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L’antica Grecia verso le elezioni del 17 giugno

Filippomaria Pontani

In greco, a volte, le parole fanno miracoli. Quella più gettonata, e temuta, è di questi tempi il sostantivo refstòtita, derivato dal verbo reo, “scorrere”, che generazioni di ginnasiali hanno coniugato come paradigma del presente indicativo dei contratti: refstòtita è un perfetto bisenso che indica sia la “volatilità” dell’elettorato, sfuggente come una saponetta sotto gli usurati guantoni dei sondaggisti, sia la “liquidità” del contante che disperatamente manca alle casse dei cittadini e dello Stato. È sullo scheletro di questo bisenso che vorrei impostare le impressioni che seguono, tratte da un viaggio breve ma intenso nell’Ellade perduta, sospesa tra le elezioni del 6 maggio e quelle incombenti del 17 giugno: chi avrà la pazienza di leggere potrà saggiare da sé le analogie che legano i problemi qui descritti alla situazione del nostro Paese – in rispettoso omaggio a chi insiste da mesi sul fatto che «noi non siamo la Grecia».


1. Liquidità


Con singolare tempismo, in una lettera spedita il 24 maggio scorso al capo dello Stato Kàrolos Papulias (e resa pubblica dal giornale Vima la domenica successiva), l’ex premier Lukas Papadimos, autorevole esponente della tecnocrazia di scuola occidentale che ha traghettato il Paese verso l’attuale impasse, informava le autorità che le casse dello Stato sono vuote, anzi per la precisione che i 700 milioni ancora a disposizione basteranno fino al 18 giugno, mentre dal 20, tre giorni dopo le elezioni, s’inizierà ad andare in rosso, e dunque non si potranno pagare né stipendi né pensioni (per le spese correnti servirebbero almeno 3 miliardi al mese). Sull’evidente caratura politica di un simile allarme tornerò tra un momento: per ora consideriamone il contenuto, che è ragionevole supporre veritiero.


Tre anni di “rigore” (litòtita, si dice da queste parti, con un termine la cui storia attiene più alla sfera della miseria che non a quella della disciplina) hanno prodotto nell’economia greca degli effetti dirompenti:
- si sono operati tagli draconiani negli stipendi, nelle pensioni e nella sanità (rispettivamente 48, 25 e 14 miliardi di euro): per intenderci, un professore ordinario con 30 anni di anzianità ha perduto 700 euro al mese su 2700 (i suoi corrispettivi in Italia guadagnavano quasi il doppio, ora quasi il triplo), e ovviamente – benché abbia dovuto potentemente ristrutturare il suo train de vie – rientra ancora fra i privilegiati, anche perché a differenza di altri statali non è stato (ancora) licenziato; tagli della medesima proporzione hanno colpito stipendi e pensioni di entità assai minore, nonché i bilanci degli ospedali e di tutto il sistema sanitario nazionale, che infatti in molti casi non è in grado di garantire né gli interventi programmati né i farmaci provenienti dall’estero; per l’estate il memorandum imposto da Banca Centrale e Fondo Monetario prevede un ulteriore giro di vite pari a diversi punti di PIL; 
- grazie ai suddetti tagli di spesa, vi è stata un’indubbia contrazione del deficit pubblico, con la peraltro flebile prospettiva di un avanzo primario per il 2013 (per ora siamo ancora a -2 miliardi); 
- nel contempo, si è assistito a una discesa del PIL del 12,5% in tre anni, senza nessuna realistica prospettiva di miglioramento; basti pensare che in grazia della perdurante instabilità perfino il turismo, forse ormai la principale industria del Paese, subisce perdite del 30-40% rispetto all’anno scorso; 
- a causa di tale contrazione, in barba al severo aumento della pressione fiscale sui patrimoni e sul reddito, vi è stata una forte riduzione delle entrate: per dare un esempio (e per capire l’allarme di Papadimos), quelle del mese di maggio sono crollate in modo verticale, sia per l’ancestrale abitudine ad allentare le riscossioni in periodo elettorale, sia – e in misura molto più significativa – perché le attività produttive si stanno ormai quasi tutte arenando;
- in conseguenza di ciò, la disoccupazione ha superato il 20%, quella giovanile il 50%; 
- la spesa per interessi sui buoni del tesoro e sui prestiti, è e rimane del tutto fuori controllo nonostante la “tosatura” di qualche mese fa, e – complici le sperate iniezioni di liquidità da parte di Draghi e Lagarde (quelle cioè da cui dipendono gli stipendi di giugno) – il debito è ovviamente destinato a crescere su se stesso (in due anni FMI e BCE hanno acquistato il 35% del debito greco, che ammonta a 347 miliardi);
 - in questo quadro, le quattro banche più importanti (Nazionale, Alpha, Eurobank e Pireo), che da tempo avevano perduto ogni accesso ai mercati internazionali, negli ultimi mesi hanno visto sparire miliardi di depositi, migrati verso istituti di credito di Paesi più solidi: esse sono state de facto nazionalizzate con i soldi della BCE e del Fondo di stabilità europeo, e ovviamente non hanno ormai alcun margine di manovra in termini di investimenti o di “crescita”, badando unicamente (impresa assai perigliosa) a non fallire.

Preciso che il quadro che ho sommariamente delineato non è tratto da un volantino anarchico, bensì dal più autorevole giornale greco, il Vima (rapporto sulle finanze pubbliche del 27 maggio 2012), il quale è più o meno apertamente schierato a favore del memorandum e della politica di rigore fin qui seguita.

E da allora sbando di strada in strada / accumulando ferite e esperienze. / Gli amici che amai sono ormai perduti /
e sono rimasto solo con la paura che mi veda qualcuno / a cui parlai un giorno d’ideali
(Dinos Christianòpulos, Itaca, da Il tempo delle vacche magre, 1950; trad. R. Capel Badino
)


Dinanzi a un simile abisso di desolazione non credo ci voglia un economista di rango per prestar fede alle facili profezie di chi da gran tempo (penso a Krugman, a Gallino, per non parlare di Latouche o di altre presunte teste calde) oppure da pochi mesi (penso all’ineffabile Soros, o perfino al Financial Times) osserva che la ricetta somministrata alla Grecia (e in dosi minori a Italia e Spagna) è stata ed è del tutto fallimentare, non già nella misura o nella tempistica degli interventi proposti, bensì nella loro stessa natura.

Non si vede in che modo la dilazione o l’allentamento di certe clausole (interventi cui pure la BCE e la Germania si oppongono fieramente, preoccupati di non creare precedenti con altri Paesi in analoghe difficoltà) potrebbero da soli risolvere la sostanza del problema. Esclama saggiamente l’anziano scrittore Vassilis Vassilikòs, l’autore del fortunato Z – l’orgia del potere (e fautore del governo Papadimos), che la Grecia continua a fungere da cavia per gli esperimenti dell’Occidente: nel 1947 con la dottrina Truman (che condusse alla guerra civile), negli anni ’60 con la strategia dei colpi di Stato (tentata anche da noi, e in Grecia andata a segno), oggi con lo strangolamento finanziario. Forse questa inquietante e innegabile progressione storica, cui per molte ragioni il nostro Paese non può sentirsi estraneo, potrebbe orientare gli attuali commenti sulla situazione greca più ancora che un polveroso, e per molti ahimè irritante, richiamo di principio all’eredità di Pericle o di Demostene.

Per la qual cosa, oltre al generale senso di lealtà a cui si è obbligati nei confronti di tutti, ho
l’impressione che in più noi siamo debitori in modo speciale verso una popolazione come
codesta, nel senso che, vivendo a stretto contatto con costoro appunto, dai cui
insegnamenti siamo stati spiritualmente formati, vogliamo dispiegare ciò che da essi
abbiamo imparato. (Cicerone, Epistole al fratello Quinto 1.1.28)


L’argomento più in voga è che i Greci sono responsabili della loro stessa rovina. È un argomento che non alberga solo nelle cancellerie delle grandi potenze: molti Greci ne sono convinti, e sostengono pubblicamente la responsabilità dei politici e del popolo in questa catastrofe economica. Ora, è indubbio che il livello di corruzione nel Paese sia stato sempre elevatissimo: chiunque abbia avuto occasione di frequentare ministeri o istituzioni pubbliche e private negli anni passati, sa bene che i rapporti personali, i favori, gli sprechi, erano (e in parte continuano ad essere) il metronomo di quasi tutto quello che si muove. Un sistema così capillare che non può essere imputato ai soli politici, ché ovviamente sono stati i Greci medesimi a beneficiarne, in maggiore o minore misura: come spiegare altrimenti il lievitare sistematico dei costi di qualunque opera pubblica, o le finte pensioni (“pensioni-scimmia”, le chiamano) che per esempio foraggiavano a Zacinto

2500 ciechi su 40.000 abitanti? E poi, naturalmente, sono stati truccati i conti pubblici, peraltro da quei medesimi partiti (ci torniamo tra un attimo) che ora si presentano e vengono invocati come salvatori della patria e dell’Europa.

Ma la realtà è che la corruzione, l’evasione, l’occultamento, hanno rappresentato solo la scintilla della crisi: quando nel 2009 Ghiorgos Papandreu denunciò i cospicui trucchi contabili nei bilanci pubblici, la reazione dell’Europa, che poteva circoscrivere il problema facendosi garante dell’ammanco, fu esitante, parziale e soprattutto tardiva; quella del sistema finanziario internazionale, invece, non si fece attendere un minuto, e precipitò il Paese in un gorgo di tassi elevati, insolvenza e necessità di ulteriori prestiti, nel quale sta – con la complicità di tutti noi – vieppiù sprofondando.

Ora, nessuno vuole assolvere i Greci dalle loro responsabilità, anche se sarebbe quanto mai opportuno guardare anzitutto alle nostre, e chiederci se la nostra vita pubblica sia davvero immune dalle pecche che hanno affondato l’Ellade (o, tanto per dirne una, misurare l’entità del nostro debito pubblico, o ricordare cosa stava per accadere nel novembre del 2011). Il punto è che tali responsabilità, oggi spesso brandite come una chiamata di correità collettiva per consolidare nella popolazione un formidabile e paralizzante senso di colpa, di debito, non avrebbero mai provocato questo disastro se l’Europa si fosse comportata altrimenti (cioè se fosse stata una cosa diversa da quella che è, e da quella che con ogni evidenza vuole continuare ad essere: beati gli illusi da Hollandreou), e se i mercati finanziari non avessero avuto la libertà di saccheggiare a loro piacimento. È su questo pensiero, se non su contestabili e apparentemente obsoleti sentimenti di solidarietà e di fratellanza, che dovrebbe poggiare una critica dell’esistente e del futuro.

Com’è noto, la via di fuga di cui si parla sempre più assiduamente è l’uscita dall’euro : vedo che ormai alberga stabilmente sulle pagine del Financial Times e della Frankfurter Allgemeine, a mezza bocca anche nei corridoi di Bruxelles, e vedo che perfino Paolo Savona inizia a contemplarla per l’Italia: l’impressione è che si tratti di uno scenario molto più realistico di quanto non si voglia dire apertamente.

Limitandosi alla Grecia, e lasciando da parte improvvisati scenari come quelli della nuova moneta “Geuro” invocata da un solerte finanziere della Deutsche Bank (un’idea che pare non tener conto della legge di Gresham), sembra vi sia consenso sulla previsione che un’uscita dall’Eurozona implicherebbe lì per lì la svalutazione del 50% della nuova dracma, un’inflazione del 20-30% destinata ad annullare i vantaggi della maggiore competitività (vantaggi comunque limitati in un Paese che esporta poco), un’enorme perdita di ricchezza, una forte carenza di petrolio e medicinali, un’ondata di licenziamenti e di fallimenti che preluderebbero a 3-4 anni di vacche magrissime, pur accompagnati abbastanza preso – dopo aver toccato il fondo – da un lento principio di ripresa.

Insomma, un bagno di sangue di tipo argentino, che viene costantemente agitato come spauracchio dinanzi ad elettori sempre più spaventati del loro recente ardimento. Nel volgerci dunque all’aspetto propriamente politico del fenomeno (si tratta di fare delle scelte, anzi di fare l’unica scelta che ormai resta in mano ai Greci, una scelta binaria di tipo 0-1), sia lecito almeno palesare il sospetto che altri anni del “salvataggio” fin qui sperimentato potrebbero rappresentare uno scenario financo peggiore: la morte lenta – e probabilmente non scevra di traumi – di un popolo senza ragionevoli prospettive di poter mai riprendere in mano il proprio futuro.

Sognava una patria infinita. Dov’è il vostro volto, / il vostro vero volto? mi gridò. / Se ne
andò in lacrime salì sui monti luminosi. / Poi le navi recintarono il mare. / S’annerì la terra
la travolse un brutto inverno. / S’annerì il cervello un lungo fiume il sangue. / Filippo non
tornerà. Stasera vento forte. / Mezzanotte a Làrissa il caffè deserto
(Takis Sinòpulos, Filippo, da Terra di confine II, 1957)
 


2. Volatilità

In greco le parole fanno miracoli. L’aria che si respira in questo convulso fermo immagine tra un’elezione e l’altra, è quella di una terra di nessuno, di una terra di confine, di quel concetto intraducibile che in greco si chiama metèchmio, e che indica in una battaglia lo spazio tra due punte di lancia contrapposte, ovvero il luogo che si estende tra una falange in armi e quella nemica (mi vengono in mente le punte di lancia che Christos Karàs sovrappone a bisunte bandiere rosse in un bel dipinto del 2006 ora esposto alla Fondazione Theocharakis di Atene). Più che l’attesa della finale da rigiocare (come nell’Europeo del ’68), lo schieramento di forze in campo fa pensare ad aggiustamenti di posizione in vista della giornata decisiva per la conquista o il mantenimento di un potere sempre più fragile, sempre più esautorato, eppure ricco del fascino indiscreto di Elena e di Troia.

Ciò a cui si assiste nella vita politica greca (e non solo in quella: basti pensare a un deprimente Cohn-Bendit, cui ha replicato la parlamentare Rena Dourou, prima di essere picchiata dai nazisti in diretta tv ) è sostanzialmente un tiro a segno contro la rivelazione del voto del 6 maggio, il partito SYRIZA (un acronimo che vuol dire “Coalizione della sinistra radicale”, e che ricorda la nascita da un amalgama non sempre riuscito di diversi movimenti), e contro il suo giovane leader Alexis Tsipras.

Non solo i partiti che sostenevano il precedente governo Papadimos (cui fornivano peraltro tutti i ministri, a differenza di quanto accade chez nous), ma anche molti giornali e televisioni sono impegnati in una campagna martellante contro il “salto nel buio” che rappresenterebbe per la Grecia la vittoria di questi avventurieri. Li si taccia di populismo, di approssimazione, di settarismo interno, di incapacità di governare, di collusione con i terroristi del gruppo “17 novembre”, di simpatie per il socialismo reale, di velleitarismo da studentelli, di spaventare i partners europei, di fomentare l’antipolitica del popolino.

Ora, non conosco personalmente alcun membro di SYRIZA, e reputo probabile che vi siano all’interno di questa coalizione persone discutibili, inesperte o poco brillanti; ed è indubbio che una vittoria di SYRIZA porrebbe problemi di governabilità alla luce delle lotte intestine alla sinistra (soprattutto l’apparentemente insanabile spaccatura con i comunisti del KKE, pure attestati su posizioni non troppo distanti su diversi temi). So però, avendo letto con qualche attenzione le 50 pagine del loro programma di governo, che essi propongono una piattaforma chiara:
- rigettare il memorandum e il “salvataggio” come fonti primarie dei mali sopra descritti, e brandire la catastrofe greca come un’”arma nucleare” (una pistola puntata) per indurre una svolta radicale nella politica europea;
- cancellare le recenti decisioni iugulatorie sul salario minimo, il taglio degli stipendi e i licenziamenti di massa;
- promuovere una moratoria internazionale del pagamento degli interessi sul debito, rimandandolo a tempi in cui l’economia sia in espansione, nel quadro di un’iniziativa globale volta a prevenire che il caso greco si replichi (come ineludibilmente si sta replicando) in altri Paesi assai più difficili da “salvare”;
- mantenere come primo obiettivo la riduzione della disoccupazione, e lottare contro il lavoro flessibile, la precarietà, il lavoro nero, i contratti individuali, la riduzione del salario minimo;
- incentrare la politica greca sui beni comuni, sull’istruzione pubblica, sugli investimenti pubblici, sulla fine delle privatizzazioni di beni e servizi, su una più rigida separazione fra Stato e Chiesa;
- istituire un vero registro dei beni immobili per poter effettuare importanti prelievi sui grandi patrimoni, e per avviare (tramite una serie di dettagliate revisioni normative e abolizioni di privilegi) una riforma fiscale destinata ad abbattere davvero l’evasione;
- avviare un serio programma di assistenza ai poveri, ai senzatetto, ai migranti, e rilanciare in particolare la politica agricola, oggi in gravissima sofferenza finanziaria;
- abolire le procedure “d’urgenza” (il cosiddetto fast track) che spesso consentono di avviare grandi opere deleterie per l’ambiente senza i dovuti controlli; prevedere dunque che ogni decisione politica sia il più possibile “partecipata”;
- imporre regolamenti anti-corruzione molto più rigidi e specifici, che nessun altro partito potrebbe sostenere (eliminazione dell’immunità per deputati e ministri; controlli da parte di agenzie indipendenti; rendiconto dettagliato del finanziamento pubblico);
- democratizzare le forze dell’ordine e impedire loro di travalicare il mandato in occasione delle manifestazioni di piazza;
- ritirare le forze armate dalle “guerre umanitarie”, togliere il sostegno agli scudi antimissile della NATO, cessare la cooperazione militare privilegiata con Israele, avviare una politica di pace che miri a risolvere la questione macedone senza pregiudizi nazionalistici, e quella cipriota creando uno stato unitario bietnico;
- avviare contatti e legami anche con paesi extra-europei (Russia, Cina, Sudamerica) in vista di possibili investimenti comuni.

Chiunque ritenga questo programma demagogico, generico o velleitario, non ha chiara contezza della realtà quotidiana del Paese: non sa quale punto abbia toccato il disagio sociale, quanto forti e lampanti siano le disuguaglianze, quanta parte abbiano il lavoro nero e l’evasione delle imposte nella formazione dei grandi capitali, quali disastri abbiano causato o rischino di indurre le privatizzazioni indiscriminate e le svendite di beni pubblici, quali modi usi (o non usi) la polizia greca nella repressione dei dimostranti, quale peso conservino nel dibattito pubblico i residui di un becero nazionalismo, quale necessità si avverta di regolamentare la strisciante penetrazione russa e cinese nell’economia, quanto infine la corruzione sia un affare non solo di politici ma anche di medici, di banchieri, di magistrati, e ultimamente perfino di monaci.

Quello di SYRIZA può sembrare un libro dei sogni, e sicuramente le premesse economiche sono fragili, e sicuramente nessun partito potrebbe mantenere alla lettera promesse così ambiziose; tuttavia, se un programma politico deve avere un senso e non semplicemente un ruolo formale, a me questa pare l’unica piattaforma che dia fiato, almeno sulla carta, a un disegno diverso di società, l’unica costruzione che – con tutti i limiti del caso – si proponga come una visione del mondo effettivamente alternativa a quella esistente. Di più, mi pare – nella stretta della crisi – l’unica proposta davvero “progressiva”, cioè dichiaratamente destinata a trainare l’azione di chi la sappia ascoltare, soprattutto tra le sinistre di establishment di Spagna, Portogallo, Italia, che hanno rovinosamente perso consensi, oppure faticano a trarre vantaggio dalle sconfitte altrui.

Si tratta di una scommessa pericolosa, non c’è dubbio: se dinanzi a questa politica l’Europa lascerà fallire la Grecia senza fare altro, è facile previsione che avrà a pentirsene nel giro di poche settimane (l’edificio imploderà, e non è chiaro chi riuscirà a sfuggire alle macerie); se invece almeno una parte dell’Europa ascolterà, senza perder tempo in ciance, le idee messe sul piatto da questo movimento – come da molte altre persone meno univocamente definibili come “estremiste” –, esiste una pallida speranza che il continente venga ad acquisire rapidamente, e non a babbo morto, quella fisionomia che per vent’anni si è pervicacemente rifiutato di accettare. È un’alternativa rischiosa, per i Greci e per tutti noi: ma forse è meglio di una morte indefinitamente prolungata.

Quando sento trombe e marce marziali / discorsi interminabili inni e clamori / quando
sento che parlano di libertà / di leggi di vangeli di una vita ordinata / quando sento che
ridono / quando sento che parlano di nuovo / io taccio sempre. //
Ma prima o poi, quando il
silenzio freddo bagnerà la terra / quando si esauriranno le ciance insignificanti / e tutti loro
attenderanno di certo la voce / io aprirò la bocca / i giardini si riempiranno di cascate /
negli stessi sozzi cortili negli arsenali / i giovani infuriati seguiranno con versi senza inni /
né sottomissioni al terribile potere. //
Vi offro di nuovo una visione
(Michalis Katsaròs, Quando, da Contro i Sadducei, 1953; trad. N. Crocetti)

La politica del terrore praticata dalle forze del passato governo, e sapientemente coadiuvata dai media, sta dando i suoi frutti: il 65% dei Greci pare oggi disposto a restare nell’euro anche con il memorandum (le percentuali del 6 maggio, a voler contare anche gli astenuti, parevano andare in direzione opposta), una quota analoga si dichiara a favore delle privatizzazioni, una maggioranza è comunque convinta che alla fine vincerà il partito conservatore Nea Dimokratía. E si sa che non pochi elettori orientano il voto su chi pare destinato a vincere (cosa che, a voler essere pignoli, getta l’ombra del sospetto sugli stessi sondaggi che i media diffondono). Ad ogni modo, prendiamo per buona la realistica ipotesi che il primo partito (quello cioè destinato a ottenere il cospicuo premio di maggioranza) sia di nuovo, sia pure per 2-3 punti, non già SYRIZA, bensì Nea Dimokratìa. In tal caso, lo scenario sicuro è quello di un governo fra ND stessa, il Partito Socialista (PASOK), e – ove necessario – DIMAR (“Sinistra democratica”, frazione nata da una costola di SYRIZA e più moderata di quest’ultima, anche se nominalmente più a sinistra del PASOK).


Chi deplora il declino della politica farebbe bene a riflettere sul contributo dato a tale esito dallo svuotamento assoluto dei programmi di Nea Dimokratia e PASOK, i quali per anni si sono aspramente combattuti, e improvvisamente rinunciano a qualunque identità propria, a qualunque visione del mondo in nome di una große Koalition innervata soltanto dalla fedeltà al diktat della trojka (non resta nessun altro margine di azione, in una prospettiva di governo del Paese che si risolve nell’amministrazione della catastrofe esistente e delle politiche imposte da fuori: nessun paragone, dunque, con l’alleanza fra SPD e CDU nella Germania di qualche anno fa). Dinanzi a questo scenario, il pur troppo ambizioso programma di SYRIZA acquisisce una dignità immediata, quasi involontaria.

Il Paese si troverà dunque probabilmente a essere governato da Andonis Samaràs, capo di ND, uomo politico compromesso e di basso profilo, capace per esempio di urlare nel Comitato centrale del suo partito una frase incredibile quale «Il Partito Comunista (KKE) e SYRIZA hanno reso la Grecia un Paese senza investimenti, senza competitività, senza opportunità» – come se negli ultimi vent’anni quei due partiti fossero mai stati al governo, nelle stanze in cui invece erano mollemente adagiati, in una ferace alternanza di consorterie, i suoi stessi compagni conservatori e i socialisti. Samaràs è poi un uomo dalle idee politiche così chiare che pochi giorni fa, pressato dalla necessità di raggranellare voti e dalla difficoltà di richiamare all’ovile quei destrorsi dei “Greci Indipendenti” di Panos Kammenos, ha riammesso con tutti gli onori nel partito la lady di ferro Dora Bakoyanni, espulsa mesi fa dopo aver votato a favore del primo memorandum europeo, quello di Papandreu, cui Samaràs e gli altri – ora tardivamente folgorati sulla via di Francoforte – avevano opposto un fermo diniego.

Il socialista Ghiorgos Papandreu, salvo curarsi di avere per sé un seggio “sicuro”, è praticamente scomparso dalla scena, sopravanzato in lezioni di moralismo dall’antico premier Kostas Simitis, primo artefice dell’ingresso del Paese nell’euro, il quale getta ora la croce del tracollo addosso ai suoi successori, e invita comunque a votare PASOK. Il PASOK, appunto, è in mano al pingue Evànghelos Venizelos, già molte volte ministro e recente vice-premier, il quale dopo aver attraversato decenni di politica è ora impegnato a ricostruire una verginità per sé e per il partito, decimato dalla recente perdita del 30% dei voti.

Venizelos evidentemente spera che qualcuno – al di là delle clientele – creda ancora in un’idea di socialismo naufragata sulla genuflessione ai dettami dei banchieri, e soprattutto schiantatasi contro scandali giganteschi come quello che ha portato in galera (in galera!) l’ex ministro della Difesa Akis Tsochatzòpulos, sorpreso a riciclare denaro, corrompere e concutere, e soprattutto ad intascare mazzette di milioni di euro sugli onerosi contratti di compravendita di armi e sommergibili, coi quali la Grecia finiva d’ingigantire il suo debito e d’ingrassare la Siemens e altre imprese della sanissima e moralissima Germania – la casa di Tsochatzòpulos con vista Partenone pare fosse fornita, tra l’altro, di una scarpiera del valore di 1200 euro (vuota).

Vogliamo compagni di scuola albanesi, colleghi afghani, vicini pakistani e calci in culo ai
fascisti (beh, certe cose non si ottengono con il voto)
(manifesto del Movimento antifascista, via della Fonte vivificante, Exàrchia, Atene)


Che questa classe politica si faccia ora paladina del merito, della competitività e della produttività, potrebbe suscitare semplicemente un’amara risata, se il ciclone politico in atto non avesse come effetto collaterale, noto ai media di mezzo mondo, il male più appariscente di tutti: il ritorno delle svastiche. In molti hanno descritto l’irresistibile ascesa del movimento neonazista “Alba dorata”, balzato in otto mesi da percentuali infinitesime fino al 6% dei voti, come una parabola inspiegabile, come un deplorevole esito della crisi, come un assaggio di Weimar. Dopo la fine del regime dei Colonnelli (1974) l’estrema destra greca era sempre stata ospitata in un’ala silenziosa di Nea Dimokratia, iniziando a sdoganarsi negli anni ’90 sull’onda del fenomeno Le Pen, e poi sull’onda dei rigurgiti di nazionalismo indotti dal massiccio arrivo di migranti e dallo scoppiare della questione macedone. Da questa humus trasse linfa il partito LAOS (acronimo che sta per “Popolo”), guidato da Ghiorgos Karatzaferis, un fascistone ripulito che pochi mesi fa fu imbarcato con un ruolo determinante all’interno del governo Papadimos.

Abbraccio mortale: l’appoggio alla coalizione del memorandum prosciugò il bacino elettorale di Karatzaferis, a tutto vantaggio dei suoi compagni scissionisti che avevano appena fondato “Alba dorata” (tra loro il famigerato Nikos Michaliolakos), i quali hanno semplicemente iniziato a dare libero sfogo agli ideali della loro grande famiglia politica, permettendosi intemperanze di stampo hitleriano destinate a vita facile nell’inverno del generale scontento, dell’antipolitica, dell’impazienza. Questa, per essere chiari, è gente che mena.

Ora, il voto per i nazisti è un voto di protesta, certo. Ma forse per rispondere al dilemma di come possano entrare le svastiche in un Parlamento fondato sulla memoria della lotta antinazista (forse uno dei pochi miti fondativi condivisi di un Paese altrimenti lacerato), bisogna porre altre domande: chi ha sdoganato Karatzaferis come uomo di governo? chi ha volutamente ignorato per anni le disastrose condizioni dei migranti di Patrasso, salvo poi lasciare campo libero ai nazisti nei recenti (e tuttora perduranti) raid contro gli stranieri? chi ha lasciato per mesi il centro di Atene in balia di squadracce di naziskin pronte a pestare indisturbate chiunque avesse la pelle scura? chi ha dato ordine che la polizia accompagnasse i picchiatori allo spaventoso pogrom contro gli stranieri lanciato da “Alba dorata” dopo l’assassinio di M. Kandaris ad Atene nel maggio 2011? chi ha tentato di convogliare questa deriva “dialogando” a livello locale con i caporioni dell’”Alba”, stampando alla chetichella i loro volantini, o meglio ancora denunciando ai quattro venti che la Grecia si trova sotto lo scacco di una “bomba sanitaria” e promuovendo così (in modo spettacolare il 29 aprile) retate di prostitute straniere sottoposte a esami medici forzati, a sequestri di beni, detenzioni e liste di proscrizione?

Le responsabilità di queste iniziative politiche, di cui pian piano maturano i frutti, sono interamente a carico dei “salvatori dell’euro”, PASOK e Nea Dimokratia; e si prova un brivido a pensare che l’ultima – accompagnata dalle lamentele contro gli “sprechi a favore dei clandestini” – sia stata lanciata da un altro ministro socialista, Andreas Loverdos.

Grecia dimenticata, sola, che di notte / ti aggiri con i capelli sciolti / vendendo fiori nei locali
notturni, / scivolando tra musiche e automobili / tra spioni e apatici avventori, / camerieri
che cambiano turno, e quei due / che buttano volantini nell’ombra
(Titos Patrikios, da I giacimenti del tempo, 1954; trad. N. Crocetti)

 

3. Quando tutto scorre

Le parole, in greco, fanno miracoli. Nessuna provvidenza umana avrebbe potuto mettere a capo del governo di questa transizione impossibile, un re di maggio dal nome più parlante di (Panayotis) Pikrammenos, che in greco vuol dire “Amareggiato”. Non ci sono più parole per descrivere l’amarezza dei Greci, quella che si percepisce nel centro di Atene costellato di cessate attività, lungo le medesime strade che tra 2008 e 2009 ricordavo annerite dal fuoco dei contestatori incappucciati. I suicidi sono aumentati (del 40% nel 2011), le code davanti al centro di Médecins sans Frontières e alle mense dei poveri si allungano ogni giorno, sempre meno persone hanno i soldi per curarsi, l’abuso di alcol e le devianze crescono, soprattutto gli anziani (un quarto della popolazione è over 60) sono esposti ai colpi di ventura. E’ possibile captare nei gesti di alcuni di loro, palesemente poco adusi alla questua, quella stessa inesperienza e quello stesso pudore nel chiedere che noi Italiani conosciamo dalla scena più celebre di Umberto D.

Ma quasi tutti i cronisti di questa crisi si fermano ad Atene, che per grandezza e popolazione è il centro indiscusso del Paese, descrivendone angoli più o meno noti, celebrando le scritte tucididee sotto il Parlamento bruttato dalle molotov, costeggiando gli austeri edifici neoclassici di Via dell’Università (roba tedesca, appunto, dunque un po’ rassicurante, anche se sulle marmoree fiancate fioriscono scritte del tipo “I banchieri nella cella più buia”, “Benzina e fuoco ad ogni banca”, ma pure l’onnipresente “Pane e rose”, oppure “Terrorismo è la mattina del lunedì”). Al massimo constatano il degrado dei giardini del Campo di Marte, o si avventurano nel dedalo di Exàrchia, un vero Stato nello Stato dove la polizia entra di rado e dove gli anarchici ignorano le leggi e presidiano la loro roccaforte, cospargendo i muri di via Temistocle (sì, via Temistocle) di ogni sorta di appelli alla mobilitazione contro lo Stato, le multinazionali, lo sfruttamento, il razzismo e i fascisti.

Pochi sono i giornalisti che si avventurano nel nord, verso la contesa Macedonia, nell’unica grande città greca che, come ama ricordare l’anziano poeta Dinos Christianòpulos, abbia conosciuto una vera continuità abitativa e storica negli ultimi 2400 anni: intendo Salonicco, capitale imperiale e poi metropoli inferiore solo a Bisanzio, centro pulsante dei traffici in età ottomana e ora seconda città della Repubblica.

Chi voglia appurare quale sia l’attaccamento di questi Greci del nord alla loro terra, potrà visitare il Museo archeologico e il Museo bizantino, veri scrigni d’identità e veri gioielli espositivi, échantillons di come in questo Paese, al di là delle ruberie e della corruzione, si sia stati capaci di creare realtà di prim’ordine là dove prima era tutto scalcinato (e penso ovviamente anche al Museo dell’Acropoli di Atene, al metrò della capitale, all’aeroporto, a tutte quelle opere pubbliche che ora il memorandum vuole progressivamente privatizzare, cioè svendere).

Certo, ha un ruolo in questo l’opposizione nazionalistica alla FYROM di Skopje creatasi dopo la dissoluzione della Jugoslavia – un Paese della cui propensione sciovinistica abbiamo già detto altrove; ma se i giovani hanno come punto di ritrovo l’arco di Galerio, se dai recentissimi scavi di Metone emerge il più antico trimetro giambico della grecità, se nelle strade si leggono i versi bizantini di Kavafis, se il Museo promuove una mostra sul recupero delle opere d’arte classiche trafugate (ancora pochi mesi fa, dal Museo di Olimpia), se l’Università “Aristotele” organizza convegni internazionali di alto profilo sulla poesia alessandrina o sulla paleografia greca, non tutto può essere ascritto a un sentimento nazionalistico: si tratta di chiara consapevolezza culturale.

Il 2012, a Salonicco, non è l’anno della profezia dei Maya, anche se passeggiando nel lunghissimo tratto urbano della via Egnazia (la strada romana che portava da Bisanzio a Durazzo, e che nel corso dei secoli ne ha viste tante) si resta colpiti dalla teoria infinita di negozi chiusi, di edifici in vendita, di vetrine coperte da teli, manifesti o semplici assi di legno – soli brillano nella desolazione i “Compro oro”, i bugigattoli che vendono le sigarette elettroniche, e le grandi astronavi della catena gastronomica Blé, dove i ricchi consumano lussureggianti leccornie mentre i poveri e i nuovi poveri (sembra di essere in un dipinto del nostro Divisionismo politico di fine ’800) allungano dalla strada sguardi invidiosi, forse memori del fatto che tra 2010 e 2011 il proprietario di Blé è stato arrestato per evasione fiscale e condannato per sfruttamento delle sue maestranze, il tutto senza che poi le cose siano sostanzialmente cambiate né per il fisco né per i malcapitati lavoratori.

Dimmi tu che cosa non hai tradito / Tu e i tuoi simili, per anni e anni, / Avete svenduto uno
per uno i vostri beni / Sui mercati internazionali e nei bazar popolari / E siete rimasti senza
occhi per vedere, senza orecchie / Per ascoltare, le bocche sigillate, senza parlare. / In
nome di quali sacri valori ci accusate?
(Manolis Anaghnostakis, Poetica, da Il bersaglio, 1970; trad. N. Crocetti)


Il 2012 a Salonicco è l’anno di un centenario, il centenario della liberazione della città dal dominio turco, del giorno in cui Selanik tornò a chiamarsi Thessaloniki come quando era stata fondata da Cassandro alla fine del IV secolo avanti Cristo. Ed è proprio in relazione a questo centenario che vorrei condurvi in due luoghi, dove la ricorrenza viene vissuta in modi opposti.

Il primo è un’antica officina tessile situata a un paio di chilometri dal centro, un edificio assolutamente délabré occupato 8 anni fa da un centro sociale: la Fabrica Yfanet . Il visitatore è accolto da scritte un po’ inquietanti (“Siamo tutti incappucciati”, con riferimento agli autori delle guerriglie urbane degli ultimi anni, che qui si fiancheggiano, più di quanto si programmino), e da condizioni di sicurezza e di igiene alquanto precarie; ma basta andare un po’ oltre la superficie per rendersi conto del contributo sociale e di pensiero che questa compagine fornisce nella zona in cui opera. Sul contributo di pensiero, di stampo lato sensu anarcoide, molti avranno da eccepire, anche se – piaccia o meno – nella sullodata desistenza della politica ufficiale è questo il centro della lotta pregiudiziale contro ogni tipo di fascismo, della battaglia per l’obiezione di coscienza, della denuncia delle assurde spese per armamenti, di un franco pensiero anticlericale.

Questo è il luogo dove si ricorda ciò che altrove si sottace, ovvero come la centenaria storia della città sia stata segnata dalle persecuzioni anti-musulmane degli anni ’10, dai pogrom anti-ebraici del 1931, dal fuoco sugli scioperanti nel 1936, dall’uccisione di Lambrakis nel 1963, dalle vaste complicità con la Giunta dei colonnelli, dalle rivendicazioni nazionalistiche sulla Macedonia negli anni ’90, dal recente scandalo dei monaci atoniti di Vatopedi (coinvolti in una incredibile vicenda di corruzione a bse di mazzette, leggi ad personam e crisobolli bizantini che ha fatto tremare larga parte della classe politica greca: ne ha scritto il procuratore Ilias Koliussis in un libro recentissimo e documentato). Qui dunque si denuncia il giogo basato su discriminazioni di sesso, di razza e di classe (lo Stato, il Patriarcato, il Capitalismo), che avrebbe bloccato lo sviluppo democratico del Paese e della Macedonia in particolare.

Qui, infine, volantini degli universitari protestano contro la governance esterna degli Atenei, la carta di credito data agli studenti in luogo del libretto, lo spezzatino dell’insegnamento in unità sempre più concentrate e corte, la differenziazione del valore dei titoli di studio a seconda del corso di laurea, il taglio del finanziamento pubblico, il crescente classismo ed elitarismo (tutte realtà da tempo affermatesi nel sistema educativo italiano, e digerite dai più con pochi sussulti).

Sul contributo sociale, invece, è difficile fare gli schizzinosi: in quartieri martoriati dalle insolvenze e dalla povertà i centri sociali svolgono un ruolo insostituibile di assistenza al disagio, per esempio nei confronti di chi, per qualche ritardo o mancanza nei pagamenti, ha subito il taglio della corrente elettrica, secondo una legge che peraltro la stessa Corte Costituzionale la scorsa settimana ha giudicato nulla. Nell’arretramento dello Stato, l’associazionismo dei cittadini che recuperano spazi abbandonati (la “Scuola per l’apprendimento della libertà”), progettano uno Spaccio sociale, assistono gli immigrati e i malati indigenti, e s’ingegnano per alleviare i gravosi costi dei libri di scuola e delle fotocopie, insomma ogni forma di intervento concreto nel sociale non ovvia solo ai problemi dell’oggi, ma tenta di evitare che un simile aiuto – come purtroppo avviene spesso nelle grandi città – venga offerto dai nazisti di “Alba dorata”, dietro la garanzia di un voto.

È ancora qui, per fare un esempio concreto, che si discute animatamente dell’incredibile piano di devastazione ambientale avviato dalla canadese European Goldfields per lo sfruttamento delle miniere aurifere della Calcidica, nella zona di Skuriès, a 80km da Salonicco. Miniere svendute dallo Stato greco (PASOK e ND) in quattro e quattr’otto per pochi milioni (il famoso fast track, la “corsia preferenziale”), e ora quotate alla borsa di Toronto ben 2,3 miliardi di euro. Miniere destinate a diventare l’epicentro di uno scavo apocalittico, che non solo spazzerà via ettari di boschi, ma anzitutto contaminerà un terreno fertile e, potenzialmente, fondamentali falde acquifere con veleni come il cianuro, lo stesso che nel 2000 si riversò nel Danubio dopo l’incidente della miniera di Baia Mare in Romania. E dopo pochi anni di sfruttamento intensivo e lucroso (si prevedono 15 miliardi di ricavi dal metallo estratto) la multinazionale potrà fare le valigie senza essere obbligata per contratto ad alcuna opera di bonifica. Questo affare è così grosso che in un recente simposio universitario otto diversi luminari ne hanno descritto a chiare note i pericoli, senza peraltro smuovere peraltro il Rettore di Salonicco dal suo atteggiamento di cauta apertura nei confronti di questa “grande possibilità di occupazione e di sviluppo per la nostra terra”.

Ecco, bisogna finire in una fabbrica occupata per sentir parlare di un diverso modello di sviluppo; e per ricordare che fu proprio grazie all’argento delle miniere del Laurion che nel V secolo a. C. Temistocle introdusse ad Atene la pazza idea di una gestione democratica della cosa pubblica.

Ma a che giova rievocare tali episodi? Infatti potrebbe accadere che coloro che un tempo
furono coraggiosi siano diventati pusillanimi e viceversa. Si è già troppo parlato del
passato lontano.
(Erodoto, Storie 9.27.4)


L’altro luogo in cui vorrei condurvi è meno eccentrico: si tratta dell’annuale Fiera del libro di Salonicco . In un quadro forzatamente “sobrio”, tutti i maggiori editori greci hanno presentato anche quest’anno il loro piccolo stand nella piccola kermesse (un paio di lunghi capannoni, peraltro affollatissimi di cittadini e di curiosi); ospite d’onore è la Serbia, e viene spontaneo chiedersi se sia un caso o se invece prefiguri una tendenza di avvicinamento culturale e politico tra i Paesi ortodossi dei Balcani.

Tra i molti temi trattati in una fitta serie di conversazioni pubbliche (colpisce quanti “competenti” siano invitati a parlare: critici, scrittori o docenti universitari, con rari cedimenti alla società dello spettacolo; e il pubblico attentissimo) spicca il rapporto tra Grecia e Germania, metafora ormai trasparente delle gravi difficoltà del processo di unificazione europea: c’è chi sommessamente denuncia, ormai anche dalle colonne di riviste scientifiche, il rifiorire di stereotipi anti-ellenici dal sapore neo-coloniale, invalsi da Liutprando di Cremona a Fallmerayer, da Paolo Sarpi al III Reich: i Greci infidi, corrotti, pigri, spendaccioni, mezzosangue. C’è poi chi presenta al popolo tedesco una Grecia diversa, come Eberhard Rondholz nella guida che ha compilato per il viaggiatore istruito.

C’è infine chi, con maggior costrutto, rievoca il recentissimo passato dell’emigrazione greca in Germania, il contributo dei Gastarbeiter alla ricchezza di quel Paese e l’epos declive dei rifugiati politici durante la dittatura, la commistione linguistica prodottasi nelle fabbriche e il cozzo di due mondi così distanti come quello mediterraneo e quello sassone – tutti quegli elementi che precipitano nel Libro doppio di Dimitris Chatzìs (1976), uno dei capolavori della prosa greca del ’900, e che fanno capolino ora nella raccolta di romanzi brevi “dell’esilio” (risalgono agli anni ’70) di Vassilis Vassilikòs, dal titolo felliniano 8 e ½. E’ attraverso le parole di questo scrittore, giornalista e poeta che ha lavorato per anni in Europa e in America, nelle istituzioni delle Nazioni Unite e a contatto con i Papandreu (senior), i Mitterrand, i Costa-Gavras, i Pasolini, e comunque come filo conduttore di un discorso filellenico di longue durée, è attraverso le parole di questo vecchio intellettuale cosmopolita di Salonicco che si comprende quanto la memoria dei Greci, anche dopo la tormentata adesione all’euro, sia gravida di tragedie, lontana dal piagnisteo ma vicina a un concetto atavico di composta sofferenza, in cui anche la presente détresse s’inquadra a perfezione.

Così come ti hanno ridotta, mia patria, / le briglie nell’oscura tenebra, / non so come
emergeremo insieme / e da quali strati dovremo passare / a respirare ancora l’ossigeno. /
Ti hanno frenata nel fiore dell’adolescenza / come il giovane puledro aggiogato / che però
non scalcia perché sa, / dal nonno e dalla madre, / che dovrà sempre reggere il peso / di
qualche bastardo straniero
(Vassilis Vassilikòs, da Laka – Suli, 1968; trad. T. Sangiglio)


Vassilikòs ha vissuto come spettatore, da bambino, uno dei momenti più traumatici della storia recente di Salonicco, ovvero la deportazione del 96% della comunità ebraica nei campi di sterminio polacchi: è questo, ovviamente, un altro dei baricentri della Fiera di quest’anno (le Albe dorate sorgono anche qui). La dinamica dell’immane tragedia, che dissolse la più fiorente comunità sefarditica d’Europa e falcidiò il tessuto sociale della città in modo irreversibile (gli Ebrei erano al momento della liberazione molto più numerosi sia dei Greci sia dei Turchi sia dei Bulgari; il cimitero devastato dai Nazisti, là dove ora sorge l’Università, contava 800mila tombe), può oggi essere ricostruita con esattezza nella mostra al Museo Archeologico o nelle sale del Museo Ebraico, nei pressi di Piazza Aristotele. Lì si comprende tra l’altro come oltre alla catastrofe umana ed economica (la gran massa degli Ebrei era costituita dal popolino delle casette del centro presso il mare, ormai sventrato), l’Olocausto sia riuscito a cancellare le memorie di quello che fu il movimento politico-intellettuale più “avanzato” della Grecia d’allora, la cosiddetta Federaciòn (in spagnolo, perché erano sefarditi) nata a Salonicco nel 1909 in difesa dei diritti degli operai: l’embrione del futuro Partito Comunista di Grecia, destinato ad avere tanta parte nella storia migliore di quel Paese nel corso del ’900.

Celebrare la liberazione, oggi in Macedonia, vuol dire anzitutto celebrare la conquista di Salonicco non solo a discapito del “grande malato” ottomano, che nel ’12 stava ormai da tempo perdendo i pezzi, ma anzitutto contro le pretese dell’altro grande Stato che nutriva ambizioni egemoniche, ovvero la Bulgaria. E parlare delle battaglie di Giannitsà e di Kilkìs, della prima e della seconda Guerra balcanica, significa inesorabilmente misurarsi e silentio con la conclamata deriva della Grecia verso una condizione “bulgara”, in termini di salari, di orizzonte di sviluppo, di train de vie (da queste parti, l’odio anti-bulgaro è molto più radicato di quello anti-turco). Con ogni evidenza, non c’è peggior maniera di festeggiare un centenario.


4. L’oro e l’alba

In questo fermo immagine surreale e deformato degno di una grande tela di Apòstolos Gheorghiu (se ne vedono di notevoli al Museo di Arte Contemporanea di Salonicco), Atene assiste compiaciuta alla pagliacciata del “nuovo processo a Socrate” affidato dalla Fondazione Onassis a una fitta schiera di insigni avvocati e giuristi europei e americani, pubblicamente riuniti a ponderare le colpe del filosofo ateniese per deliberare infine una prevedibile assoluzione. Non so se questo sia un modo per esorcizzare ben altri e più reali processi che dovrebbero riportare una qualche forma di (fiducia nel) diritto in una società sempre più spaesata; ma suggerisco di disinteressarcene, e di chiudere il nostro percorso in un museo che è per lo più ignorato dai torpedoni turistici e dunque risulta quasi sempre vuoto, benché si trovi a pochi passi da Piazza Syntagma.

Il Museo Numismatico di Atene è fra i 4-5 più importanti al mondo nel suo genere, ed è ospitato in quell’edificio straordinario che è la casa dell’archeologo Heinrich Schliemann, lo scopritore di Troia e di Micene: si chiama infatti “Palazzo di Ilio”. Tra le sentenze di autori antichi e le grottesche alle pareti, arre di un ideale neoclassico che non può non lasciarci freddi (ma che a ben pensarci impregna ancora gran parte del nostro dibattito pubblico sulla Grecia), il Museo propone una narrazione cronologica e tematica sull’uso della moneta, un uso che è esso stesso un’invenzione greca, probabilmente sviluppatasi tra la Lidia e la Ionia del VI secolo a.C. Guardando le vetrine si scopre per esempio quante volte, dall’Atene del 362 a.C. alla Creta del 1648, si è fatto ricorso a un conio eccezionale in situazioni di emergenza, o quante volte lo stato greco ha operato immani svalutazioni, come quella dell’aprile 1953.

Si scopre poi come già i Romani mettessero sulle loro monete edifici e architetture, e come il ratto d’Europa dei nostri 2 euro figurasse già sugli stateri di Gortina nel 325 a.C. – ma la civetta che oggi campeggia sulla moneta da 1 euro, tratta dal glorioso tetradracmo di Atene, ha portato male a chi l’ha usata in tempi moderni, prima il re Giorgio I sui 5cents del 1912 (fu assassinato a Salonicco l’anno dopo) e poi l’infame Giunta dei colonnelli sulle 2 dracme del 1969. In quel museo si riflette che forse noi Italiani dovremmo essere prudenti nello sparare a zero sulla politica monetaria ellenica, visto che giusto 70 anni fa stampavamo in Epiro un “buono per 5 dracme della Cassa Mediterranea di Credito per la Grecia” (tristo preludio alle banconote da 100milioni di dracme che circolavano nei drammatici giorni del ’44). E prima di uscire viene da chiedersi per quanto tempo la vetrina che raccoglie le grandi monete della storia (il tetradracmo di Atene e quello di Alessandro Magno, il darico di Persia, il denaro di Roma, il solido di Bisanzio, il dirham arabo, il ducato veneziano, gli 8 reales spagnoli, il tallero austriaco, la sterlina britannica, il dollaro USA) continuerà a chiudersi con l’euro.

Non batto più il mio petto innocente: cammino, / e guardo tra le lacrime il sole del mattino
(G. Ritsos, Epitafio, XX, 15-16)



Post scriptum.
Le parole, in Grecia, a volte fanno miracoli; e anche il silenzio. Così, perfino al verboso e disilluso cronista può capitare di uscire un sabato sera dall’alberghetto di Salonicco di fronte all’università, e di trovarsi dinanzi a centinaia di persone di ogni età, guidate dall’anziano Vassilikòs e da un gruppo di giovani attori, intente a ripercorrere in una marcia silenziosa e compunta, senza telecamere né lustrini, il lungo tragitto dal luogo dell’attentato a Lambrakis fino all’ospedale dove l’uomo politico morì, quattro giorni dopo l’aggressione. Può capitare, all’ingresso di quella clinica universitaria, al termine di un corteo dinanzi al quale sembrano fermarsi in un inchino le musiche dei bar, il traffico dell’Egnazia e perfino la maestà dell’arco di Galerio, può capitare di sentire levarsi nell’aria frizzante della sera, già gravida di pioggia, un canto spontaneo e sommesso, come quel giorno di 50 anni fa: l’Epitafio di Ghiannis Ritsos, musicato da Mikis Theodorakis. 
Può capitare, insomma, di commuoversi.

 


Filippomaria Pontani è professore associato nel Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università Ca Foscari di Venezia dove insegna Introduzione alla cultura classica. Questo testo, scritto dopo un recente soggiorno in Grcia, è stato pubblicato su Il Post, 9 Giugno 2012. La segnalazione alla redazione è stata fatta da Francesca Coin.
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