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Crisi capitalistica e aggressività dell’imperialismo*

Contro il proletariato interno e contro quello dei paesi periferici

Red Link

Al primo punto della nostra discussione abbiamo messo giustamente la necessità di disciplinamento dei paesi periferici da parte delle potenze imperialiste e la necessità di interrogarsi sul nesso tra tale tendenza e la crisi economica. Poiché indiscutibilmente, sul piano delle cosiddette relazioni internazionali, questo è l’aspetto decisivo in questa fase e non tanto, o non ancora, quello tra crisi e guerra interimperialistica.


Sul nesso crisi - imperialismo

Una premessa si rende necessaria a nostro avviso in relazione al tema della nostra discussione per cercare di individuare cosa rappresenta una costante nell’azione dell’imperialismo e cosa, invece, è legato al manifestarsi di contraddizioni fortissime del meccanismo complessivo di riproduzione capitalistico sfociato nella crisi attuale.

Contrariamente a quanto si ritiene comunemente, la politica di rapina e sfruttamento di altri paesi non è una caratteristica solo della fase più matura del capitalismo, ma è una costante che lo accompagna sin dalla sua nascita. Usando una terminologia oggi di moda potremmo dire che essa esprime un suo dato “costituente”. Detto altrimenti l’imperialismo rappresenta al tempo stesso un presupposto ed un risultato del modo di produzione capitalistico. Presupposto, in quanto senza la politica di saccheggio e di rapina non sarebbe stata possibile quell’accumulazione originaria che ha permesso l’affermazione delle relazioni capitalistiche in alcuni paesi chiave consentendone progressivamente la loro diffusione a scala mondiale.

Una diffusione avvenuta, però, sempre su base asimmetrica che ha visto il centro dell’accumulazione concentrato in alcuni paesi ed aree geografiche mentre altre, pur venendo inglobate nel circuito del mercato mondiale e nella divisione internazionale del lavoro, vedevano accrescere la polarizzazione nei confronti dei paesi dominanti. Ciò era possibile anche perché ai classici strumenti della guerra di aggressione, del dominio coloniale diretto, man mano che il capitalismo si espandeva, si potevano accompagnare l’utilizzo degli strumenti della finanza, del controllo dei processi produttivi a più alta concentrazione di tecnologia e di saperi, dei monopoli. In tal senso l’imperialismo come oggi lo conosciamo è un risultato della dominazione capitalistica a scala mondiale. I processi di indipendenza politica e di lotta vittoriosa contro il dominio coloniale diretto, pur rappresentando un colpo importante al vecchio ordine imperialistico, non ne hanno potuto modificare la sostanza fatta di dipendenza, di trasferimento di risorse e ricchezze, di utilizzo, a beneficio dei centri di accumulazione decisivi, della forza lavoro a basso costo.

Il punto di svolta recente nella strategia imperialista, è collocabile nel periodo immediatamente successivo alla caduta del muro di Berlino. Il venir meno della divisione del mondo in blocchi di influenza politica ed economica ha determinato un vero e proprio terremoto nelle relazioni geopolitiche. Non si intende qui certo accreditare una sorta di natura antimperialista all’Urss che nel campo delle relazioni internazionali (così come in quelle interne del resto) aveva messo al primo posto le esigenze del proprio stato e del proprio capitalismo. Ma non vi è dubbio che tali interessi spesso configgevano con quelli delle altre grandi potenze ed in particolare con quelle degli Usa i quali, anche alla luce della sonora sconfitta subita in Vietnam, hanno cominciato a muoversi con più circospezione sul terreno delle aggressioni militari dirette. Altri, come la Francia e l’Inghilterra, oltre ad aver subito durissime sconfitte da parte dei movimenti di liberazione delle proprie colonie, erano usciti talmente spossati e ridimensionati dal secondo conflitto mondiale che semplicemente non si potevano all’immediato consentire di gestire in proprio un impero coloniale. A Giappone e Germania la durissima sconfitta subita nello stesso conflitto aveva tagliato per lunga pezza le unghie rispetto a sogni di dominazione più o meno diretta di aree geografiche, a tutto vantaggio del nuovo vincitore statunitense.

Se consideriamo il primo manifestarsi dell’inceppamento dei meccanismi di accumulazione a scala mondiale evidenziatosi agli inizi degli anni ’70 del secolo scorso, abbiamo uno scarto quasi ventennale rispetto ad un rilancio di una politica aggressiva verso i paesi periferici.

Un aspetto questo che dovrebbe farci guardare in maniera più attenta al nesso tra crisi dei meccanismi di accumulazione e “guerra”, cercando di comprendere che il rapporto tra questi due fenomeni non è meccanico e diretto ma mediato da svariati fattori, come nel caso di quelli richiamati più sopra.

È bene precisare che, se quando parliamo di guerra intendiamo riferirci ad un conflitto militare mondiale con protagonisti le principali potenze imperialiste schierate su fronti avversi, tale nesso è ancora più complicato e, pur rappresentando lo sbocco obbligato dell’incancrenirsi delle contraddizioni capitalistiche, esso rappresenta la soluzione di ultima istanza, tesa tanto a stabilire un nuovo ordine mondiale, ma soprattutto a realizzare l’unica soluzione possibile dal punto di vista capitalistico per un vero superamento della crisi generale in atto.

Prima di arrivare a questo show-down vengono esperiti tutti i tentativi per mantenere alta la profittabilità, soprattutto del grande capitale, e la pace sociale interna ai paesi imperialisti.

È praticamente la sintesi della politica predominante negli ultimi 30 anni, che non ha sicuramente permesso di superare le contraddizioni in cui si era infilato il sistema capitalistico come possiamo oggi registrare, ma ha consentito di dilazionarne gli effetti per più di una generazione che in politica rappresenta tanto.

Insomma, quello cui abbiamo assistito in questo periodo è stata la messa in atto di una serie di misure che hanno agito come controtendenze alla tendenza del saggio di profitto ad abbassarsi nel lungo periodo.

Il drastico abbassamento dei salari, l’intensificazione dello sfruttamento e l’allungamento della giornata lavorativa, il trasferimento di quote crescenti della spesa pubblica a sostegno diretto dell’accumulazione e dei profitto a discapito della spesa sociale e del salario indiretto, sono solo alcune delle principali misure messe in atto a partire dalla “rivoluzione” tacheriana e reganiana, presto imitata da tutte le grandi potenze. Sul piano internazionale intanto si scatenava un’offensiva, prima diplomatica e finanziaria, tesa a ridimensionare le aspettative di migliorare sensibilmente la qualità della vita in tutte le aree dei paesi dipendenti e periferici, successivamente mutatasi in aperta aggressione militare contro chi pretendeva di resistere all’ondata di trasferimento di risorse e di ricchezza verso i centri dell’accumulazione internazionale. La politica dei prestiti facili, presto trasformatisi in pretese usuraie, ha messo in ginocchio tanti paesi, ai quali successivamente si proponevano le “ricette” delle istituzioni finanziarie internazionali. Ricette dettate dal tentativo di imporre la completa apertura dei loro mercati, la svendita del patrimonio pubblico, il drastico peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro allo scopo di avere mano d’opera a bassissimo costo da utilizzare negli stabilimenti delle grandi aziende multinazionali che intanto delocalizzavano i propri investimenti produttivi. Anche quando il peggioramento delle condizioni salariali e normative dei lavoratori delle periferie non veniva utilizzato direttamente da insediamenti delle multinazionali, a beneficiare di tale condizione era soprattutto il grande capitale internazionale poiché, in un mercato mondiale sempre più integrato, il controllo delle sezioni a più alta intensità di capitale e di sapere scientifico incorporato nei processi produttivi, consentiva uno scambio diseguale attraverso cui si realizzava un trasferimento di plusvalore per mezzo delle “semplici” regole del mercato. L’altro versante su cui si è agito è stato quello delle materie prime, entrate sempre di più nell’orbita del mercato finanziario e speculativo. Il costo di tali prodotti rappresenta un’altra voce fondamentale che va ad incidere sul saggio di profitto ed un suo sostanziale abbassamento costituisce un’altra fenomenale controtendenza al suo abbassamento. Pure in questo caso ci siamo limitati ad elencare solo alcune delle principali misure messe in atto nei decenni scorsi per cercare di tamponare gli effetti della crisi esplosa negli anni ’70, ma l’elenco dovrebbe essere molto più lungo. Per una descrizione abbastanza puntuale rimandiamo al testo della Klein “Shock Economy” senza che questo comporti una identificazione con le sue posizioni teoriche e politiche.

Come si vede il manifestarsi delle esplosive contraddizioni dell’economia capitalistica non ha dato vita ad un immediato incrudimento dello scontro interimperialistico, ma ad una offensiva, contro il proletariato interno e verso i paesi periferici dove a pagare era anche in questo caso prevalentemente il proletariato ma non solo esso. È ovvio che tale offensiva era accompagnata dal tentativo di ogni grande potenza di ritagliarsi la parte più consistente della torta a discapito dei propri concorrenti, ma ciò è avvenuto nell’ambito di una unitaria e condivisa strategia che puntava a scaricare su altre classi e altri paesi il peso della crisi.

Di fronte a tale offensiva per i sindacati ed i partiti istituzionali di sinistra dei paesi centrali si sono chiusi gli spazi per svolgere il loro ruolo di mediazione e di consenso, sia pur gestito in maniera conflittuale, verso le istituzioni borghesi. Caratterizzati da sempre dalla logica della compatibilità e della subordinazione delle rivendicazioni proletarie alle esigenze “dello sviluppo”, hanno dovuto piegarsi ai diktat della nuova religione neoliberista, a meno di non voler cambiare pelle; cosa che non è nella loro natura. In questo ambito chi si illudeva di poter almeno contrattare gli arretramenti è stato spinto sempre più ai margini con una politica fatta di ricatti e di concertazione per renderlo ancora più ragionevole. Ma le ulteriori concessioni fatte sono solo state la premessa per nuove e più pesanti pretese, alle quali diventava sempre più difficile reagire -ammesso che ve ne fosse la volontà- anche a causa dei modificati rapporti di forza determinati dalle precedenti concessioni.

La stessa dinamica si è riproposta in maniera ancora più drammatica e minacciosa per i governi dei paesi periferici. Questi o cedevano “spontaneamente” pezzi crescenti della propria sovranità venendo accettati come paria nei consessi internazionali, oppure erano fatti oggetto di un ventaglio di pressioni diplomatiche, economico/finanziarie e mass mediatiche per renderli più ragionevoli verso le “impersonali” regole del mercato internazionale. Ma quelle stesse concessioni fatte alle esigenze del grande capitale internazionale, nella speranza di trovare con esso un accordo ed un equilibrio che lasciasse spazio anche per un proprio significativo tornaconto, avevano come contropartita un inasprimento delle condizioni di vita delle masse di quei paesi, accompagnate da una crescente repressione contro le inevitabili manifestazioni di resistenza. Di tale malessere approfittava proprio l’imperialismo che soffiando sul fuoco dell’insofferenza spingeva per ulteriori concessioni in nome dei diritti umani e della democrazia, fino all’organizzazione di vere e proprie rivolte finalizzate ad un cambiamento di regime che fosse ancora più succube e malleabile rispetto agli interessi del potenze internazionali.

Nel caso nessuna di queste strategie risultasse efficace, si passa direttamente all’aggressione militare con tanto di occupazione di chiara impronta neocoloniale.

Tale strategia, come già notato, ha subito un’accelerazione impressionante da circa un ventennio cominciando dalla ex Jugoslavia, passando per l’Iraq e l’Afghanistan, fino ad arrivare alla più recente aggressione alla Libia, senza dimenticarsi della Somalia e vari altri paesi africani, mentre si preparano in lista di attesa la Siria e l’Iran. In questo senso possiamo dire che vi è un nesso oramai evidente tra tali guerre di aggressione e la crisi capitalistica intesa come difficoltà strutturale del capitalismo a controllare le proprie insanabili contraddizioni. Considerando il manifesto dispiegarsi della crisi del 2008 (in questo caso prima come crisi finanziarie trasformatasi poi in aperta recessione) e la altrettanto evidente impossibilità di trovare una soluzione, possiamo attenderci un ulteriore incrudimento di tale politica di disciplinamento e rapina verso i paesi periferici, così come si radicalizza contemporaneamente l’attacco contro il proletariato interno.
 

Collaborazione e competizione tra potenze imperialiste


Dobbiamo prendere atto però che siamo ancora in un ciclo in cui prevale l’accordo, sia pur concorrenziale, tra le grandi potenze per esercitare unitariamente questa politica.

Spesso ci si attarda a sottolineare i distinguo che caratterizzano le aggressioni militari per evidenziare i contrasti e le linee di frattura tendenziali di un possibile rimescolamento delle alleanze internazionali. Si tratta di un esercizio utile per comprendere come vanno maturando i contrasti tra le grandi potenze ma ciò non deve farci dimenticare che poi puntualmente i contingenti delle missioni militari o degli aerei e delle navi in azione, vedono la partecipazione di tutti i principali stati imperialisti. Anzi, proprio il fatto che non si sia arrivati mai ad un aperto e duro contrasto verso queste aggressioni è l’indicatore più evidente che le contraddizioni tra le grandi potenze sono per ora ancora in una fase di latenza, o meglio che esse riescono a trovare un momento ricompositivo proprio scagliandosi unitariamente verso il disciplinamento dei paesi periferici.

Non solo ciò è vero per le potenze europee e quella statunitense, ma per il momento nemmeno coloro che dovrebbero essere gli obiettivi indiretti di tale strategia assumono una posizione di netta condanna e di dissociazione. Nel caso ultimo della Libia, persino Russia e Cina, non hanno opposto il proprio veto alle votazioni in sede Onu per dare legittimità internazionale alla missione che si andava preparando. Sia chiaro che una eventuale posizione di condanna da parte di questi paesi non avrebbe indicato nessuna attitudine antimperialista, che non vogliono e non possono assolutamente assumere, ma almeno avrebbe segnalato la volontà di contrastare in maniera aperta una missione tra le cui conseguenze ci sarebbe stato un ridimensionamento dei propri interessi in Libia ed in prospettiva in tutta l’Africa. Senza parlare dell’Italia in cui solo la destra più estrema ha avuto il coraggio di sostenere che tra gli obiettivi della missione in Libia vi era la penalizzazione degli interessi privilegiati che il paese accampa su quell’area dell’Africa. Eppure alla fine ci si è accodati in buon ordine fornendo basi, aerei, navi ed altri supporti logistici. La seconda domanda del nostro invito può essere sciolta tranquillamente in questa chiave di lettura. Inghilterra e soprattutto Francia hanno spinto per una rapida accelerazione sperando di poter lucrare in proprio gli esiti del cambio di regime che si voleva determinare. Ma a soli due giorni dall’inizio dei bombardamenti gli Usa, già abbondantemente con le mani in pasta nella manomissione delle rivolte in Tunisia ed Egitto e da tempo impegnata in un rinnovato interesse nell’area (Africom docet), hanno imposto di ricondurre il coordinamento delle operazioni militari sotto il comando Nato, giusto per stroncare sul nascere qualsiasi pretesa di diritti esclusivi sulla preda che si andava ad assalire.

Per quanto dal secondo dopoguerra la quota della produzione statunitense si è significativamente ridimensionata in relazione a quella mondiale, non bisogna mai dimenticare che nel frattempo essi sono diventati il polo di concentrazione determinante della finanza attraverso cui svolgono un ruolo decisivo nel mercato mondiale. Attraverso la gestione  monopolistica di alcuni settori chiave ad altissima tecnologia, derivante anche dalla ricerca militare, essi controllano tutta la filiera di interi comparti produttivi. Inoltre, ed è questo al momento il dato più rilevante, essi conservano un vantaggio incommensurabile rispetto ai propri partners/concorrenti sul piano militare che rende semplicemente inconcepibile poterli sfidare su questo terreno.

Indicativa a tale proposito la notizia che a distanza di poche settimane dall’avvio dei bombardamenti sulla Libia, Francia ed Inghilterra hanno dovuto chiedere aiuto agli Usa …. perché avevano esaurito missili e bombe.

Gli Usa, a causa della crisi in atto e delle enormi spese militari, aumentate anche per la resistenza con cui si sono dovuti scontrare nelle loro varie missioni militari, stanno presentando il conto ai propri partners. Questi sono sollecitati ad assumersi maggiori responsabilità sia in termini di armamenti che di militari da mettere a disposizione se vogliono veramente partecipare ad una spartizione più equa del bottino. Ma, è del tutto evidente che gli stessi Usa non hanno la minima intenzione di condividere lo scettro della coalizione imperialista nella quale rivendicano un ruolo di assoluta supremazia. Per le ragioni sopra ricordate, essi possono fondare tale pretesa anche sul fatto che oggi non vi è all’orizzonte nessuna singola potenza che possa assumersi in proprio il ruolo di gendarme globale dell’ordine imperialistico svolto dagli Usa ma di cui beneficiano tutte le potenze imperialiste.

Questo è lo scenario che abbiamo di fronte e con il quale dobbiamo confrontarci.

Si tratta di una questione di non poco conto, poiché se si perde di vista tale aspetto dirimente, si finisce per guardare alle aggressioni in atto solo come prodromi di un nuovo conflitto mondiale sottacendo la loro vera natura, rappresentata da un attacco diretto, non solo e non tanto ai dirigenti del regime preso di mira, ma direttamente alle masse e ai proletari di quei paesi con intenti predatori e di sfruttamento.

Diventa complicata con simili premesse anche un’efficace azione di denuncia e di contrasto contro le missioni militari in cui è coinvolta la propria borghesia. Lo stesso utilizzo del termine guerra senza ulteriori aggettivazioni o con aggettivazioni sbagliate in questi casi diventa veicolo di confusione. Parlare genericamente di guerra infatti lascia intendere che vi sono in campo due schieramenti più o meno equivalenti dal punto di vista economico e militare che arrivano allo scontro armato per risolvere i propri dissidi più o meno nobili e quindi più o meno condannabili.

Mentre qui siamo al cospetto di uno scontro assolutamente asimmetrico tra le maggiori potenze economiche e militari coalizzate, dotate delle più micidiali armi di distruzione di massa contro delle piccole nazioni che, non solo non possono nemmeno sognare di ricambiare con la stessa moneta di distruzione i territori delle potenze che l’attaccano, ma non possiedono nemmeno i più rudimentali mezzi per fargli pagare un elevato prezzo in termine di perdite di armi e di vite umane sui propri territori. Quando siamo di fronte ad uno scontro tra persone adulte, per definirlo noi usiamo correttamente il termine rissa, senza per questo ancora esprimere un giudizio sul merito dei torti o delle ragioni dei contendenti. Se invece assistiamo ad un assalto da parte di energumeni armati di tutto punto nei confronti di un bambino o di un handicappato, magari dotato come armi solo della proprie stampelle, non abbiamo dubbi nel definirlo un’aggressione, anche in questo caso senza ancora entrare nemmeno nel merito delle ragioni e dei torti reciproci. E, anche nel caso fossimo convinti che il bambino o il portatore di handicap fossero dei veri furfanti, non esiteremmo a condannare tale brutale e disumano atto.

Anche parlare genericamente di guerra imperialista rischia di lasciare spazi ad equivoci, poiché questa può essere assimilata al concetto di guerra sopra richiamato in cui, pur essendovi una sproporzione abissale tra i due contendenti, questi sono animati dallo stesso spirito di sopraffazione, dalle stesse mire di appropriarsi di pezzi di territorio e di ricchezze del proprio avversario. Di conseguenza, in tal modo si asseconda, sia pure involontariamente, lo stato d’animo della massa che preferisce non vedere e non prendere atto di quanto sta veramente accadendo ma si nasconde dietro l’alibi, molto rassicurante, che interpreta quello in atto come uno scontro tra delinquenti, da condannare magari, addossando in maniera equanime le responsabilità ad entrambi, ma entro cui è meglio evitare entrare e nella migliore delle ipotesi disinteressarsi. Questo è il motivo per cui anche in maniera ossessiva noi preferiamo utilizzare l’espressione guerra di aggressione imperialista, che non lascia spazi ad equivoci ed esprime già un giudizio esplicito sullo scontro in atto.
 

La (non) opposizione all’aggressione alla Libia

Un altro degli interrogativi che abbiamo posto nell’invito alla discussione è appunto relativo alla debolezza dell’opposizione espressasi contro l’intervento militare occidentale ed italiano in Libia, ma anche le eventuali responsabilità da parte degli attivisti per la scarsità di tale risposta.

Un proletariato assolutamente non in grado di organizzare una seria resistenza contro l’offensiva di cui è fatto oggetto dalla propria borghesia sul piano interno, difficilmente troverà le motivazioni e la determinazione per contrastarne il suo militarismo verso l’esterno. Un vero movimento di massa contro il militarismo può darsi o perché i soggetti che si mobilitano ne vivono direttamente le conseguenze sulla propria pelle, oppure perché vi è già in campo un forte movimento su altre tematiche che non solo incoraggia a contrastare la borghesia in tutti i campi, ma soprattutto fa sedimentare una diffusa coscienza classista dei propri interessi sui vari aspetti del dominio capitalistico ben oltre il terreno della difesa immediata delle proprie condizioni di vita e di lavoro. Entrambe condizioni assenti al momento dello scatenamento dell’aggressione alla Libia.

A tale debolezza si è aggiunta la consapevolezza che non si era di fronte al rischio di una generalizzazione del conflitto con la possibilità di esserne coinvolti in prima persona, che invece aveva fortemente agito nel caso della seconda aggressione all’Iraq. Anzi ha avuto un discreto effetto la propaganda di regime, nemmeno tanto implicita, secondo cui era necessario partecipare in prima fila alla missione militare per difendere gli interessi italiani, per difendere il nostro stile di vita che continua a peggiorare e proprio per ciò va difeso in ogni modo.

In tali condizioni, viste anche le dimensioni della sinistra di classe è difficile pensare che essa potesse avere la forza per determinare un movimento più significativo di quel poco che si è riuscito ad esprimere. Nonostante ciò vanno registrate le resistenze manifestatesi nel campo delle realtà, organizzate o meno, della sinistra nel denunciare da subito la natura imperialistica della nuova aggressione in atto e nel promuovere iniziative di contrasto.

In questo caso abbiamo registrato qualcosa di più. Il dato prevalente con cui ci siamo dovuti confrontare non è stato quello della presenza di un movimento contro la guerra, sia pure inconseguente, ma una posizione maggioritaria di indifferenza, nella migliore ipotesi, che in diversi ambienti diventava di vero e proprio consenso alla nuova missione imperialista. Abbiamo assistito così all’invocazione prima ed al sostegno poi ad una scesa in campo della cosiddetta comunità internazionale affinché si fermasse il tiranno di turno che si stava macchiando di crimini contro l’umanità reprimendo ferocemente la rivolta libica, immediatamente assimilata a quella delle altre insorgenze arabe in atto. Che il 99% di tali crimini fosse costruito negli studi delle agenzie internazionali mediatiche e spionistiche dei paesi occidentali, come è risultato evidente dalle cronache di giornalisti sul campo non embedded, non è servito a far sorgere qualche sospetto su cosa si andava realmente preparando. Del resto i rivoltosi si affrettavano a dichiarare la loro disponibilità a ristabilire il controllo sui flussi migratori verso il nord del mediterraneo, che Gheddafi aveva sospeso vista l’ingratitudine che gliene veniva, mentre nel frattempo si davano alla caccia ai negri, libici o meno che fossero, identificati tout court quali mercenari. Inoltre, diversamente dalle altre rivolte arabe, essi da subito si sono dati alla lotta armata invocando l’intervento salvifico e liberatorio della Nato. Ma nemmeno ciò è servito  ad un minimo di cautela su quanto stava succedendo nel paese e la partita che intorno ad esso si giocava.

L’esistenza della protesta in corso e la necessità di sostenerla è stato l’argomento che più ha creato sbandamento anche nelle file della sinistra più radicale. Usato come alibi strumentale dai governi occidentali e dalla Nato, passando per le cariche istituzionali più rappresentative come il presidente della Repubblica fino alla Cgil, per giustificare il nuovo macello che ci si apprestava a realizzare, esso ha fatto breccia anche in settori da sempre impegnati sul terreno del pacifismo o addirittura di un netto anticapitalismo. Non solo in personaggi come Rossanda del “manifesto” o Sullo della rivista Carta quindi, ma persino in gruppi come il PdAC o quelli del Campo antimperialista che hanno visto in atto una Comune di Bengasi cui dare tutto il loro sostegno. Sostegno mantenuto anche di fronte alla nuova macelleria messa in atto dalla Nato e dai suoi ascari locali, salvo condannarne gli “eccessi” che andavano oltre il mandato affidatogli dall’Onu con la risoluzione 1973. Per chi avesse avuto ancora dei dubbi sulla vera natura dei rivoltosi ci ha pensato il capo del CNT Jalil a fornire definitive delucidazioni, quando di fronte agli ex padroni italiani ha sostenuto che il vecchio regime coloniale, responsabile, tra le altre cose, di aver sterminato un quinto della popolazione libica, era sicuramente migliore e preferibile a quello del colonnello.

Con un clima simile i pochi attivisti che hanno invocato la necessità di una netta denuncia e dissociazione, di mobilitazioni che chiamassero con il loro nome la nuova aggressione in atto, si sono trovati di fronte un muro di indifferenza quando non di vera e propria ostilità, tacciati di essere filo Gheddafi.

Ma anche sul fronte degli oppositori alla missione militare in Libia non è che le cose andassero proprio per il meglio. In alcuni casi l’ostilità alla nuova aggressione in atto era accompagnata alla denuncia delle mire, in particolari francesi ed inglesi, a danno degli italiani da sempre presenti con interessi privilegiati in Libia. La scelta italiana di accodarsi alla missione militare veniva criticata, pertanto, come il solito servilismo italiota alla Nato e all’imperialismo USA anche al costo di un ridimensionamento dei suoi interessi nel paese, e con la rivendicazione di una sovranità nazionale e del controllo del territorio (v. il via alle sole basi Nato) da ripristinare. Lo stesso leit motiv che ritroviamo nella campagna apertasi sulla questione del debito e sul diritto all’insolvenza che va declinandosi in maniera sempre più sciovinistica contro il presunto commissariamento della BCE e del FMI.

Nonostante l’esperienza irakena e quella afgana, passando per quella ex – jugoslava, anche in molti ambienti della sinistra non istituzionale è prevalsa, nel migliore dei casi, la parola d’ordine “né con la Nato né con Gheddafi”.

Questa premessa, che in tanti si sentono in obbligo di dover inserire in ogni loro presa di posizione contro la guerra, la riteniamo un dazio pagato ai nostri avversari, nell’illusione di rendere più efficace e credibile la propria opposizione mentre essa serve esattamente a depotenziarla. In tal modo si accetta di scendere sul loro terreno e nei fatti si fornisce una credibilità alle ragioni della nuova aggressione proprio da parte del movimento di opposizione.

Una volta accettato di condividere la condanna del dittatore di turno, ci si inserisce in una spirale micidiale in cui si è sempre più sulla difensiva. Immediatamente dopo questa nostra concessione ci verrà spiegato che siamo solo delle anime belle inconseguenti, poiché si sa che i dittatori capiscono solo l’argomento della forza e quindi saremmo degli ipocriti se non accettiamo la logica conseguenza dell’uso delle armi allo scopo di imporre il fine comune della sua eliminazione dalla scena politica.

Su questo terreno non sono possibili mediazioni, non per vaghe simpatie con i gheddafi di turno, ma per il semplice banale motivo che è completamente falsa la premessa secondo cui staremmo discutendo di come portare la democrazia ai popoli oppressi da questi ultimi, trattandosi dello scatenamento di una micidiale aggressione condotta con armi che quei regimi nemmeno si sognano di poter utilizzare, allo scopo di rendere quei popoli e quei paesi ancora più dipendenti dalle esigenze di profitto e di sfruttamento di risorse umane e materiali delle potenze che scatenano l’attacco.

Inoltre c’è il piccolo particolare, da molti spesso dimenticato, che noi siamo cittadini dei paesi promotori dell’aggressione, ed in questo caso il dovere principale di chi si trova in tale condizione è quello di condannare le responsabilità dei propri governanti e di denunciare le finte opposizioni che su questo li sostengono o, peggio, come abbiamo visto nel caso libico, sono ancora più scatenate.

Per tale motivo, almeno per quanto ci riguarda, quand’anche ci trovassimo di fronte ad un regime ancora peggiore di quello di Gheddafi, la posizione sarebbe la stessa: denunciare e contrastare l’intervento dei nostri governanti poiché la caduta del dittatore non c’entra proprio niente con le ragioni di quell’aggressione. O meglio, c’entra nella misura in cui quel dittatore non pretende solo di spadroneggiare sul suo popolo, ma addirittura di non piegarsi ai diktat delle potenze occidentali, di non svendere a prezzi stracciati le risorse del proprio paese. Non è un caso che l’azione contro i regimi autoritari dei paesi periferici avvenga solo contro alcuni di essi, mentre per altri che sono molto più feroci si chiudono benevolmente gli occhi anzi, li si sostiene in tutti i modi. Come diceva Reagan che se ne intendeva, questi saranno pure figli di puttana ma sono i nostri figli di puttana. La politica verso lo stato di Israele e l’Arabia Saudita sono emblematiche di tale logica. E, per chi avesse ancora dei dubbi basta guardare alla contemporanea vicenda del Bahrein dove l’intervento militare lo si è fatto a sostegno del dittatore e contro i rivoltosi.

Per la questione dei rivoltosi vale la stessa logica: accreditare anche lontanamente che l’intervento militare sia stato messo in atto per sostenere le aspirazioni alla libertà ed al benessere di questi ultimi rappresenta un micidiale errore. Poiché ancora una volta, accettata tale falsa premessa, bisognerebbe poi conseguentemente, se non proprio appoggiare, guardare con simpatia lo scatenamento dell’azione militare occidentale.

È seriamente pensabile che l’intervento militare sia stato deciso per consentire loro di liberarsi di Gheddafi e poter migliorare le loro condizioni in termini di agibilità politica e di condizioni materiali di vita?

Non occorre essere dei rivoluzionari o dei sottili analisti per comprendere che tale finalità non rientra tra gli orizzonti della coalizione dei volenterosi, bensì il suo esatto contrario, e proprio per tale motivo il compito principale degli attivisti era quello di concentrarsi sulla denuncia della natura di tale coalizione e sui suoi reali interessi.

Riteniamo complessivamente quello descritto un atteggiamento indicativo del livello di degenerazione di molte tendenze politiche, ma particolarmente significativo in paesi come Francia e Inghilterra o l’Italia. I primi due responsabili dello scatenamento dell’offensiva militare ed il terzo soprattutto per le responsabilità coloniali e per i crimini di cui si era già macchiato proprio in Libia. Indicativo è stato il fatto che anche la giornata del 15 ottobre, che pure ha visto una parte dei manifestanti intenzionati ad esprimere tutto il proprio antagonismo contro la gestione capitalistica della crisi, ha fatto registrare la totale assenza di ogni riferimento all’aggressione alla Libia di cui proprio in quei giorni si svolgeva l’epilogo militare. La proposta della Correggia, distintasi in tutto il periodo dei bombardamenti, per una denuncia puntuale delle falsità spacciate dai media, incluso il Manifesto su cui gli capitava di scrivere, per creare uno spezzone di corteo caratterizzato dalla denuncia dell’aggressione alla Libia è stata sostanzialmente ignorata.

Restiamo altrettanto convinti, però, che, anche per la presenza dello stato a dir poco confusionale che ha caratterizzato diversi ambienti della stessa sinistra radicale, le poche mobilitazioni contro la missione militare in Libia non avrebbero potuto determinare un significativo movimento contro la guerra di aggressione imperialista per le ragioni più sopra richiamate. Purtroppo tale condizione non è determinabile da nessuno sforzo volontaristico e soggettivistico ma è legata al più generale andamento dello scontro tra le classi ed al protagonismo del proletariato che nelle sue macrodimensioni prescinde dall’impegno più o meno intenso di attivisti siano essi organizzati o sciolti.

Nondimeno vi è bisogno urgente di una voce autorevole coerentemente internazionalista ed antimperialista capace di legare il proprio impegno quotidiano nelle lotte di resistenza che, sia pure a macchia di leopardo e frammentate tra di loro, continuano a darsi, ad una denuncia in grado di evidenziare i nessi tra l’attacco che quotidianamente si è costretti a subire e la politica di aggressione verso l’esterno.
 

Relazione tra crisi e rivolte arabe

È evidente che le conseguenze della crisi si scaricano sui paesi più periferici in particolare su quelli meno difesi dalle pretese imperialistiche. Alla base della estrema diffusione delle rivolte, in particolare in Tunisia ed Egitto, vi è proprio il catastrofico peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro, associato certo ad una esibizione della ricchezza stridente con la condizione della maggioranza della popolazione e all’arroganza del potere, che portano ad una insofferenza incontenibile anche da parte dei più efferati regimi polizieschi. In entrambi questi paesi le rivolte di massa sono state precedute in tempi più o meno recenti da poderose lotte operaie, che in alcuni casi, come in Egitto, avevano persino anticipato alcune forme di lotta riprese poi dal movimento generale. Un altro aspetto significativo delle rivolte è stata la scesa in campo di un settore sociale con aspirazioni da ceto medio che sotto i colpi della crisi ha visto frustrare i propri sogni. Sono i più convinti che la propria condizione dipende dall’esistenza di un potere dittatoriale e da una ristretta casta economico/politica corrotta ed accentratrice delle potenziali risorse disponibili. Questo spiega la forte presenza di aspirazioni democratiche e della componente di lotta alla corruzione su cui si è concentrata molta parte della protesta.

Sarebbe un errore comunque ritenere che queste tematiche fossero patrimonio esclusivo di tali settori sociali, poiché esse erano condivise anche da buona parte di quei lavoratori che con la loro massiccia scesa in campo hanno accelerato la definitiva caduta dei regimi dominanti.

È evidente che ognuno di questi settori interpretava e declinava queste rivendicazioni con accentuazioni e significati diversi. Ma nel contesto dato le rivendicazioni democratiche rappresentavano una condizione essenziale per abbattere i regimi esistenti e per il dispiegamento di uno scontro di classe più netto. Non era la rivendicazione per una generica maggiore partecipazione alla vita sociale, ma quella per contare di più, per avere accesso ad un reddito e ai diritti più elementari. Quello democratico del resto è stato un terreno su cui hanno giocato da subito anche le potenze imperialiste per sollecitare un moto di adesione ai valori occidentali, per determinare un cambio di regime che favorisse una maggiore apertura di questi paesi, solleticando proprio le aspirazioni di alcuni settori sociali ad accedere ad un livello e ad una qualità di consumi simile ai propri omologhi occidentali, magari replicando l’accesso al credito facilitato. Ma si è trattato di un gioco che ha avuto vita breve, poiché sia la consistente scesa in campo dei proletari, sia l’impossibilità nel contesto della crisi in atto, di dare risposte concrete alle aspirazioni dei ceti medi, hanno fatto pendere subito la bilancia delle potenze imperialiste verso una soluzione di conservazione. Rispetto ad un moto che rischiava di andare ben oltre i limiti entro cui ci si era immaginati di poterlo confinare, si è scelto di appoggiare il male minore rappresentato da un certo islamismo moderato disposto a collaborare con le grandi potenze occidentali in cambio dell’affermazione dei propri valori ideologici e di una partecipazione al potere temporale, oppure di sostenere direttamente l’esercito in Egitto, visto come garante di un mantenimento dello status quo ante, giocando sulla legittimazione guadagnata dal non essersi schierato apertamente dalla parte di Mubarak. In entrambi i casi si tratta di risposte reazionarie che vedono in atto il connubio tra interessi imperialistici e settori delle classi dominanti di quei paesi che hanno visto seriamente incrinare il proprio potere politico ed economico. La controrivoluzione sembra così aver preso provvisoriamente il sopravvento in questi paesi ed è prevedibile che essa cercherà di rimangiarsi quel tanto di concessioni che la lotta aveva conquistato sul campo. L’attacco alla Libia conteneva tra i suoi obiettivi, oltre a quelli descritti più sopra anche quello di lanciare un terribile  monito alle recenti insorgenze arabe.

Ma queste rivolte vanno viste come un primo risveglio e l’inizio di un percorso. Esse, come ci ha indicato Marx, saranno costrette di volta in volta a fare i conti con un potere sempre più forte da esse stesse suscitato e a maturare un’esperienza ed un programma che consentirà di superare in avanti le ambiguità e le illusioni ancora presenti. È significativo che ancora oggi, quando oramai quelle insorgenze sembrano già essere state rimosse, rimane forte il protagonismo dei lavoratori specie in Egitto, né sembra sia stata distrutta la rete organizzativa nata con le mobilitazioni di inizio anno, nonostante i provvedimenti antisciopero e la repressione mirata.

Per quanto riguarda i cosiddetti ceti medi (dietro la cui definizione si può comprendere un variegato universo sociale che spazia dai liberi professionisti, ai commercianti fino ai contadini poveri), le loro aspirazioni frustrate possono rappresentare una spinta verso la convergenza con il movimento delle classi sfruttate. Proprio per la collocazione gerarchica di questi paesi nella divisione internazionale del lavoro, la presenza nelle insorgenze di questi settori sociali sarà inevitabilmente molto più consistente ma anche più radicale di quella che possiamo vedere in occidente. Perché anche su di essi agisce la doppia oppressione: quella risultante dalla diffusione delle “normali” relazioni capitalistiche e quella derivante appunto dal subire la dominazione imperialistica anche quando essa non arriva a manifestarsi con l’aggressione militare e l’occupazione neocoloniale.

Come interpretare tale commistione? Essa non è paragonabile a quella che si riproduce nelle metropoli imperialiste a cui spesso guardiamo giustamente con sospetto e diffidenza. Questi strati sociali sono spinti essi stessi su posizioni radicali e rivoluzionarie dalla dominazione imperialista e dalle conseguenze della crisi.

Nonostante le lusinghe cui sono sottoposti, prospettando loro di poter accedere ad uno stile di vita simile ai loro omologhi occidentali, non vi sono oggi, e meno ancora vi saranno in futuro, le condizioni per una cooptazione di massa che si trasformi in pacificazione sociale e sostegno ai valori occidentali. Al di là delle illusioni e delle aspirazioni che essi possono avere, sono destinati a scontrarsi necessariamente non solo con le classi dirigenti dei propri paesi ma soprattutto con la causa prima della loro condizione rappresentata dalla dominazione capitalistica e della sua configurazione a scala mondiale. In particolare le figure più proletarizzate e diseredate di questi settori rappresentano un potenziale importante per la lotta contro l’imperialismo ed il capitalismo mondiale, nonostante spesso non siano salariati. Naturalmente la possibilità di un loro coinvolgimento in un processo rivoluzionario è strettamente legata alla presenza in campo di un forte protagonismo proletario su posizioni indipendenti.

La chiusura del ciclo delle lotte di liberazione nazionale, se da una parte ha portato ad una relativa pacificazione nei paesi che ne sono stati protagonisti e non ha potuto eliminare in maniera sostanziale il dominio dell’imperialismo, rappresenta anche un passaggio non più rieditabile con le stesse dinamiche e con gli stessi obiettivi. Nel frattempo però le ragioni di una lotta derivante dalla condizione di dipendenza non sono venute meno ma si sono addirittura amplificate. Tutto ciò rende, almeno potenzialmente, più agevole l’affermarsi di posizioni che leghino in maniera più stretta il proprio antimperialismo ad una trasformazione radicale degli attuali rapporti sociali dominanti non confinabile solo ai propri paesi di origine.

Per questo passaggio non è indifferente come si posiziona il proletariato dei paesi che li opprimono, se cioè da questa parte venga o meno un segnale chiaro di ridiscesa in campo del proletariato contro l’imperialismo e di schieramento netto al loro fianco.  Il che ci riporta a quella necessità, di cui dicevamo sopra e che ci ha portato a questo primo confronto,  di un impegno nostro a denunciare il nesso tra l’attacco sul piano interno e  la politica di aggressione verso l’esterno.

Questi pochi accenni vogliono essere solo un richiamo alla necessità di approfondire la tematica dell’imperialismo per comprendere che se esso non è semplicemente un sinonimo di capitalismo implica delle specificità di cui è necessario tener conto in termini di programmi, obiettivi, strategie che siano effettivamente in grado si scagliare contro il capitale e la borghesia internazionale tutto il potenziale di rivolta che essi stessi suscitano con il loro dominino.

Su tali temi sollecitiamo quindi a proseguire la riflessione ed il confronto iniziato con questo convegno anche per rafforzare l’efficacia di una battaglia politica di cui vi sarà sempre più forte bisogno.

*Traccia dell'intervento al convengo del 12 novembre a Roma sul nesso crisi, guerra imperialista, politiche antiproletarie e rivolte arabe.

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