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materialismostorico

A partire da L’imperialismo globale e la grande crisi

Carla M. Fabiani intervista Ernesto Screpanti1

Pubblicato su “Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane", n° 2/2017,  licenza Creative Commons BY-NC-ND 4.0 

sacre napoleon david

 

Premessa

Presentiamo all’attenzione dei lettori di Materialismo storico un’intervista a Ernesto Screpanti a proposito del suo libro L’imperialismo globale e la grande crisi (1). L’autore ci offre una ricostruzione assai chiara, documentata ed esaustiva dell’ormai classico concetto marxista di imperialismo, rilevandone al contempo l’evoluzione sia nell’ambito della storia mondiale contemporanea che in quello della teoria economico-politica.

Screpanti sostiene che oggi sia finalmente visibile a occhio nudo, anche sul piano meramente empirico, la predominanza di una forma di capitale essenzialmente multinazionale e liberoscambista, rispetto al capitale monopolistico, nazionale e mercantilista caratteristico del Novecento.

Un predominio questo che tuttavia non va considerato meramente come esito del processo storico di globalizzazione del capitalismo, ma anzi, come condizione trascendentale, se non addirittura proprio come condizione di esistenza del capitalismo stesso, in quanto processo tendenzialmente illimitato di accumulazione ovvero di riproduzione allargata, secondo la celebre definizione marxiana per cui il capitale produce essenzialmente capitale e lo fa nella misura in cui produce plusvalore.

Il riferimento teorico principale è Marx, citato a più riprese, laddove sostiene che il capitale tenderebbe inesorabilmente al cosmopolitismo della produzione, tramite l’estensione del mercato mondiale per mano borghese.

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centrotagarelli

Scandalo ong e orge, questo è il capitalismo

di Cecilia Zamudio (*)

ONG e orge: quando cadono le maschere, il volto del capitalismo fa paura

1519889345C’è un tema che di recente è sulla cresta dell’onda dei media dominanti, che mette in chiaro l’opposizione tra Riforma e Rivoluzione (che già sviluppava Rosa Luxemburg e che continua ad essere il nodo gordiano dei processi storici, particolarmente urgente oggi).

Si è venuto a sapere che dirigenti e lavoratori di Oxfam Haiti facevano orrende orge approfittandosi della miseria di donne e bambine, abusando di loro in quello sfruttamento aberrante che è la prostituzione; di fronte a questi fatti ci sono persone che si chiedono: “come è possibile che qualcuno che ‘lotta contro la povertà’ (sic!) possa essere un puttaniere e approfittare della miseria per abusare delle donne?” … I media dominanti sono pieni di tavole rotonde di pseudo esperti in “diritti umani e cooperazione internazionale”, in cui apparentemente i partecipanti si rompono la testa per capire questa questione: rappresentazioni destinate all’alienazione di massa.

Il fatto è che, per comprendere queste questioni in apparenza incompatibili (solo in apparenza), bisogna capire il ruolo del riformismo nella perpetuazione del sistema capitalista. La questione ha radice nel fatto che le ONG come Oxfam non lottano realmente contro la povertà: perché l’impoverimento è causato dal saccheggio e dallo sfruttamento perpetrati contro la maggioranza e contro il pianeta da un pugno di capitalisti; e le ONG non mettono in discussione né combattono il sistema. Mettono pezze, fanno rapporti che possono risultarci utili come documentazione (ma sempre tenendo conto della loro ideologia), si riuniscono in hotel e spendono in catering bilanci milionari e – come no … - perpetrano orge in paesi impoveriti da una storia di saccheggio coloniale e di saccheggio capitalista attuale, come Haiti o il Ciad.

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trad.marxiste

Il nemico interno: l’imperialismo USA in Siria

di Patrick Higgins

nollisordersalhadid“Tutti i complotti sono uniti tra loro;
come le onde che sembrano fuggirsi eppure si mescolano”
– Louis Antoine de Saint-Just

“… là dove non esiste il disordine, gli imperialisti lo creano…”
– C.L.R. James, I giacobini neri

Nel 1971, al culmine della spaventosa e omicida guerra statunitense al Vietnam, un gruppo di cineasti radicali argentini e italiani, conosciuti come Colectivo de Cine del Tercer Mundo, realizzarono un film dal titolo provocatorio: Palestine, Another Vietnam. Un titolo che dice molto in poche parole, una breve dichiarazione gravida di possibili significati. La principale suggestione del titolo – ovvero, che tanto il Vietnam quanto la Palestina fossero obiettivi di un’aggressione imperiale, così come di una resistenza ad essa – non sarebbe stata in alcun modo fuori luogo, o insolita, negli ambienti della sinistra globale del 1971. In effetti, i rivoluzionari palestinesi dell’epoca prestavano non poca attenzione al Vietnam, studiando sia le brutali tattiche militari utilizzate dall’imperialismo USA al fine di schiacciare un movimento rivoluzionario di popolo, sia la storica resistenza del popolo vietnamita. Quale lezione si poteva trarre da tutto ciò?

A questo proposito, nel 1973, allorquando la rivoluzione anti-coloniale vietnamita proclamava la vittoria sulla superiorità militare degli Stati Uniti, un gruppo di rivoluzionari palestinesi e intellettuali arabi convocava una tavola rotonda moderata da Haytham Ayyoubi, capo della Divisione studi militari dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP).

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utopiarossa2

La politica estera degli USA e le contraddizioni di Trump

Questioni di metodo

di Michele Nobile

president donald trump is1. Il problema: dove va la politica estera dell’amministrazione Trump?

In un importante discorso sulla politica estera dell’aprile 2016, Donald Trump affermò: «siamo totalmente prevedibili. Diciamo tutto. Stiamo inviando truppe. Glielo diciamo. Stiamo inviando qualcos’altro. Teniamo una conferenza stampa. Dobbiamo essere imprevedibili. E dobbiamo essere imprevedibili a partire da ora»1 .

E in effetti incertezza e varietà di valutazioni circa il corso della politica estera dell’amministrazione Trump continuano ad essere notevoli. Quel che accomuna critici e sostenitori della politica estera dell’amministrazione è il timore o la speranza che, mossi dal nazionalismo, gli Stati Uniti possano ritirarsi in quel che si dice isolazionismo.

Diffusa anche ad arte, la confusione è tale che ritengo necessario mettere a fuoco i parametri elementari della politica estera degli Stati Uniti - ciò che un Presidente non farà mai - e alcuni concetti fondamentali, utili anche a comprendere le particolari contraddizioni dell’amministrazione in carica.

Ricordo che fra gli specialisti statunitensi di politica estera si è formata subito un’area di critici irriducibili che ritengono il miliardario del tutto inadeguato, per preparazione e temperamento, a svolgere le funzioni di capo dell’esecutivo e di comandante in capo; c’è chi lo ha addirittura definito un «candidato manciuriano», cioè agente degli interessi russi. Fra i critici del candidato Trump si distinse per durezza la maggior parte dei più importanti intellettuali e funzionari neoconservatori del Partito repubblicano2.

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rproject

Israele e i miti sionisti

di Joseph Halevi

Recensione a: Ilan Pappé Ten Myths About Israel London: Verso 2017, pp. 171

street art bethlehem Linda Copenhagen 1024x681La situazione dei palestinesi si aggrava in una forma così accelerata che si può ormai misurare quotidianamente. Il deterioramento viene regolarmente documentato dalle agenzie specializzate delle Nazioni Unite e tuttavia sul piano politico i principali membri dell’ONU permettono la continuazione della finzione che l’occupazione israeliana sia temporanea e cesserà quando verrà firmato un accordo di pace. Israele non è però un custode temporaneo, ad interim, della Cisgiordania e di Gerusalemme orientale, nonché di Gaza. Come osserva Ilan Pappé nel capitolo su Gaza, il nono, del suo ultimo libro, non bisogna quindi farsi confondere dal ‘ritiro’  voluto nel 2005 da Ariel Sharon deciso piuttosto a metterla sotto assedio. Per l’ONU Israele rimane formalmente il paese occupante della Striscia. Dal 1967 il governo di Tel Aviv tratta i territori  della Cisgiordania e del Golan – quest’ ultimo illegalmente annesso nel 1981 – come zone di popolamento coloniale rimaneggiando ed espellendo gli abitanti dalle aree scelte per gli insediamenti, distruggendone le case e limitandone gli spostamenti, costruendo strade per soli ebrei. Il punto è che l’occupazione in corso dal 1967 non è mai stata considerata come temporanea da parte dei vari governi israeliani.  Essa si presenta come la continuazione della pulizia etnica condotta in maniera massiccia dal dicembre del 1947 fino al 1949 con prolungamenti fino agli inizi degli anni ’50 quando gli abitanti di Majdal, ribattezzata Ashkelon, furono messi su dei camion e scaricati oltre il confine della striscia di Gaza.

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mondocane

Siria, mission accomplished, o mission impossible?

di Fulvio Grimaldi

curdi israele 2E’ da qualche tempo che la Siria è ai margini delle cronache e analisi, salvo che per i fissati, in buona, ma più spesso in malafede, del popolo curdo santo subito. Qualsiasi costo comporti quella santificazione: pulizie etniche, distruzione di integrità nazionali, invasione e occupazione di padrini coloniali, rafforzamento ed espansione di Israele, ulteriori devastazioni, lutti, sangue. Coloro che si sentono dalla parte dell’ennesimo paese che la “comunità internazionale” (Nato, Israele, UE e Usa) sbatte al muro per cibarsi poi dei suoi frammenti, pensano che un’assidua attenzione e un irriducibile sostegno alla causa della Siria unita, laica, sovrana, multiconfessionale e multietnica, antimperialista, antisionista, progressista, non siano poi più tanto urgenti, “visto che si è vinto”. Una vittoria che, però, ad altri rischia di suonare come l’illusorio “mission accomplished” di Bush il Fesso sulla nave USS Abraham Lincoln. Come è noto, al proclama di missione compiuta seguirono, ad oggi, 17 anni di guerre e terrorismo, un genocidio strisciante di cui fanno parte, oltre ai 3 milioni di iracheni, oltre 5mila GIs americani.

 

Tout va bien, madame la Marquise

In effetti, a un giro d’orizzonte un po’ disinvolto il quadro potrebbe apparire discreto, sicuramente migliore di 6 anni fa, quando USraele, Turchia e principastri del Golfo disseminarono la Siria di terroristi jihadisti, rastrellati in Medioriente, Asia e tra gli immigrati in Europa (che il buonismo d’annata ritiene integrati ed assimilati), addestrati in Turchia e Giordania, riempiti di petrodollari e droghe stimolanti crocefissioni e squartamenti.

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rottacomunista

Dalla questione irlandese all'imperialismo, il filo d'Arianna di Marx ed Engels

di Michele Basso

imperialism by poasterchild d59z5hc"Cadrebbe la visione marxista della storia se,
anziché riconoscere un tipo unico del rapporto
di produzione capitalista (come di ogni altro
precedente) che corre da una rivoluzione all'altra,
se ne ammettessero tipi diversi successivi."

A. Bordiga(1)

La teoria dei fondatori del comunismo critico ha dimostrato grande duttilità ed è servita a spiegare fenomeni economico-sociali dell'antica Roma, delle società orientali, del feudalesimo. Non ha bisogno del chirurgo plastico per adattarsi alla situazione del XXI secolo.

Il capitalismo è uno, ha varie fasi e l'imperialismo è la fase monopolistica del capitale, non un sistema economico sociale a sé. Il marxismo è una teoria unica, non ha bisogno di prendere qualcosa a prestito da un qualsivoglia Keynes o da un qualche Friedman Milton.

L'eclettismo crea confusione in teoria e in pratica. Montereste pezzi studiati per un fucile a canna liscia su un fucile a canna rigata? Probabilmente vi esploderebbe tra le mani.

Mescolando la teoria di Marx con quella di altri presunti maestri se ne rende impossibile il suo funzionamento, la sua applicazione. Se Marx non vi convince, passate ad un'altra teoria, non create dei Frankenstein teorici e pratici.

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marx xxi

Siria, o degli errori della sinistra radicale sull’imperialismo

di Alberto Ferretti

Il compagno Alberto Ferretti ci segnala, per la rubrica "i comunisti e la questione nazionale" , un suo contributo pubblicato nel blog Ottobre. Volentieri lo proponiamo ai nostri lettori

guerra siria numeri orig mainLarga parte della sinistra radicale tende oggi a minimizzare i crimini nordamericani, stigmatizzando ed equiparando l’ossessione “antiamericana” (che esiste in molti settori radicali della destra occidentale) alla lotta anti-imperialista propria alle forze marxiste-leniniste. Questo accade quando si parla genericamente di imperialismo, decorrelandolo dal suo carattere economico, cioè come fase apicale, o suprema, dello sviluppo capitalistico guidato dal capitale finanziario dominante, e lo si riduce alla semplice politica estera “soggettiva” degli Stati e potenze, qualsiasi ne siano le ragioni.

Si cade così in una contraddizione: quella cioè di ragionare in termini geopolitici, ma di imputare a chiunque si schieri – nell’ambito dei conflitti in corso in particolare in Medio Oriente – da una parte o dall’altra della barricata, di fare della “geopolitica”, di aver abbandonato cioè la lotta di classe al fine di “tifare” per l’una o l’altra grande potenza in un’ottica “banalmente” anti-imperialista.

Questa visione sottende due gravi errori: il primo che non vi sia un contenuto di lotte di classe nella lotta delle nazioni sfruttate contro l’imperialismo e, come corollario, si considerano aprioristicamente tutti gli Stati-nazione attualmente esistenti come “imperialisti”; l’altro che l’unico compito del proletariato odierno sia combattere contro tutti gli Stati-nazione esistenti in quanto espressione del potere delle classi capitalistiche, esattamente come ai tempi di Marx e Engels o della Seconda Internazionale.

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mondocane

Donne in nero

Da Belgrado a Hollywood, da Oprah a Catherine

di Fulvio Grimaldi

470351861Le Donne in Nero incominciarono a gironzolare in aree di conflitto alla fine degli anni’80. Furono fondate, in piena prima Intifada, da un gruppetto di bene intenzionate donne israeliane che ritennero di superare lo scontro tra palestinesi in lotta di liberazione e invasori ebrei in fregola di colonizzazione, promuovendo iniziative congiunte di pace e riconciliazione. L’operazione aveva un vizio che ne minava ogni possibilità di risultato positivo: l’utopia che tra dominanti e dominati si potesse arrivare alla pacifica convivenza, rimandando a un qualche roseo futuro la soluzione del problema. Che, invece, in questo modo, veniva sottratta a chi aveva i titoli per richiederla “con tutti i mezzi”, come prescrive la Carta dell’ONU, a sua disposizione. Tuttavia, diversamente da altre epifanie di donne in nero, mirate con ogni evidenza ad annacquare le giuste lotte in un paralizzante volemose bene a prescindere e a sabotarle condividendo i pretesti del carnefice (“democrazia”, “diritti umani”, “donne imprigionate nel velo”, “dittatori”), quella in Palestina ha avuto l’indubbio merito di diffondere conoscenze sulle nequizie dei genocidi sionisti.

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marx xxi

La sovranità nazionale e la centralità della lotta antimperialista

di Alessandro Pascale*

Con il contributo del compagno Alessandro Pascale, continua la nostra rassegna dedicata alla riflessione sul tema “i comunisti e la questione nazionale”

Korzhev Raising the BannerÈ molto importante che Marx21.it abbia lanciato una discussione su un tema importante e assolutamente non marginale come quello riguardante la sovranità nazionale. Nel tracciare le righe seguenti sintetizzerò alcune conclusioni a cui sono giunto nell'opera “In Difesa del Socialismo Reale e del Marxismo-Leninismo” (scaricabile gratuitamente su intellettualecollettivo.it), che si intrecciano profondamente con questa questione.

La gran parte del movimento comunista italiano ha vissuto gli ultimi decenni in balìa del revisionismo, facendosi dettare le parole d'ordine, e talvolta perfino l'analisi, dalla borghesia e da intellettuali di area progressista ma non marxista. Il fatto che oggi parlare di sovranità nazionale sia un tabù e che si lasci il tema alle destre non deve stupire insomma: è il simbolo di una strutturale incapacità analitica dovuta ad un profondo revisionismo che affonda le sue origini assai lontano nel tempo: in Italia almeno agli anni di Berlinguer, il quale, con l'abbandono formalizzato del marxismo-leninismo da parte del PCI, a favore dell'ottica eurocomunista, legittimò inconsapevolmente un filone culturale cosmopolita che con l'internazionalismo proletario non ha nulla a che fare.

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mondocane

Jus soli e militari in Africa

Le due facce sporche del colonialismo

di Fulvio Grimaldi

africaMi associo agli auguri arrivatimi da tanti amici per feste debabbonatalizzate, che permettano a tutti, specie nel Sud del mondo, sottoposto alla predazione e al genocidio del nuovo colonialismo,, di festeggiare a casa propria senza i push and pull factors dei deportatori e, come al solito, per un anno migliore di questo e peggiore del successivo. E, soprattutto, senza lo sciroppo tossico dell’ipocrisia buonista, arma del nemico e metastasi malthusiana del tempo sorosiano.

 

Le feste dei padroni: gabelle e censure

Il regime criptorenzista e mafiomassonico inaugura l’anno nuovo con l’ulteriore potenziamento dell’imperialismo neoliberista e totalitario: 500 professionisti del militarismo sub imperialista italiota in Niger, per allargare le nostre missioni militari al prezzo di €1.504.000.00 sottratti a pensioni, sanità, scuola, ambiente e per assistere Usa e Francia nell’occupazione, distruzione, rapina di quel paese, deposito di uranio e minerali vari. Nuovo capitolo dell’espansionismo militare USA/Israele/UE nel Sahel e in tutto il continente.

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senzasoste

Cosa va a fare l’Italia in Niger?

di Redazione

Gentiloni ha annunciato alla vigilia del Natale, in sordina ed in mezzo alla distrazione dei regali natalizi, l'intervento in Niger. Ma la reazione politica al momento non è stata incisiva e si perde nella solita retorica dell'intervento umanitario per stabilizzare il paese. Ma la verità è un'altra

francesi nigerL’annuncio dell’intervento italiano in Niger, fatto da Gentiloni su una portaerei, ha colto di sorpresa solo gli osservatori più distratti. La scorsa estate, nel periodo del giro di vite Minniti sugli sbarchi dalla Libia, il governo del Niger era già stato accolto a palazzo Chigi. Motivo ufficiale: una serie di discussioni, e di richieste di finanziamento da parte del paese africano, legate alla questione del contenimento dei flussi migratori. Minniti infatti, all’epoca (e non solo), sosteneva che le frontiere della Ue coincidessero con la Libia e che, proprio per quello, rafforzare la vigilanza in Niger avrebbe significato un alleggerimento dei problemi alla frontiera libica.

Naturalmente l’ovvietà di un Niger devastato dalle crisi idriche (si veda qui) e quindi produttore di immigrazione di massa in fuga verso l’Europa, è ufficialmente negata. Perchè per evitare tragedie nel Sahel, legate alla fuga dai territori, basterebbe intervenire sulle crisi idriche, favorendo le naturali economie locali, e non immaginare di creare fortezze da fantascienza. Se però andiamo a vedere la vastità della crisi idrica che tocca il Niger vediamo che non comprende il solo paese in questione.

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rottacomunista

Libia, flussi di guerra

I militari italiani, i migranti, gli “interessi nazionali”

di Valeria Poletti

brigata sassariIn Libia l’esercito italiano è presente con forze speciali, addestra i militari legati ad una delle parti in conflitto, invia 300 parà della Folgore a protezione dell’ospedale militare allestito per assistere i feriti della milizia di Misurata, mantiene la copertura aerea attraverso la portaerei Garibaldi e i caccia dell'Aeronautica schierati nelle basi di Trapani, Gioia del Colle e Sigonella oltre ai droni dell'Aeronautica militare, monitora i confini sud dove intende impiantare una propria base militare, è presente con le sue navi dal 2015 per presidiare le installazioni ENI al largo di Mellitah.

Senza clamore, cioè senza che ne sia data informazione, la Brigata Sassari (precedentemente e attualmente operativa in Afghanistan e in Iraq) è ora sbarcata in Libia con il 3° Bersaglieri(1).

L’Italia ha codiretto, insieme a Francia ed Etiopia, la missione in appoggio alle forze del G5 Sahel( 2) (Burkina Faso, Chad, Mali, Mauritania and Niger) che ha iniziato le operazioni “anti-terrorismo” alla fine di ottobre 2017(3) ed è finanziata dagli Stati Uniti con 60 milioni di dollari(4), ha firmato un accordo di cooperazione militare con il Niger (accordo del quale, come riporta Analisi Difesa il 27 settembre, non sono stati resi noti i dettagli)(5).

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conness precarie

Argentina 2017. Violenza neoliberale e trasformazione dello Stato

di Sebastian Torres

Argentina 2017 e1513351960285Pubblichiamo un intervento in forma epistolare di Sebastian Torres, un compagno argentino che ha già collaborato con noi negli ultimi anni, nel quale viene tracciato un primo bilancio del regime neoliberale del governo Macri, dopo il suo successo nelle elezioni di medio termine. Il recente passato argentino è stato caratterizzato da un deciso protagonismo dei movimenti, che sono riusciti a conquistare quote evidenti di potere sociale. Allo stesso tempo la politica kirchnerista, che cercava di catturarne e indirizzarne la vitalità, si è retta anche grazie a una peculiare combinazione di nazionalismo, statalismo e neo-estrattivismo, che di fatto ha anticipato alcune scelte del nuovo governo. È probabilmente giunto il momento di formulare un giudizio articolato tanto sulle vicende argentine quanto sulle esperienze latino-americane degli ultimi anni e sul loro tentativo di inceppare il tempo complessivo della globalizzazione neoliberista. D’altra parte, la violenza con cui si vuole oggi cancellare ogni traccia di quelle esperienze segnala che esse sono state certamente percepite come una minaccia intollerabile all’ordine neoliberale. Per questo occorre chiedersi se la fine del kirchnerismo non possa segnare anche la fine dell’incanto peronista e della sua ipoteca simbolica e pratica sull’immaginazione politica argentina.

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ilpungolorosso

Intorno al patto di Abidjan. Immigrazione, Africa, Europa

di Il Pungolo Rosso

Mogherini UE UA 9c27382c42Per qualche giorno – proprio mentre le istituzioni statali disperdevano la protesta dei rifugiati di Cona – i mass media rigurgitavano di buoni propositi verso gli africani, con tanto di piani Marshall per l’Africa, spettacolari programmi di investimenti, propositi di implementare i diritti democratici, e chi più ne ha più ne metta. Per l’istruzione, il futuro e la felicità dei giovani africani, anzitutto.

Cos’è successo?

E’ successo che il 29-30 novembre si è tenuto in Costa d’Avorio, ad Abidjan, il quinto vertice congiunto dei capi di stato e di governo dell’Africa e dell’Unione europea e in circostanze come queste, la retorica istituzionale supera sé stessa in virtuosismi parossistici. Tanto più perché le vecchie potenze coloniali europee si vedono sottratto spazio vitale da Cina, India, Turchia, monarchie petrolifere, oltre che dal sempre incombente e insaziabile zio Sam, e sentono di dover recuperare terreno e credito.

In questo vertice si sono ovviamente intessuti rapporti di affari, ma al centro di tutto è stata la “questione migratoria”, e l’impegno imposto agli stati africani a selezionare e controllare il movimento migratorio verso l’Europa. E’ il tentativo di estendere all’intero continente il metodo-Minniti per la Libia, con la creazione di un sistema di spietati campi di concentramento per emigranti in fuga dalle guerre, dalla fame, dalla spoliazione delle loro terre, nei quali schiacciare la loro dignità e comprimere al massimo le loro aspettative prima di dare il via libera ai sopravvissuti a questi inferni perché affrontino la sempre più pericolosa traversata del Mediterraneo.