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Il punto di non ritorno

L’attacco alla Siria e la corsa contro il tempo

Collettivo “Noi saremo tutto” Genova

“Tutti sanno che le guerre scaturiscono soltanto dai rapporti politici fra governi e fra popoli, ma abitualmente le cose vengono presentate in modo da far credere che, all’inizio della guerra, questi rapporti cessino e sorga una situazione assolutamente diversa, sottoposta soltanto a leggi sue proprie. Noi al contrario, affermiamo che la guerra non è altro che la continuazione dei rapporti politici con l’intervento di altri mezzi” (Karl von Clausewitz , Sulla guerra)

Arsenico e vecchi merletti

Ormai sembra essere solo questione di ore e la battaglia per il “corridoio di Damasco” avrà inizio. Il pretesto, il presunto uso di armi chimiche da parte del Governo di Damasco, appare ancora più forzato di quello, rivelatosi velocemente una bufala dalle dimensioni colossali, utilizzato a suo tempo per “legittimare” l’attacco a Bagdad. Nessun Governo, infatti, è tanto folle da utilizzare, in uno scenario di guerra che ha su di se puntati gli occhi del mondo intero,  armi non convenzionali quali i gas e ciò da quando tale “escamotage”, a partire dalla Conferenza di Ginevra  del 1925, è stato messo al bando dall’intera comunità internazionale. Certo, l’uso di armi non convenzionali al fine di risolvere una qualche “bagatella” locale è sempre possibile ma, questo il punto, la dimensione del conflitto siriano è tutto tranne che un modesto affare interno. Per il significato che ha assunto si tratta di un conflitto la cui natura è, a tutti gli effetti, immediatamente internazionale per cui è obbligato a sottostare a tutte le retoriche del caso. Andare fuori frame non è pertanto possibile.  Di ciò, ogni governante, ne è e ne è sempre stato assolutamente conscio. Persino chi dell’asserzione: “I trattati sono semplici pezzi di carta”, ne aveva fatto qualcosa di più di una semplice sparata propagandistica, pensò bene di non varcare quella soglia.

Hitler nel 1943, dopo il disastro di Stalingrado, si oppose all’utilizzo dei gas, vagheggiato invece da Himmler e da alcuni generali. Realisticamente, una simile scelta, avrebbe comportato, da parte di tutte le forze avversarie, una reazione non indolore, con la probabile distruzione e contaminazione dell’intero territorio tedesco. In altre parole, nessun governante, per quanto folle e/o disperato, farebbe ricorso a simili strumenti e certamente la Germania, dopo Stalingrado ma ancor più dopo Kursk, sull’orlo della disperazione c’era sul serio! Tornando alle vicende attuali il presunto utilizzo da parte del governo siriano di armi chimiche appare del tutto insensato per molteplici ragioni. Valutazioni politiche e diplomatiche a parte, la cosa appare del tutto priva di senso osservando semplicemente la situazione militare presente sul campo. Da mesi, infatti, l’esercito governativo è all’offensiva mentre i cosiddetti ribelli segnano il passo. Sotto il profilo bellico e politico il governo di Assad è tutto tranne che alla disperazione poiché, ai successi militari, può sommare un consenso, ancorché critico e non entusiasta, di buona parte della popolazione e, a quanto pare, è stato in grado di riacquistare una certa influenza tra il mondo agricolo dal quale sono sorti i più consistenti focolai di opposizione. Nell’insieme la cornice politica, strategica e diplomatica in cui si muove il Governo di Damasco non sarà forse rosea ma neppure funerea. I legami con l’Iran ma soprattutto con Cina e Russia – quest’ultimi tutt’altro che di facciata poiché rivestono un’importanza geostrategica per una potenza continentale ma con aspirazioni globali quali la Russia – rendono la posizione siriana ben distante da una condizione solo vagamente assimilabile a quella nella quale si è venuta a trovare la Libia gheddafiana due anni fa.

La Siria è tutto tranne che un Paese solo e isolato. Per di più è dotato di un’economia e di infrastrutture non distanti dal mondo occidentale e con una popolazione non solo numerosa ma che, in virtù dello sviluppo socio – economico e culturale conosciuto dal Paese, non è facilmente catturabile dalle retoriche del fondamentalismo di turno. Non per caso, gran parte delle milizie antigovernative sono formate da combattenti di professione reclutati tra i mondi del fondamentalismo internazionale a dominanza saudita mentre, all’interno, le non secondarie contraddizioni si mostrano per intero come il riflesso di conflitti e tensioni tra gruppi, ceti e classi sociali interessate a rinegoziare, all’interno però del medesimo assetto istituzionale, posizioni di forza e di potere. Ciò non deve stupire poiché, la natura stessa del “regime”, poggia su un compromesso politico e sociale maturato tra le diverse componenti della società siriana e, al pari di ogni compromesso del quale ogni società è frutto, è destinato a essere foriero di tensioni e conflitti anche violenti. Sicuramente la crisi in cui è precipitato il governo siriano non è il semplice effetto di operazioni maturate fuori dai suoi confini bensì il risultato di contraddizioni oggettive presenti al suo interno ma, ed è questo il punto, le lotte sociali e politiche che vi si sono sviluppate tutto avevano tranne che i tratti della guerra civile. L’insorgenza militare, questa sì, è qualcosa che è stata pensata, preparata, finanziata e confezionata dall’esterno e amplificata, dall’interno, dai gruppi sociali più apertamente reazionari in combutta con le aree radicali del “fascismo islamico” al servizio dei vari imperialismi. Per inciso è il caso di ricordare il ruolo decisivo, specialmente sotto il profilo dell’addestramento militare e terroristico, svolto da Stati Uniti e Inghilterra nella costituzione delle “milizie islamiche internazionali” che, in Afghanistan, hanno trovato il loro migliore banco di prova.  Detto ciò torniamo all’argomento gas.

Come semplice ipotesi di scuola accettiamo le argomentazioni secondo cui, pur in presenza della delegazione Onu in visita nel Paese,  Damasco abbia optato proprio in quei giorni  per il ricorso ad armi non convenzionali. Va da sé che, una simile scelta, visti i successi militari ad ampio raggio conseguiti negli ultimi tempi dall’esercito – un’offensiva continua e permanente che non sembra conoscere particolari momenti di stallo accompagnata, fatto ancora più importante, da un’offensiva politica interna che ha permesso al governo siriano di ricompattare intorno al proprio operato gran parte delle classi sociali e delle forze politiche del Paese – avrebbe dovuto avere  intenti risolutivi, ovvero colpire in maniera definitiva i centri militari strategici del nemico. Mossa insensata sotto il profilo politico – diplomatico ma, se non altro, in grado di dare, almeno sotto l’aspetto militare, una svolta definitiva al conflitto.

Se le forze siriane avessero individuato il luogo in cui era concentrato anche solo per un attimo l’intero quartier generale nemico e avessero sferrato l’attacco con i gas, se non altro, avrebbero avuto la certezza di aver decapitato per intero il cervello strategico del nemico. Certo, siamo sul piano delle ipotesi per assurdo poiché nessun esercito è così folle da instaurare il proprio comando generale a poche centinaia di metri dal grosso dell’esercito avversario ma, come detto, stiamo prendendo in esame anche ciò che, sul piano scientifico, è considerato puro esercizio accademico. Un’altra possibile variabile potrebbe essere rappresentata dall’individuazione, da parte delle forze siriane, del cervello politico dei ribelli in un ben determinato luogo. In questo caso, ancor più che nella prima ipotesi, la sua eliminazione avrebbe potuto rappresentare una posta in palio di valore talmente elevato da ignorare le conseguenze che l’uso dei gas avrebbe comportato. Anche in questo caso il concentramento del cuore politico dell’opposizione a ridosso dell’esercito siriano appare ancor più inverosimile ma sforziamoci di prendere per buona tale assurdità. Di tutto ciò, come è noto, non vi è traccia. Nessun pezzo da novanta, politico o militare, è rimasto vittima dell’attacco incriminato.

Stando alle accuse, invece, i gas sarebbero stati utilizzati per annientare piccoli gruppi di avversari, armati a quanto pare unicamente di armamento leggero, oltre che  un certo numero di civili i quali o si trovavano in loco per caso oppure svolgevano un qualche ruolo di appoggio per gli “insorti”. In definitiva, il governo siriano, avrebbe utilizzato i gas con tutte le ricadute che questi si sarebbero portate appresso sul piano internazionale, per ammazzare 1.300 persone delle quali non più di due o trecento  miliziani il cui massimo del potenziale bellico era rappresentato, oltre all’armamento individuale, da qualche mitragliatrice leggera. Ora, quale governo e stato maggiore minimamente sani di mente, potrebbero concepire un’operazione simile? È come se, di fronte a un gruppo di guerriglieri asserragliati in una banca, un qualunque governo ricorresse a un missile intercontinentale per porre fine all’incresciosa situazione. Evidentemente, in qualunque modo la si giri, la cosa non sta in piedi. Insensato sotto il profilo politico, militarmente inutile, il ricorso ai gas non trova giustificazione neppure sotto l’aspetto della sperimentazione. Le conseguenze dei gas non hanno bisogno di essere testate per il semplice motivo che i loro effetti sono noti a tutti e, nel caso del materiale utilizzato in Siria, si è trattato di un “gas convenzionale” le cui ricadute sono note a ogni governo e comando militare. Follia a parte, non vi è alcuna motivazione, per quanto aberrante, che porti a individuare le forze militari governative come gli autori del crimine consumato in terra siriana.

Più realistico, invece, ipotizzare la classica operazione sporca consumata da uno o più attori interessati a far precipitare la situazione. La campagna mediatica messa in campo contro la Siria, alla luce di ciò, più che il frutto di una intelligence da era globale appare il cattivo remake, o forse la nostalgia, dell’epopea in cui, il fardello dell’uomo bianco, poteva giocarsi tra Kypling, arsenico e vecchi merletti. Tutto ciò per quanto riguarda lo scenario oggettivo. Ma, una volta puntualizzato il senso degli eventi, occorre volgere lo sguardo sul contesto entro il quale questi si sono prodotti e occorre farlo avendo il più possibile a mente lo scenario generale entro il quale l’episodio va a situarsi. Per un verso dobbiamo analizzare le varie potenze in gioco e le molteplici contraddizioni che tra queste si sviluppano in continuazione; dall’altro, ed è ciò che a noi sembra il cuore della questione, osservare il punto di non ritorno che l’operazione Siria può realisticamente incarnare. Infine provare a tracciare una possibile linea di condotta delle forze comuniste dentro lo scenario di guerra che si va delineando.


Tutti contro tutti. Scale bucate, full mancati e assi nella manica.


Quel che è subito apparso chiaro, fin dall’inizio del conflitto siriano, è  che questi sarebbe stato il centro nevralgico dell’intreccio e dello scontro delle mire imperialistiche delle varie potenze con interessi economici e militari sull’area mediorientale. La posizione geografica della Siria – posta esattamente al centro dell’area mediorientale – coincide con la valenza strategica che essa ha assunto in quanto obiettivo al centro di diverse strategie imperialiste. Il dato che occorre registrare per orientarsi nell’intreccio delle molteplici poste in gioco e ambizioni delle potenze imperialiste coinvolte nello scontro è come l’epoca dello strapotere militare e dell’egemonia assoluta statunitense sia definitivamente tramontata come dimostrano i tentennamenti di Obama il quale, attraverso la tattica del “buio” e del rilancio, spera di fare suo il piatto senza dover andare a vedere il gioco degli avversari. Il che fotografa esattamente la condizione attuale dell’ex super potenza globale. In realtà il ruolo degli U.S.A come unica superpotenza, gendarme dell’ordine mondiale, seppure in questi termini è esistito, ha avuto vita assai breve. Dopo l’implosione dell’U.R.S.S, effettivamente gli Stati Uniti si sono trovati ad essere la potenza – almeno in apparenza poiché tale forza, potenziale bellico a parte, poggiava sui fasti di un’economia poggiante per intero sulla speculazione ma in piena decadenza industriale – più stabile e meglio preparata per poter gestire l’epoca di transizione che la caduta del blocco sovietico ha aperto. D’altro canto le frizioni con le maggiori potenze europee , Francia e Germania in primis, dagli anni ’60 in poi contrarie allo strapotere della NATO e più orientate alla costruzione di una forza militare integrata europea, sono cresciute con la fine dell’ordine imposto dall’esistenza della “cortina di ferro”.

Nel corso degli anni ’90 la politica imperialista statunitense si è dispiegata con successo attraverso la prima guerra del Golfo, gli interventi nella ex-Jugoslavia e le numerose operazioni segrete di intelligence condotte all’interno dell’ex Unione Sovietica, strumentali nello scatenare guerre civili in diverse delle ex repubbliche, comprese la Cecenia (nella Federazione Russa), la Georgia e l’Azerbaijan. L’obiettivo evidente della strategia statunitense era quello della messa in sicurezza dei territori dell’est europeo ed ex sovietici ai fini di una colonizzazione liberista condotta a colpi di privatizzazioni e  portata avanti dalla Banca Mondiale e dal FMI. D’altra parte tra la fine degli anni ’90 e con l’inizio del XXI secolo la supremazia indiscussa dell’imperialismo a stelle e strisce è entrata definitivamente in crisi. Nuove potenze  imperialiste si sono affacciate sullo scenario globale, ciascuna traendo benefici e profitti dal crollo della barriera rappresentata dall’U.R.S.S. e dello statico assetto internazionale dovuto alla divisione del mondo in due blocchi contrapposti e alla conseguente espansione del capitalismo globale.

L’Unione Europea dalla metà degli anni ’90 ha cominciato un percorso di integrazione e costruzione di un blocco imperialista che, se tuttora non ha visto una sua istituzione definitiva, ha permesso alle potenze maggiori dell’Unione di reimpostare una politica imperialista autonoma. Contemporaneamente, la progressiva finanziarizzazione dell’economia capitalistica ha reso sempre più potenti le Petromonarchie del Golfo, fino a rendere la teocrazia saudita, dominata dall’ideologia religiosa islamica oscurantista e autoritaria del Wahabismo, potenza imperialista con una propria politica imperialista e l’emirato del Quatar tra i principali sponsor del movimento islamico conservatore e filocapitalista della Fratellanza Musulmana, in aperta competizione proprio con l’affine teocrazia saudita. La Turchia, uno tra i principali alleati NATO, governata da un governo islamico moderato, dalla fine degli anni ‘90 è entrata con entusiasmo nel gioco neoliberista, accrescendo la sua importanza di potenza regionale con mire sull’area strategica mediorientale,  giocandosi la carta tattica dell’amicizia e dell’equidistanza  da Unione Europea e Stati Uniti. Contemporaneamente si è registrato una lenta ma costante riacquisizione di potere e sovranità da parte della Russia di Putin che con una politica di potenza rigidamente nazionalista infarcita di retorica slavofila ha ripreso il controllo delle sue sterminate risorse tornando alla ribalta sul piano del confronto inter-imperialistico. A  questo quadro va aggiunto il peso economico e politico sempre più forte assunto dal colosso cinese le cui mire imperiali, coltivate a colpi di acquisizioni industriali, investimenti produttivi e costante allargamento della “zona di influenza” delle proprie merci rappresentano, con ogni probabilità, l’elemento di maggiore destabilizzazione degli assetti e delle gerarchie internazionali.

Il cambiamento del panorama internazionale nella fase globale del capitalismo si è mostrato già evidente a partire dalla seconda guerra del Golfo e, subito dopo, con la guerra in Afghanistan, quando si sono cominciate a mostrare le prime incrinature nell’ormai vecchio fronte nordatlantico e  gli U.S.A. hanno potuto continuare a contare, come alleati certi, solo su Gran Bretagna e Israele. Non a caso nel 2004, il progetto strategico dei falchi dell’amministrazione Bush, che già prevedeva la continuazione della guerra irakena  in Siria come apripista verso l’Iran, ha dovuto fermarsi di fronte agli esiti incerti e incontrollabili delle due precedenti “guerre umanitarie” ma soprattutto di fronte alla presa d’atto dei cambiamenti nella situazione internazionale con l’affermazione sempre più forte delle aspirazioni imperialistiche da parte di vecchie e nuove potenze. Tali processi e l’acuirsi del confronto interimperialistico dal 2008, con l’avvento della crisi sistemica del capitalismo globale, hanno conosciuto una repentina velocizzazione: la tendenza alla guerra è diventata sempre più forte e inevitabile per rispondere agli effetti della crisi. Le cosiddette primavere arabe, termine abusato e poco intellegibile con il quale si indicano le insurrezioni, le rivolte e gli scontri per il potere avvenuti nei paesi arabi affacciati sul Mediterraneo negli ultimi quattro anni, hanno come radice comune, nella loro reciproca ed evidente diversità, l’essere state il prodotto degli effetti della crisi sistemica internazionale in paesi dove lo sfruttamento neocoloniale è particolarmente feroce.

Salvo che per il caso libico – dove la situazione di incertezza e le insurrezioni dei paesi circostanti hanno creato le condizioni per  una rivolta di fazioni tribali contro il governo di Gheddafi immediatamente impugnata dalle diverse potenze imperialiste interessate alla cacciata del rais e alla irakizzazione dell’area per poter spartirsi le risorse del Paese -, in Tunisia come in Egitto e in Turchia le insurrezioni popolari, nate in risposta alle politiche ultraliberiste, predatorie e asservite agli interessi coloniali dei propri governi, hanno mostrato quale stato di  confusione e contraddizione regni sul piano dello scontro interimperialistico. Emblematico da questo punto di vista il caso dell’Egitto dove una pioggia di denaro e aiuti militari sono piovuti da quasi tutte le potenze interessate al controllo del Paese, con l’unico scopo di sedare la rivolta popolare e neutralizzare  le forze rivoluzionarie democratiche e socialiste senza che nessuna avesse la forza e la capacità di imporre un ordine ad essa congeniale ed esente da contraddizioni: gli Stati Uniti, vedendo cadere il proprio alleato Mubarak sotto i colpi della rivolta popolare, hanno appoggiato come unica possibilità ma senza entusiasmo, la forza conservatrice della Fratellanza ma subito dopo si sono schierati dalla parte dell’esercito quando anche i Fratelli Mussulmani sono stati fatti cadere da una nuova ondata di proteste popolari. Francia e Inghilterra lavorano per mantenere a qualsiasi costo una stabilità governativa che rinforzi e protegga i loro interessi economici nel paese. I Sauditi finanziano la penetrazioni di gruppi salafiti e jihadisti sperando di radicalizzare e arruolare tra le file dell’islam integralista parte dell’elettorato popolare della Fratellanza. Nessuno, in ogni caso, possiede una visione strategica e la forza necessaria per avere un’influenza determinante sugli eventi in corso. In questo contesto, in cui la crisi continua a peggiorare e i tempi delle risoluzioni si fanno sempre più stretti, la spinta alla guerra appare l’unico strumento in grado di risolvere contraddizioni che nessuno sembra in grado di padroneggiare.

Tornando alla Siria e al ruolo strategico centrale che essa possiede, in questa prospettiva dovrebbe diventare più intellegibile l’intreccio di interessi e di contraddizioni che si giocano nel conflitto siriano. Una serie di proteste popolari forti e determinate contro le politiche economiche liberiste intraprese dal governo siriano  e contro il suo autoritarismo e la repressione violenta esercitata contro i suoi oppositori, sono state immediatamente colte come pretesto  per cominciare una guerra “per procura”, ai fini della destabilizzazione e dell’indebolimento di Assad e del suo governo, da parte di tutte le potenze interessate alla penetrazione imperialistica nell’area. L’obiettivo comune è spazzare via la Siria in quanto stato sovrano parte fondamentale di quel “Fronte della resistenza” formato dall’Iran e da Hezbollah in Libano, che si pone come ultimo bastione contro la colonizzazione complessiva dell’area mediorientale. Se in questi due anni di conflitto la guerra è stata condotta dalle diverse potenze interessate attraverso l’armamento, l’aiuto logistico, la propaganda e il finanziamento delle diverse frange ribelli, nella loro maggioranza appartenenti all’universo islamico jihadista e salafita o formate di disperati al soldo degli interessi imperialistici, la possibilità di un intervento diretto da parte dell’ennesima “coalizione di volenterosi” in nome della difesa di principi umanitari sembrava lontana e di difficile attuazione a causa dei troppi fattori deterrenti esistenti. Primo tra tutti lo sguardo vigile della Russia e quello  più silenzioso ma altrettanto attento  della Cina. Improvvisamente, però il balletto delle minacce, delle accuse, della propaganda antigovernativa è stato accelerato in direzione della ratifica dell’attacco da parte di un precario e confuso “fronte atlantico” con a capo l’amministrazione del democratico Obama.

Questo avviene nel momento in cui l’esercito siriano è prossimo a riconquistare la maggior parte delle zone strategiche in mano ai ribelli e la guerra sembra andare verso la sua risoluzione in favore del governo di Assad. Si tratta dell’ultima occasione per poter tentare l’assalto alla diligenza e mantenere aperta la possibilità di un successivo attacco all’Iran. Il tempo dell’attesa sembra finito. Nel momento in cui la decisione si fa non più aggirabile, la guerra si mostra come la sola scelta possibile, anche se assolutamente priva di certezze e di prospettiva strategica, per le potenze imperialiste. A nulla sembrano valere gli ammonimenti provenienti dall’Iran e dalla Russia, niente sembra contare la consapevolezza di tutti gli stati maggiori delle diverse potenze che la Siria non è uguale alla Libia. E va aggiunto: nemmeno uguale all’Afghanistan, all’Iraq o al Kosovo. Come si vede il piatto è ricco ma, questa volta, per ficcarcisi dentro è necessario avere tra le mani un punto. Nessuno, realisticamente, può pensare di cavarsela dandosi “servito”. Per vincere occorre avere qualche asso nella manica. Scale bucate e full mancati rischiano di innestare una partita tutt’altro che lampo rischiando di ripetere, all’ennesima potenza, La stangata.


Crisi e guerra


Per il ruolo che la Siria svolge in quella determinata area geopolitica la sua disintegrazione, indipendentemente dal contesto storico concreto in cui si colloca, rischia di avere effetti a catena difficilmente controllabili. In altre parole un attacco alla Siria anche fuori da un contesto di crisi economica internazionale potrebbe innescare effetti devastanti ma, ed è questo il punto, l’attacco odierno avviene all’interno di uno scenario dove, la necessità oggettiva della guerra, diventa sempre più pressante per l’imperialismo. Dopo sei anni di crisi la situazione economica internazionale non sembra mostrare segni tangibili di una qualche fuori uscita. L’eccedenza di capitale variabile e capitale costante non solo non rientra ma tende a dilatarsi. La sterminata massa di denaro continua, attraverso la carta moneta vorticosamente stampata dalla banche centrali, a figliare denaro senza trovare forme concrete di valorizzazione. Il denaro continua a produrre denaro anzi, a ben vedere, questa è la sola, seppur fittizia, produzione in espansione ma, come gli stessi istituti finanziari internazionali stanno ricordando, tale escamotage non sembra essere più reiterabile. La chiusura dei rubinetti sembra essere ormai prossima. Per altro verso, la crisi entro la quale sembrano precipitare gli stessi BRICS, racconta qualcosa di difficilmente eludibile.

Di volta in volta il sistema capitalistico internazionale è andato alla ricerca di una qualche locomotiva in grado di trascinarlo fuori dal pantano. Di volta in volta si è cercato il luogo ancora in grado di far svolgere al capitale la sua funzione: il processo di valorizzazione ovvero impiegare forza lavoro salariata. Queste speranze e/o illusioni sembrano essere andate repentinamente in frantumi. I mercati si restringono, la competizione si accentua, le merci non sono prodotte, la quantità di forza lavoro che la crisi ha estromesso dal ciclo produttivo  non solo non viene riassorbita ma si dilata diventando esercito industriale di riserva in permanenza. Ciò, ormai da tempo, non avviene più solo nei vecchi Paesi imperialisti, ad esserne pesantemente colpite sono le tigri emergenti le quali, negli ultimi tempi, hanno visto dimezzare i loro voluminosi PIL. Questo lo scenario che occorre avere a mente nell’affrontare la questione Siria. Per quante alchimie si tentino, andando al nocciolo, l’unico modo per far ripartire su scala globale un nuovo ciclo di accumulazione è quello per cui una quantità immane di capitale costante e capitale variabile vengano distrutti e, com’è nella natura stessa dell’imperialismo, che lo scenario politico internazionale assuma come punto di riferimento delle gerarchie politiche, economiche e militari quanto mai certe. Una situazione come l’attuale, caratterizzata da molteplici poli di potere politico – militare, con interessi economici assai contrastanti tra loro, non è tollerabile.

Come tutta la storia dell’imperialismo è lì a ricordare ogni volta che tali gerarchie sono state messe in discussione gli eserciti hanno iniziato a entrare in fibrillazione. Così è stato nel 1914, così si è ripetuto nel 1939. Tutto ciò, aspetto che è sempre bene tenere a mente, è accaduto in maniera “involontaria” poiché nessuno di coloro che hanno dato fuoco alle polveri immaginava dentro quale baratro sarebbe precipitato, anzi. Nel 1914, all’inizio del conflitto, tutti i governi ipotizzavano una durata delle operazioni non superiore a pochi mesi, mentre nel 1939, la Germania nazista aveva fatto della guerra lampo il suo credo. La stessa “Operazione Barbarossa” non prevedeva una durata superiore ai sei mesi, del resto la “campagna di Francia” si era risolta in un paio di mesi e la guerra contro l’Inghilterra, circoscritta all’ambito aereo oppure combattuta sulle rotte dell’Atlantico, poteva essere considerata una guerra a portata limitata. Sul terreno, infatti, più che una situazione di combattimento si era sedimentata una condizione di attesa che, non per caso, consentì all’esercito nazista di concentrare la quasi totalità del suo potenziale offensivo a est. Lo stesso Giappone, dopo Pearl Harbour e l’attacco in Oriente, immaginava di risolvere in breve tempo le questioni militari ponendo gli USA di fronte al fatto compiuto e, a partire da ciò, ridefinire le sfere di influenza politiche, economiche e militari nell’emisfero orientale.

Queste cose vanno ricordate perché mostrano come, al fin della favola, il pensiero strategico del personale politico delle borghesie imperialiste sia  oggettivamente limitato e incapace di governare per intero la dimensione storica. Così come il capitalismo non entra in crisi in seguito all’incapacità o agli errori di alcuni manager, allo stesso modo l’imperialismo non entra in guerra per le smanie di protagonismo di qualcuno o le velleità di potenza di qualche altro ma, crisi e guerra, sono i prodotti obiettivi di un modello economico e sociale che non può esimersi dal maturare crisi e guerre. Di ciò, inoltre, lo stesso personale politico delle borghesie imperialiste è solo in parte consapevole tanto che, la sua “linea di condotta”, difficilmente riesce ad andare oltre il prosaico navigare a vista. La reazione a catena che l’attacco alla Siria potrebbe innescare, pertanto, ben difficilmente può essere già compresa e tanto meno preventivata dalle forze che daranno inizio alle danze. Questa operazione, non a caso, è equiparata a quanto sperimentato in Kosovo, ma va detto che anche i nazisti pensarono a Danzica avendo a mente la Cecoslovacchia, poi le cose andarono diversamente. Inoltre, nel contesto attuale, lo scenario è quanto mai policentrico e ingarbugliato poiché, sin da subito, le stesse forze in campo più che l’effetto di una compagine accomunata da medesimi interessi strategici sembrano essere dei “compagni di merenda” i quali, una volta poste le mani sul cestino del pic nic, possono prendere sentieri non solo diversi ma anche incompatibili. Il tutto dentro uno scenario circostante la cui esplosione, come l’Egitto, la Turchia e la Tunisia sono lì a ricordare, è all’ordine del giorno. La possibilità, quindi, che la Siria sia l’inizio di qualcosa di completamente diverso dalle innumerevoli operazioni belliche di questi anni è un’ipotesi tutt’altro che fantasiosa. Lo scenario di un conflitto mondiale oggi è più vicino che mai. Dobbiamo chiederci, molto realisticamente, come forza politica comunista come affrontare il tutto. Certo, guardandoci intorno, la percezione comune di tutto ciò è quanto mai flebile, il che non deve stupire.

L’idea che i venti di guerra abbiano completamente abbandonato l’Europa e in particolare quella occidentale è qualcosa che si è ampiamente sedimentata nelle le retoriche di senso comune a partire dal post ’45. Una retorica che poggiava su un equilibrio geopolitico che, almeno sino al 1989, non è mai stato seriamente posto in discussione.  Le stesse vicende seguite alla fine del bipolarismo sembravano in gran parte confermarlo. Nonostante i reiterati interventi militari, alcuni dei quali a pochi chilometri dalle nostre coste o dai nostri confini, l’idea che la guerra fosse una dimensione che non ci avrebbe mai più riguardato direttamente continuava a essere rafforzata. “Missioni umanitarie”, “operazioni di polizia”, “operazioni di pace” e via dicendo facevano si che, la dimensione guerra, rimanesse qualcosa di distante e dal sapore persino esotico. Uno scenario in fondo quasi vero poiché, nel momento in cui si davano questi eventi, i fasti dell’economia globale sembravano non avere limiti. Per di più, dentro tale scenario, pletore di analisti che definire superficiali è fargli un favore tendevano a identificare gli USA come l’unica potenza politica, economica e militare presente dentro le relazioni internazionali. Il gioco sembrava fatto.

La prosperosa economia globalizzata sostenuta dalla potenza a stelle e strisce “fotografava” un mondo sognato sin dai tempi de Le mille e una notte. Dietro questa realtà virtuale patinata le cose stavano andando in altro modo tanto che, nel giro di nulla, gli USA più che il paese delle meraviglie sono diventati il cuore della crisi sistemica del modo di produzione capitalista: hanno maturato una situazione finanziaria sull’orlo della bancarotta e, cosa che non ricordavano da decenni, sono nuovamente costretti a competere con avversari altrettanto agguerriti e in avanzato stato di bisogno, per conquistarsi un posto al sole mentre gli antichi vassalli, benché ancora formalmente alleati, sembrano già pregustare il momento in cui potranno banchettare sulle loro spoglie. La “via di Damasco” potrebbe, a ragione, essere il crinale dove tutte queste tensioni e contraddizioni vengono al pettine. A quel punto la dimensione guerra potrebbe realisticamente lasciare i panni dell’esotismo e tornare a essere un prodotto anche nostrano. È necessario attrezzarci per far fronte a una simile possibilità.


In corsa contro il tempo


Affrontare questa situazione non è obiettivamente semplice. Potremmo, e avrebbe sicuramente senso farlo, annoverare il portato nefasto che hanno avuto  decenni di opportunismo e riformismo che abbiamo alle nostre spalle o, per altro verso, gli effetti devastanti che un intero ciclo di controrivoluzione hanno sedimentato nella coscienza delle masse. Aspetti sicuramente non secondari ma che, almeno a nostro avviso, non rappresentano che un lato, e con ogni probabilità neppure il più importante, della questione. A essere veramente importante e decisiva è la comprensione del contesto storico concreto all’interno del quale ci troviamo a operare. Perché Lenin è stata una figura così importante per il movimento operaio e comunista? Per un motivo in fondo “semplice”: Lenin, e con Lenin intendiamo un’intera esperienza storico/politica, è colui il quale ha modellato il marxismo dentro la condizione storica – concreta di una determinata fase imperialista. Tutti sanno e ricordano come l’attenzione di Lenin fosse principalmente rivolta alla messa in mora della Seconda Internazionale e alla costituzione di una nuova forza politica internazionale poggiante su basi e presupposti completamente diversi. Ma questo perché? Da dove ricava Lenin tale necessità? Da un fatto anche in questo caso “semplice”: la constatazione che l’era imperialista aveva modificato per intero la scena storica. Ciò che, solo un attimo prima, era la realtà si era repentinamente mutata nel “mondo di ieri”. L’esperienza leniniana è l’esperienza politica che coglie, intravvede e anticipa esattamente il “mondo di oggi”.

Non sono tanto, o almeno non solo, le parole d’ordine rivoluzionarie e il programma politico, teorico e organizzativo che le sostanzia a far emergere la tendenza leniniana tra le fila del movimento comunista, piuttosto è la lucidità analitica sulla quale le parole d’ordine e il programma bolscevico poggiano. Ed è esattamente l’analitica del mondo nuovo a permettere alla politica comunista di farsi carne e sangue. Pensiamo alla “rivoluzione copernicana” che, proprio in quel contesto, Lenin opera nei confronti del sistema – mondo. Fino a quel momento, dentro tutta la politica operaia della Seconda internazionale, la partita storica tra le classi è osservata, pensata, analizzata e messa in forma avendo come unico scenario i paesi europei e, pur se in maniera subordinata, gli Stati Uniti. La Seconda internazionale è, per intero, prigioniera della cornice concettuale del mondo borghese. Dalle sue fila non fuoriesce alcuna capacità di anticipazione. Le stesse frazioni di estrema sinistra, con Rosa Luxemburg in testa, non sembrano in grado di leggere il divenire. Lo scontro con Lenin e i bolscevichi sulla “questione nazionale” ne rappresenta la sintesi migliore. Ciò che la Seconda internazionale in tutte le sue anime, quindi estrema sinistra compresa, non coglie è il senso storico delle trasformazioni che l’affermarsi definitivo della fase imperialista comporta per l’intero sistema – mondo. A non essere colte sono le forze, sino a un attimo prima deputate a essere semplice voce della scena storica, che entrano prepotentemente in gioco. Forze che, adesso, si conquistano a tutti gli effetti il diritto al linguaggio. Il mondo, nella fase imperialista, si complica mettendo in scena nuovi attori sociali.

L’idea di nazione, giunta in prossimità del capolinea tra i paesi imperialisti, conosce una nuova freschezza rivoluzionaria nei paesi vittime di questi. Lenin è il solo a cogliere questo passaggio ed è in grado di farlo proprio in virtù della sua capacità di cogliere il “mondo nuovo” senza farsi catturare dalla malinconia per il “mondo di ieri”. Allo stesso modo in cui coglie l’oggettivo portato rivoluzionario che l’idea di nazione svolge dentro il nuovo contesto storico,   Lenin osserva e analizza il significato che, per la politica comunista, comporta l’entrata in scena dei popoli coloniali e, per forza di cose, del peso che forzatamente assumono le masse contadine. Ma ancora. Pensiamo a Stato e rivoluzione il testo che, con ogni probabilità, rappresenta il punto più alto della produzione teorica leniniana nel corso della guerra imperialista. Lenin vi coglie non solo e semplicemente il ruolo dello stato dentro la società borghese ma, questo il punto essenziale, analizza il ruolo, con tutte le sue trasformazioni, svolto dallo stato dentro la guerra imperialista. Ciò che differenzia Lenin dai socialdemocratici della Seconda internazionale non è la sua avversione allo stato, su questo si erano già distinti, pur con scarsi successi, schiere di anarchici, bensì la “concretezza” della sua analisi intorno alla forma Stato della fase imperialista. Infine, e la cosa è presente in gran parte dei suoi testi del periodo, Lenin analizza in maniera quasi maniacale le trasformazioni che il “salto di composizione organica” operato da stati ed eserciti comporta per la forma guerra e la sua conduzione. Un insieme di aspetti, indissolubilmente legati tra loro, che rendono il mondo diverso e, con questo, il modo di operarvi dentro da parte della politica comunista. Contro l’ortodossia del tempo Lenin, unico a porsi in corsa contro il tempo, non può che far ricorso all’eresia. Del resto non si può pensare che, lo spirito del tempo, passi ogni volta a cavallo per le vie di Berlino.

Perché ricordare tutto questo? Perché da quel metodo è possibile ripartire. Ne consegue, pertanto, che la meccanica ripetizione dell’esperienza leniniana sta a Lenin, come Veltroni al Mr. Olympia. Fondamentale diventa “comprendere” che cosa ha comportato l’avvento della fase imperialista globale. In che modo questa ha ridefinito mondi politici, classi sociali, circuiti e cicli produttivi, modelli culturali, ecc. Dobbiamo capire e spiegare in che modo, oggi, la forma – guerra diventa la cornice egemone della formazione economica e sociale e le ricadute che tutto ciò comporta dentro la vita delle masse. Questo compito non può essere assolto né da individualità intellettuali che producano una teoria che poi le cerchie di militanti si prendono la briga di mettere in pratica, né da singoli collettivi, circoli, cellule,  reti di comunisti separati gli uni dagli altri. Perché la teoria sia in grado di diventare forza materiale nella classe e si leghi quindi dialetticamente alla prassi in una prospettiva rivoluzionaria, come il metodo leniniano è lì a ricordarci, è necessario porsi  e dare risposta concreta al problema dell’organizzazione: ossia della creazione di quel quartier generale della rivoluzione, in grado di elaborare pensiero strategico e di agire da partito.

Il partito non è mai avanguardia separata dalla classe che instaura su quest’ultima un rapporto gerarchico, non è nemmeno l’avanguardia che nasce spontaneamente nel corso delle lotte o delle rivolte. Il partito elabora un pensiero e una prassi strategica dentro la classe, dialetticamente assume l’immediatezza dei bisogni di classe per portarli ad una prospettiva politica. L’immagine del quartier generale non è semplicemente metaforica ma raccoglie con tutta la serietà necessaria il livello e la qualità del conflitto che abbiamo di fronte. Le forze comuniste del nostro Paese appaiono disunite, disorientate, incapaci di prendere parola e di trovare la chiave per mobilitare le classi subalterne di fronte allo scatenarsi della guerra imperialista e al precipitare della crisi capitalistica,  perché resta costantemente elusa la questione centrale dell’organizzazione e perché non posseggono un pensiero strategico forte in grado di essere convincente per le classi subalterne e di diventare forza materiale. L’elaborazione strategica capace di cogliere i nodi del presente e fornire delle risposte per la prassi, insieme alla costruzione dell’organizzazione  in grado di sostenere questo sforzo teorico e pratico, sono questioni necessariamente legate e rappresentano il nodo politico che va necessariamente sciolto per uscire da questa impasse disastrosa quanto frustrante.

La guerra non è qualcosa che sta là bensì una realtà e una dimensione che coinvolge direttamente e in prima persona le vecchie metropoli imperialiste. Dobbiamo, sin da subito, costituire un organismo politico permanente che si assuma il compito di agitare a tutti i livelli queste tematiche, dobbiamo considerare la tendenza alla guerra una storia del presente assumendoci tutte le conseguenze del caso. Ma in che modo tutto ciò può realisticamente darsi? Anche in questo caso dobbiamo forzatamente imparare da Lenin e saper individuare intorno a quali settori sociali, intorno a quali frazioni di classe è possibile costruire gli embrioni del partito rivoluzionario. Certo, in apparenza, agitare il tema della guerra e, sulla base di ciò, riscuotere successi e consensi può sembrare sin troppo facile. In astratto tutti sono contrari alla guerra ma, come l’esperienza di intere arcate storiche è lì a ricordarci, quando la guerra diventa un fatto concreto i giochi si fanno ben più complessi. Se, in quanto singoli, tutti possono sentire repulsione per la guerra quando questa pone in gioco “concreti” interessi di classe le coscienze dei singoli tendono a evaporare mentre, al suo posto, si fanno largo i prosaici interessi materiali. Il consenso che, nel passato, le borghesie imperialiste sono state in grado, almeno per un certo tempo, di esercitare tra settori di classi sociali subalterne non è stato solo il semplice frutto di un avvelenamento propagandistico. In fondo è normale che, in società complesse e differenziate come le nostre, quote di popolazione subalterne si sentano attratte dalle forze imperialiste e dalle briciole di potere e profitti che gli elargiscono.

Il problema, allora, diventa quello di individuare quelle porzioni di classe oggettivamente ostili alla tendenza alla guerra. Su questi settori, senza per questo rinunciare a un programma di agitazione e propaganda ad ampio raggio, è possibile costruire il cuore strategico della politica comunista dentro l’attuale fase imperialista. Non dobbiamo disperderci nell’indistinto, ma avere la capacità di individuare e organizzare i settori di classe oggettivamente irriducibili ai progetti imperialisti. A questi settori va data una prospettiva politica storica e una forma organizzativa conseguente. Oggi questi settori di classe sono rappresentati, almeno in gran parte, da quelle vaste schiere di salariati che il modo di produzione capitalistico stesso ha posto fuori dalle “regole del gioco” novecentesche o, per meglio dire, fuori dalla cornice inclusiva e includente propria dei paesi imperialisti impegnati in prima linea nella “Guerra fredda”. Oggi gli strati operai e proletari sui quali deve forgiarsi l’organizzazione comunista sono quella forza lavoro salariata che il capitalismo stesso ha denazionalizzato e de/statalizzato rendendola, a tutti gli effetti, forza lavoro salariata già internazionalizzata e globalizzata.  In questa ottica, pertanto, la costruzione dell’internazionalismo della fase imperialista globale è il passaggio obbligato della politica comunista ed è un passaggio che impone, ancora una volta, una drammatica corsa contro il tempo.

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