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L'11/9 agirono tanti servizi

Paolo Sidoni intervista Giulietto Chiesa

L’11 settembre? Un grande fenomeno mediatico capace di instillare la paura a più di due miliardi di persone. Grazie a quella «paura» è stato possibile portare avanti la politica di aggressione degli USA in Medio oriente e in Afghanistan negli anni successivi. E’ quello che pensa Giulietto Chiesa, giornalista di lungo corso e tra i più attivi e ascoltati esperti «non allineati» dell’11 settembre. Il suo film «Zero» è tra i principali documentari dedicati all’attacco alle Twin Towers. Che, secondo lui, fu voluto da frange deviate di molti servizi segreti: americani, arabi, israeliani, pakistani…

Secondo il giornalista Giulietto Chiesa gli attentati dell’11/9 sarebbero stati una «false flag operation» , opera di spezzoni di diversi servizi segreti internazionali. L’obiettivo? Creare una tale shock emotivo nell’opinione pubblica mondiale che avesse giustificato l’intervento militare in Medio Oriente. Giulietto Chiesa è un noto giornalista italiano (a lungo corrispondente da Mosca de «L’Unità» e de «La Stampa») che si occupa in prevalenza di guerre e globalizzazione. È stato parlamentare europeo fino al 2009 e fondatore di Megachip – Associazione per la democrazia nell’informazione. Ha curato alcune pubblicazioni nelle quali la versione ufficiale degli attacchi viene completamente smentita. Da una sua inchiesta è stato realizzato il video documentario «Zero, inchiesta sull’11 settembre», presentato al Festival del Cinema di Roma il 23 ottobre 2007. «Storia in Rete» lo ha intervistato.


È difficile districarsi tra le varie teorie che individuano dietro i fatti dell’11 settembre un complotto dell’allora amministrazione Bush. Qual è in sintesi il quadro che lei si è fatto?


«Io non perdo tempo a districarmi tra le teorie. Sono stato tra i primi a vedere che la versione ufficiale faceva acqua da tutte le parti. I fatti non collimano con la vulgata del 9/11 Commission Report. A dieci anni di distanza diverse domande sono diventate certezze. Non è andata così come ci hanno raccontato. All’11 settembre hanno partecipato spezzoni di diversi servizi segreti, tra cui la CIA, l’FBI , il Mossad, i servizi sauditi e pakistani. Ci sono gli estremi per incriminare diversi cittadini americani come partecipanti attivi. Li si dovrebbe chiamare a testimoniare sotto giuramento».



C’è qualche critica che vorrebbe muovere ad altre teorie che, comunque, vedono dietro quei fatti un complotto americano?


«Ci sono diverse ipotesi su “ciò che è realmente accaduto”. L’unica critica che muovo è rivolta a chi, non potendo disporre di dati (che sono stati mantenuti segreti) si avventura in ipotesi non dimostrabili. È un errore di metodo che può costare caro a chi ricerca la verità. Molto più utile restare alle cose che si sanno e che sono dimostrabili. Sono ormai più che sufficienti».


Qual era la politica che il governo di Bush intendeva attuare per il Medio Oriente? Quali collegamenti possono esserci tra questa linea e gli attentati?


«I neocon progettavano di attaccare l’Iran prima ancora dell’Iraq e dell’Afghanistan. Obiettivi? Tanti: controllo del petrolio, controllo politico dell’area, bastione contro la Russia, coinvolgimento e sputtanamento dell’Europa. L’11 settembre fu l’accensione della miccia».


Sul comportamento dei terroristi prima degli attentati ci sono alcuni episodi che lasciano perplessi. Ce li può brevemente riassumere?


«Troppo lungo riassumerli tutti. E non è nemmeno importante. Quelli erano terroristi da operetta, capri espiatori. Ne cito uno solo: i due presunti piloti del volo AA77 che si sarebbe (condizionale d’obbligo) schiantato contro il Pentagono, vissero per dieci mesi a San Diego, in California, in casa di un agente dell’FBI, tale Abdulsattar, e vennero ricevuti e finanziati da un altro agente dell’FBI, tale al-Bayoumi, che era anche funzionario dell’ambasciata dell’Arabia Saudita. I loro files erano nelle mani dell’FBI; erano seguiti dalla CIA, erano stati segnalati dalla NSA. Tre servizi segreti li tenevano d’occhio. Adesso l’FBI dice che non ne sapeva niente (e mente) e accusa la CIA di avere protetto i terroristi con l’obiettivo di assumerli al suo servizio. Fatti loro, direi, io aspetto che aprano un procedimento penale contro l’allora capo della CIA, George Tenet, e l’allora capo dell’FBI, Mueller. Ovviamente tutto questo non accadrà, ma poco importa. La verità si farà strada a dispetto di tutti coloro che fanno ogni cosa per impedirlo».


Louis Freeh, ex direttore dell’FBI fino al 2001, ha affermato che «i documenti identificativi, nome e fotografie, di Atta nell’anno 2000 sono esattamente il tipo di informazioni tattiche che l’FBI ha spesso utilizzato per prevenire attacchi e arrestare terroristi». Tutta un’operazione combinata, quindi? E non le pare che questa dichiarazione scagioni almeno l’FBI dall’essersi prestata al complotto?


«I criminali con passaporto americano che hanno partecipato al complotto dell’11 settembre ora scaricano le responsabilità gli uni sugli altri. A me pare che tutto questo sia fumo per impedire che lo sguardo si posi su Dick Cheney [il vicepresidente USA durante l’amministrazione Bush jr., NdA] e Donald Rumsfeld [segretario alla Difesa nella stessa amministrazione NdA]».


Si è spesso affermato che gli attentati siano stati organizzati per fornire agli USA il casus belli per intervenire prima in Afghanistan e poi in Iraq anche se la guerra contro Saddam Hussein non venne giustificata dagli attentati. Non le pare che sarebbe bastato un auto-attentato contro una nave o un velivolo americano nello spazio afghano?


«Non sarebbe bastato. Trovo curiosa l’idea di suggerire ai servizi segreti (ai loro pianificatori) come avrebbero dovuto comportarsi. Loro lo sanno molto meglio di lei e di noi. Ci voleva una grande emozione collettiva che attanagliasse nella paura due miliardi di persone. Questo, tra l’altro, è stato l’11 settembre: un capolavoro mediatico».


Ma perché un’operazione così complicata, col coinvolgimento di un numero impressionante di persone e di enti governativi? E perché attribuire ai 19 dirottatori cittadinanze di paesi amici, come l’Arabia Saudita, l’Egitto, il Libano e gli Emirati Arabi?


«Mai sentito parlare di false flag operations? In questo modo centinaia di persone lavorano per l’atto terroristico pensando di stare facendo il loro dovere. Trovo geniale questa idea. Gli italiani, che hanno conosciuto la strategia della tensione, dovrebbero riconoscere i suoi trucchi meglio di chiunque altro. La strategia della tensione in Italia è stata organizzata esattamente in questo modo. Per quanto concerne le cittadinanze, ovvio che dovevano essere tutti arabi, perché occorreva scatenare la paura del terrore islamico. Quanto ai passaporti non mi pare che contasse molto scegliere quelli che hanno scelto. L’elenco di Al Qa’ida, nelle mani dei servizi americani e israeliani, era quello che americani e israeliani avevano compilato. I terroristi «comodi da usare» non sono poi così tanti».


Che una esigua parte di persone appartenenti ad alti livelli governativi americani sapesse e avesse lasciato fare, oppure che una cellula terroristica fosse stata infiltrata e pilotata, appare uno scenario più credibile rispetto a un complotto che vede coinvolte decine di istituzioni governative e centinaia di persone. Non crede?


«È certo che la cellula terroristica è stata infiltrata, usata e pilotata. Su questo piccolo tesoretto hanno poi agito diversi organizzatori. Quelli che sapevano erano molto pochi. Gli altri hanno lavorato sapendo poco (quelli che lasciarono fare) o sapendo niente (gli altri che partecipavano alle esercitazioni false flag). Infine, a cose fatte, si trattava solo di depistare, ricattare, impaurire. E tutti quelli che raccontavano cose difformi dalla spiegazione ufficiale, semplicemente ammutolirli con il controllo completo del mainstream [cioè l’opinione prevalente sui media NdR]».


Ancora sugli attentatori: se quelli indicati dalle inchieste ufficiali erano incapaci di effettuare manovre complesse, allora chi si trovava alla cloche degli aerei?


«Non lo so. Mia personale ipotesi è che i quattro aerei non fossero «quelli » e fossero pilotati dall’esterno. Le possibilità tecniche c’erano tutte. Dove siano finiti i passeggeri dei quattro voli non ho la minima idea, ma l’Operazione Northwoods [piano concepito nel 1962 dalla Difesa USA per suggestionare l’opinione pubblica statunitense ed indurla a sostenere un attacco militare contro il regime di Castro NdR] aiuta a capire molte cose».


Passiamo al crollo delle Torri. Esperti di demolizioni concordano sul fatto che la struttura delle Torri, solo acciaio senza rinforzi in cemento armato, era inesorabilmente destinata a crollare se sottoposta a un incendio.


«Quello che lei dice sui rinforzi in cemento non ha senso. Non erano i rinforzi in cemento il punto «di forza», ma la struttura in acciaio. Non ci sono precedenti di crolli di quel genere avvenuti a Ground Zero. Non è affatto vero che tutti gli esperti la pensino come lei afferma. È vero esattamente il contrario: che ci sono migliaia di esperti (basta andare sul web per trovarli) che dimostrano che le torri sono state fatte cadere, tutte e tre, con demolizioni controllate».


L’esempio che spesso viene riportato per dimostrare l’impossibilità del crollo di un grattacielo in seguito a un rogo, la Windsor Tower di Madrid, in realtà non è pertinente: si tratta di una struttura rinforzata appunto da cemento armato, e le sue strutture d’acciaio sono comunque crollate. Non pensa quindi che l’ipotesi di autodemolizione delle Torri Gemelle sia ormai smentita?


«Possiamo anche lasciare da parte l’esempio della Windsor Tower. Le temperature del carburante non possono fondere l’acciaio. Semplice ed elementare. E neanche quella torre crollò. Un afflosciamento sulla base non spiega come strutture di acciaio del peso di decine di tonnellate siano andate a conficcarsi negli edifici vicini, a circa 200 metri di distanza. Senza esplosioni questo non poteva avvenire. E la Torre 7 del WTC non fu neppure colpita da un aereo».


Ha anticipato un altro aspetto della vicenda: il palazzo di 47 piani, il WCT7, crollato nonostante non fosse stato colpito da un aereo. Anche qui molti tecnici ritengono che i detriti infiammati delle Torri Gemelle, scagliati per 170 metri, abbiano compromesso quella struttura. Secondo lei invece?


«Vero che i detriti di una delle torri hanno colpito il WTC 7. Ma il suo crollo verticale, identico a una demolizione controllata, non ha a che fare con quelle lesioni. Esse non potevano provocare una caduta simultanea. Ci sono filmati, emersi recentemente grazie al FOIA [Freedom of Information Act NdR], che dimostrano ormai incontrovertibilmente, che il WTC7 era stato minato. Si vede perfettamente che il penthouse del WTC7 che crolla con qualche secondo di anticipo rispetto al resto dell’edificio. Eppure lassù non erano arrivati i detriti. Hanno fatto un piccolo errore di programmazione delle esplosioni? Per questo motivo il filmato fu immediatamente ritirato dalla circolazione ed è emerso solo a otto anni di distanza: perché un dettaglio che permette di vedere la demolizione controllata. Di questo parlo diffusamente nel mio libro “Zero-2. Le pistole fumanti” Edizioni Piemme.


Molti punti oscuri sembrano permanere sugli episodi dell’aereo contro il Pentagono e sul volo caduto in Pennsylvania, con i passeggeri che si sarebbero scagliati contro gli attentatori facendo precipitare il velivolo: una ricostruzione che assomiglia a un copione hollywoodiano. Come crede sia andata?


«Non credo nulla. Affermo che tutto ciò che sappiamo non collima con la versione ufficiale. Il copione hollywoodiano è appunto la versione ufficiale. Nel buco di Shanksville non c’era niente di quell’aereo. Un pezzo del motore fu trovato a qualche miglio di distanza. Evidente che quell’aereo fu abbattuto. La storia dei passeggeri in rivolta è interamente inventata».


Anche sull’attentato contro il Pentagono ci sono delle ombre. In una famosa foto del dopo esplosione si vedono una poltrona e una scrivania ancora in piedi, proprio accanto al foro d’entrata. Si è parlato di un’auto bomba o di un missile. Tuttavia nessuna testimonianza oculare – il Pentagono sorge a pochi passi da un strada con numerose corsie – accenna a missili, mentre oltre 100 testimoni parlano di un aereo di linea o comunque di un aereo. Cosa potrebbe essere successo?


«La ricostruzione del Citizen Investigation Team mi pare impeccabile. I testimoni che loro hanno intervistato hanno confermato che c’era un aereo. Che aereo fosse non lo sappiamo. Ma le loro testimonianze dicono all’unisono che la traiettoria non fu quella raccontata dalla versione ufficiale. E se la traiettoria non fu quella, allora tutta la ricostruzione ufficiale crolla come un castello di carte».


È stato scritto che l’11 settembre è «un argomento più grande di chiunque». Le è capitato di rivedere alcune opinioni che aveva espresso in precedenza?


«Dettagli tecnici secondari sono stati successivamente dimostrati diversi dalle prime risultanze. Una ricerca del genere è, per definizione, un work in progress. Molte cose emergono cammin facendo. Del resto io ho fatto l’indagine su materiali che erano segreti e che sono tutt’ora secretati. Io per esempio, come nessun altro, non ho potuto vedere le registrazioni delle oltre 80 telecamere che guardavano il perimetro esterno del Pentagono. Perché sono state tutte sequestrate immediatamente e continuano ad essere segrete. Qualcuno si è chiesto perché? L’opinione che la versione ufficiale è falsa mi si è formata analizzando i materiali che via via emergevano. Più passa il tempo e più materiali emergono, più quella opinione si rafforza. Come ho detto ci sono ora una decina di pistole fumanti, indizi e prove che in una paese civile condurrebbero all’apertura di altrettante inchieste penali. Sbalorditivo che decine di persone, sicuramente partecipanti alle operazioni di depistaggio, non siamo mai state interrogate o costrette a deporre sotto giuramento. Il che significa che gli organizzatori della più gigantesca operazione di diversione della storia, sono ancora nei posti chiave del potere statunitense. La mia ricerca deriva da una acuta sensazione di pericolo incombente».

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