica, scontro geopolitico, populismo e classe
di Citystrike
La crisi economica assume le caratteristiche di una crisi finanziaria perenne. Ma non comincia 10 anni fa. Le sue cause dipendono dalle contraddizioni a livello globale emerse già negli anni '70
L’ultimo libro di Raffaele Sciortino, “I dieci anni che sconvolsero il mondo”, Asterios Editore, 2019, è uno di quei testi importanti che meritano, oltre che una lettura attenta, una analisi approfondita utile a mettere a fuoco un groviglio di questioni, di per sé non risolte e ancora in grado di rideterminare il nostro presente e il nostro futuro immediato. Seguiamo allora per punti il ragionamento dell’autore.
Natura della crisi
E’ opinione abbastanza comune, per lo meno agli analisti marxisti, che la crisi economica globale non cominci nel 2008 con lo scoppio della bolla finanziaria e il fallimento di Lehman Brothers, ma risalga, almeno per le sue cause profonde, agli anni ‘70(1). Questo dato non è così scontato, per lo meno se facciamo riferimento alle analisi del mainstream politico che affollano i giornali. Certamente, nel 2008 succede qualcosa che ha ricadute immediate sugli scenari economici dapprima negli USA per poi allargarsi all’Europa e al resto del continente, ma le condizioni per cui si arriva al crack vanno ulteriormente indagate. Si badi che non si tratta di un mero vezzo teorico: la chiarezza, in questo caso, serve per inquadrare il cuore del problema e per non trasformare una crisi sistemica in una questione contingente legata a falle nei controlli finanziari, all’avidità di pochi speculatori o agli effetti della deregolazione dovuta ad un allentamento dei controlli e al venir meno della separazione tra il mondo del credito bancario tradizionale e la finanza(2).
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Dazi, guerra tra le monete, competizione globale
Lo stallo degli imperialismi
di Rete Dei Comunisti
C’è uno stallo tra gli imperialismi a fronte della guerra sui dazi, le monete e la competizione globale? Per sabato 26 ottobre, la Rete dei Comunisti organizza a Roma un forum di analisi e confronto su questa che appare la caratteristica inquietante dell’attuale fase storica. Il titolo del Forum indica una valutazione che merita di essere discussa: lo stallo degli imperialismi, appunto. Qui di seguito pubblichiamo il documento della Rete dei Comunisti di presentazione e convocazione del Forum del 26 ottobre
La presidenza Trump, nei suoi comportamenti apparentemente irrazionali, sta facendo emergere quale sia la reale condizione non solo dei diversi imperialismi ma, a nostro vedere, il limite dello stesso Modo di Produzione Capitalistico in questo frangente storico.
L’improvviso riemergere dei dazi, che ricorda gli scenari precedenti alla seconda guerra mondiale, la fine della centralità del dollaro e la competizione tra le monete, l’accentuazione mondiale delle diseguaglianze sociali e la dimensione globale di una recessione oggi ammessa da tutti, stanno evidenziando, senza ombra di dubbio, i limiti attuali alla crescita capitalistica dovuti alle difficoltà sempre maggiori di valorizzare la grande massa di capitale finanziario che oggi è in circolazione per il mondo.
La sconfitta dell’URSS e del campo socialista alla fine del secolo scorso, ha fatto ritenere che la storia fosse finita e che l’unico orizzonte non poteva che essere il capitalismo come compimento ultimo dei destini dell’umanità. La fine della Storia è stata, e in parte rimane, la rappresentazione ideologica egemone che intendeva chiudere con il comunismo ma soprattutto con la lotta di classe che ha percorso l’800 ed il ‘900.
Le tendenze che ora si stanno manifestando, in verità da oltre un decennio, ci dicono che le contraddizioni insite nel MPC non vengono superate, anzi si aggravano e si amplificano in modo direttamente proporzionale alla pervasività dell’economia capitalista.
Nell’ultimo trentennio, l’occidente capitalista a guida USA, ha ritenuto di avere ormai l’intero mondo a disposizione e si è lanciato nella corsa ai profitti investendo nelle aree non ancora subordinate all’economia di mercato, in modi diversi Cina, India, Russia e paesi dell’Europa dell’est, amplificando e velocizzando così il ciclo economico del capitale.
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Mao nella metropoli
di Roberto Sassi
In preparazione dell’iniziativa del prossimo 3 ottobre a Roma, organizzata dalla RdC, sui “70° anniversario della proclamazione della Repubblica Popolare Cinese e, più compiutamente come contributo alla discussione su questo importante snodo storico/teorico e politico, pubblichiamo l’introduzione alla terza edizione del libro di Mao Tse-tung, Ribellarsi è giusto!, Ed. Gwynplaine, 2013 (una raccolta di scritti di Mao Tse tung curata dal compagno Roberto Sassi che sarà un relatore all’iniziativa del 3/10 a Roma)
Il vento non si ferma neanche se gli alberi vogliono riposare
Mao Tse-tung, 2 giugno 1966.
Una montagna di menzogne ci opprime, una filosofia dell’irreversibile e dell’ineluttabile vuole imporci l’accettazione incondizionata dello stato di cose presente. La Storia ci chiude la bocca, curva le nostre spalle. E son sempre di più quelli che, stanchi di cercare l’ago nel pagliaio, cominciano a pensare che la paglia non è poi tanto male…
Tempi bui, davvero tempi bui: tempi di disastri e stragi, tempi di tirannia.
Il Nuovo Ordine Mondiale Imperialista, dopo aver celebrato i suoi fasti, è precipitato in una crisi di sistema senza precedenti.
Il mercato ha regolato tutti i conti, a modo suo, ma i conti non tornano.
È tempo di incominciare la Rivoluzione.
Per questo Mao Tse-tung è attuale, oggi più che mai. Di più, il pensiero di Mao è indispensabile a chi non vuole arrendersi alla morte delle intelligenze, dei corpi e della natura.
Il pensiero di Mao, “roba da scemi, da gruppetti folklorici e settari, ormai sepolti in un un passato di vergogna di cui è OBBLIGATORIO pentirsi”. Chi ci dice questo altro non ci propone se non sfruttamento, inquinamento e guerra – l’orizzonte insuperabile del dominio del capitale.
Vogliono imporci un “sì” convinto, o perlomeno rassegnato. Mao ci insegna a dire “no”.
Se una montagna di menzogne ci opprime, solo con la tenace follia di Yu Kung potremo liberarcene.
Solo con gli occhi del vecchio pazzo possiamo vedere, nell’ora più buia, l’approssimarsi dell’aurora.
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Sulle rotte della Nuova Via della Seta
conversazione con Diego Angelo Bertozzi
Oggi l’Osservatorio presenta un’ampia conversazione avuta con l’analista Diego Angelo Bertozzi (Brescia, 1973), tra i maggiori esperti italiani della Cina e della Nuova Via della Seta. Sull’Impero di Mezzo Bertozzi ha pubblicato i saggi “Cina, da sabbia informe a potenza globale” (Imprimatur, 2016), “La Belt and Road Initiative” (Imprimatur, 2018) e “La Nuova Via della Seta. Il mondo che cambia e il ruolo dell’Italia nella Belt and Road Initiative”, uscito da pochi giorni per i tipi di Diarkos. Sui temi trattati nell’ultimo suo lavoro e, in generale, nella sua lunga carriera di studioso della Cina abbiamo voluto confrontarci con una delle voci più autorevoli nella comprensione delle dinamiche della potenza in maggiore ascesa su scala globale.
* * * *
Osservatorio Globalizzazione: Dottor Bertozzi, nei suoi lavori lei ha fornito validi spunti per la comprensione delle dinamiche della politica cinese e delle strategie per il suo rafforzamento. Quali sono, attualmente, le prospettive per Xi Jinping e il suo governo.
Diego Angelo Bertozzi: Il prossimo 1° ottobre Pechino festeggerà il settantesimo anniversario della fondazione della Repubblica popolare e, quindi, della vittoria della rivoluzione socialista e della lotta di liberazione nazionale. Si tratta di un anniversario molto atteso perché destinato a celebrare l’ascesa della Cina a vera e propria potenza globale dopo un processo, anche contraddittorio e difficoltoso, di crescita impetuosa che ha cancellato il “secolo delle umiliazioni”. Credo che ci siano pochi dubbi a proposito: Xi Jinping e il suo governo possono mostrare all’opinione pubblica mondiale la realizzazione concreta del messaggio lanciato da Mao nell’ottobre del 1949: “la Cina si è levata in piedi”.
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Il pesante fardello dell’uomo bianco. I
Diritti umani e democrazia. La Repubblica Popolare Cinese contro l’imperialismo americano
di Gianbattista Cadoppi
Take up the White Man's burden —
Send forth the best ye breed —
Go bind your sons to exile
To serve your captives' need;
To wait in heavy harness,
On fluttered folk and wild —
Your new-caught, sullen peoples,
Half-devil and half-child.
..........
Take up the White Man's burden —
The savage wars of peace —
Rudyard Kipling
Il pesante fardello dell’uomo bianco è quello di portare ai popoli incivili, per metà diavoli e per metà bambini, la vera fede, la civiltà, la democrazia dovendo, ahimè, combattere le “guerre selvagge” della pace. Ma coloro che abbiamo salvato dalla barbarie siamo sicuri che lo volessero? Siamo sicuri che la loro fosse “barbarie”, siamo sicuri che i nostri popoli siano quelli del “Manifest Destiny”, che Dio ci abbia destinato una missione? Siamo davvero in missione per conto di Dio come dicevano i Blues Brothers? Ma loro non facevano particolari danni e il prezzo era che qualche nazista dell’Illinois finisse a bagno dentro al fiume.
Certo che questa nostra voglia di portare la civiltà agli altri ha avuto anche qualche vittima per i danni collaterali. Quando ci sono milioni di morti una cosa è sicura: questi morti non potranno mai usufruire degli “immensi benefici” della democrazia, della libertà e dei frutti della “civiltà” occidentale. E le vittime? Gore Vidal afferma che i milioni di filippini morti (forse tre milioni) sono stati generalmente rappresentati come danni collaterali di una rivolta contro l’Impero americano.
Perché cito Vidal? Perché la poesia di Kipling fu scritta a sostegno dell’invasione da parte degli Stati Uniti delle Filippine nella guerra ispano-americana (definita splendid little war) iniziata nel 1898 il cui pretesto fu l’affondamento della USS Maine.
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Farc, la rosa e il fucile
di Geraldina Colotti
Con un lungo documento di analisi, le Farc – Ep tornano a essere Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia – Ejercito del Pueblo, e lasciano ai compagni e alle compagne che non condividono la loro scelta l’acronimo Farc (Fuerza Alternativa Revolucionaria del Comun) con il quale si erano trasformate in partito politico scegliendo il simbolo della rosa con la stella al centro, nell’agosto del 2017. Si consuma così una lunga e travagliata scissione che, a partire dal gruppo dirigente, ha progressivamente reso esplicite differenze di merito e di metodo che non hanno trovato composizione.
Da una parte, l’ex vicesegretario delle Farc, Ivan Marquez, che ha ripreso le armi insieme a due altri dirigenti storici, Jesus Santrich – recentemente uscito dal carcere – e Hernan Dario Velasquez, nome di battaglia el Paisa. Dall’altro, Rodrigo Londoño, presidente del partito politico Fuerza Alternativa Revolucionaria del Común, che ha respinto il ritorno alle armi per ribadire che la maggioranza degli ex guerriglieri intende mantenere gli impegni presi con gli accordi di pace del 2016.
Entrambi i gruppi si richiamano allo spirito delle origini, rappresentato dalla figura del fondatore, Manuel Marulanda (Tirofijo), morto del 2008. Le Farc di Marquez parlano di una seconda “Marquetalia”, una rifondazione della guerriglia nella continuità dei principi che ne hanno ispirato la formazione, oltre cinquant’anni fa. Quelle di Londoño ribattono che Marulanda ha “insegnato a mantenere la parola”, e che la loro parola, oggi, “è pace e riconciliazione”. La pace del sepolcro, purtroppo, che si è imposta dopo la firma degli accordi del 2016, secondo un copione già visto in Colombia, e che da allora ha già portato alla morte di 500 dirigenti contadini e indigeni e di 150 ex guerriglieri.
Questo è il primo punto di riflessione, che attiene all’analisi delle forze in campo e al bilancio della praticabilità del passaggio politico a tre anni dagli accordi dell’Avana.
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Giovanni Arrighi prima di Il lungo XX secolo
di Giordano Sivini
Per Giovanni Arrighi ne Il lungo XX secolo [1] l’evoluzione storica del capitalismo è caratterizzata dal progressivo ampliamento dell’area di accumulazione del capitale, dalle città-stato dell’Europa continentale al mondo quale è oggi, attraverso cicli sistemici, governati ciascuno da Stati che hanno avuto funzioni egemoniche, in fasi successive di espansione materiale e di espansione finanziaria. L’espansione materiale è il risultato di attività che mettono in movimento una crescente massa di merci, forza lavoro inclusa, producendo profitti. Quando i profitti calano a causa della crescente competizione tra i capitali, invece di essere reinvestiti fluiscono in forma liquida da tutto il sistema verso gli istituti finanziari alimentando l’espansione finanziaria. La capacità egemonica si indebolisce e gli altri Stati del sistema cercano di appropriarsene per orientarla verso nuovi orizzonti produttivi, finché emerge uno che, concentrando potenza economica e militare, diventa il perno di una nuova configurazione egemonica.
Arrighi definisce i cicli in termini di D-M-D’, entro il quale D-M è la fase di espansione economica e M-D’ quella di espansione finanziaria, così che il capitalismo può essere configurato come dominio del valore su aree di accumulazione di crescente ampiezza. L’obiettivo è di capire come si concluda al momento della sua massima espansione. Su questo terreno l’attività scientifica di Arrighi si sviluppa dopo l’abbandono di una diversa prospettiva epistemologica, basata sul rapporto antagonistico tra capitale e lavoro.
Nei primi anni ’70, direttamente coinvolto nelle lotte operaie, aveva prodotto il concetto di forza strutturale della classe, che è rimasto centrale nei suoi lavori fino alla fine degli anni ’80, quando, constatando l’incapacità del marxismo del movimento operaio di leggere le trasformazioni strutturali del capitalismo e percependo che l’omogeneità di classe si sta disgregando, viene a trovarsi in un cul de sac.
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