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Verso Damasco

Le contraddizioni della “fase imperialista globale”

Collettivo “Noi saremo tutto” Genova

E pertanto, per ritornare all’argomento principale, se è vero che in una determinata specie di guerra la politica sembra scomparire completamente, mentre in un’altra essa diviene preponderante, si può tuttavia affermare che in entrambi i casi la guerra costituisce un atto politico. (Karl von Clausewitz, Della guerra)

Ognuno per sé e Dio per tutti

Ciò che in queste frenetiche ore sta accadendo dentro le Cancellerie imperialiste internazionali è impossibile saperlo. Un fatto sembra, però, facilmente accertabile: tutti hanno l’esatta percezione che l’avventura siriana sarà qualcosa di ben diverso dai reiterati interventi militari susseguitisi a partire dalla Prima guerra del Golfo. Da quel 1991 molte cose sono cambiate. Di ciò abbiamo cercato di rendere conto in una serie di articoli passati.

L’azione diplomatica della Russia, accompagnata da una sua non meno determinata intraprendenza politico – militare, ha di colpo reso percepibile ai più lo scarto qualitativo che il “corridoio di Damasco” rappresenta. Il posizionamento della flotta russa del Mar Nero nelle acque immediatamente adiacenti al probabile scenario di guerra è qualcosa di più che un semplice monito o un’operazione di routine. Si tratta di un’azione di guerra, pur preventiva, a tutti gli effetti. Così come la fornitura al governo siriano di tecnologia in grado di neutralizzare i missili statunitensi, britannici e francesi, non ha certo i tratti di una convenzionale operazione commerciale. Di ciò non ne fa mistero Putin il quale, senza troppi rigiri di parole, ha affermato chiaramente che un attacco alla Siria equivarrebbe a un’aggressione alla Russia. L’orso russo difficilmente parla a vanvera.


Da un lato, attraverso la ragionevole proposta presentata all’ONU in relazione alla dismissione delle armi chimiche da parte del governo siriano, la Russia si è posta nella condizione di potenza politica in grado di gestire con saggezza e profitto una crisi internazionale dalle ricadute imprevedibili; dall’altro, nel caso di attacco, essa si è presentata agli occhi di tutte quelle popolazioni sotto scacco, come potenza garante dei diritti delle piccole nazioni e dei loro popoli. Un “colpo” non proprio di poco conto. Meno appariscente il ruolo della Cina la quale, tuttavia, per non sapere né leggere e né scrivere, sposta verso le aree del conflitto le avanguardie della sua flotta da combattimento attrezzate per neutralizzare l’eventuale attacco missilistico da parte di una qualunque forza interventista confermando, in tal modo, sia la solidità del “Patto di Shangai”, sia la valenza strategica, non solo sotto il profilo strettamente militare, che questo rappresenta dentro gli schieramenti internazionali.

La presenza corposa della Marina militare russa, insieme a quella, per il momento più modesta, cinese, affiancato al probabile know how tecnologico in dotazione alle forze siriane, rende, a partire dalle stesse operazioni militari, lo scenario quanto mai difficile, complesso e azzardato. A differenza di quanto osservato nelle guerre del recente passato, la discesa in campo di queste forze, può realisticamente azzerare il dominio aereo spaziale e delle comunicazioni che, negli ultimi conflitti, sono stati monopolio esclusivo delle coalizioni occidentali. Difficile, quindi, il ripetersi di quello scenario patetico dove il Paese aggredito cercava di rispondere con una contraerea da Seconda guerra mondiale a missili intercontinentali e bombardieri invisibili. Allo stesso modo, la tecnologia messa in campo al fianco del Governo siriano è in grado di rendere inutili tutte le operazioni finalizzate a schermare radar e punti di avvistamento, così come il sabotaggio delle comunicazioni, al fine di isolare i centri di comando dell’esercito aggredito, rischia di non avere buon gioco. L’insieme di questi fattori rende la “campagna di Siria” qualcosa di assai diverso da quel modello bellico che per le forze occidentali non sembrava molto diverso da un Luna Park avveniristico. Diversa diventerà pure l’immagine mediatica della guerra che i mezzi di comunicazione saranno in grado di fornire.

Difficile immaginare, se quanto ipotizzato contiene qualche grano di verità, il reiterarsi di quel “videogioco comunicativo” che, a conti fatti, è apparsa la “battaglia di Bagdad” nella seconda guerra del Golfo. Ben altre immagini, ammesso che militari e politici le permettano, si snoderanno sui canali televisivi e i siti internet. Il volto della guerra tornerà a mostrarsi esattamente per ciò che è: sangue, morte e distruzione ma, questo il punto, questa volta da entrambi i lati dello schieramento. Nel momento in cui, sul campo, a cadere in maniera massiccia e cospicua saranno anche le truppe della Coalizione imperialista, la percezione ampiamente costruita e amplificata dagli strateghi della comunicazione occidentale sul carattere virtuale e immateriale della guerra, cadranno velocemente in frantumi e la guerra a “costo zero” rimarrà solo il ricordo di un tempo che fu.

Se, come appare probabile, la Siria e i suoi alleati saranno in grado di annullare, anche solo limitandosi alla difesa, le forze aereonavali della coalizione di turno, la partita assumerà subito aspetti drammatici poiché: o gli aggressori saranno obbligati a ritirarsi dichiarando, in tal modo, che la loro presa sul mondo è finita o, se vorranno mantenere l’impegno assunto, dovranno optare per una forma di conflitto più tradizionale. Scendere sul terreno e lì giocarsela. Prospettiva non proprio esaltante in quanto, conseguenze politiche a parte, l’idea di scendere sul terreno senza poter vantare, come è accaduto in Iraq, del più completo governo dei cieli e delle comunicazioni, pone gli eserciti attaccanti in una situazione quanto mai incerta. Inoltre, come sempre accade in questi contesti, da una parte vi saranno truppe abituate a “vincere facile” pagando prezzi irrisori, dall’altra popolazioni che lotteranno per la propria sopravvivenza e indipendenza. Qui la cavalleria americana potrebbe trovare la sua nuova Little Bighorn.

Tutto ciò ha posto Obama e gli Stati Uniti all’angolo acutizzando, al contempo, le contraddizioni che albeggiano tra il fronte interventista dove alcuni Paesi, con in testa la Francia, intravedono la possibilità, attraverso una politica particolarmente aggressiva e prona all’interventismo, di ridefinire le gerarchie internazionali e acquisire, all’interno dell’area geostrategica europea, un ruolo di primo piano. Ciò, tra l’altro, consentirebbe alla Francia di sedere al tavolo del potente alleato germanico in una posizione di forza più prossima all’eguaglianza, sempre che Berlino rimanga intenzionata a coltivare il sogno di un forte imperialismo continentale e non ripieghi, e sarebbe un vero coup de théatre, anche se non privo di sensatezza, verso un’alleanza con Mosca, realizzando una possibilità storica tante volte annunciata e mai portata a compimento. L’adesione, puramente formale, di Berlino al piano di intervento statunitense lascia aperte non poche ipotesi. L’Italia, in tale contesto, non perde occasione por mostrare il tratto burlesco e cialtronesco della propria classe dirigente. Qualche parola in più su quanto accaduto nel nostro Paese in merito alla “crisi siriana” vale la pena di spenderla.

Il premier Letta, allineandosi senza se e senza ma all’ipotesi interventista statunitense, ha pensato bene di smentire in diretta sia il proprio Ministro degli Esteri Bonino, sia il Ministro della Difesa Mauro i quali, di fronte all’ipotesi di intervento, si erano dichiaratamente chiamati fuori dai giochi optando per una soluzione esclusivamente politica della “crisi siriana”. Ipotesi più vicina alla Russia che non agli USA e agli ultrà europei. Cialtronerie e assenza di professionalità a parte, le differenze tra il premier Letta e alcuni suoi non secondari Ministri riflettono le non poche contraddizioni che il posticcio e pasticciato governo italiano si porta appresso. Una contraddizione che non nasce certo oggi e che la necessità di dare stabilità al Paese attraverso un Governo di coalizione non ha certo fatto venir meno. Non bisogna dimenticare che tra i motivi scatenanti la caduta del “Governo Berlusconi”, attraverso il golpe Napolitano – Draghi – Monti supportato dalle truppe cammellate del PD e dell’UDC, vi era la titubanza – per non dire l’avversione – che Berlusconi e il suo Governo mostravano nei confronti dell’aggressione alla Libia. Guerra che, invece, Napolitano, il PD, l’UDC e la stessa SEL hanno immediatamente considerato strategicamente decisiva per la costituzione del Polo imperialista continentale. Un’accozzaglia di predoni e banditi che ha trovato, in talune circostanze, persino consensi in aree della cosiddetta sinistra radicale e antagonista. Per la “borghesia berlusconiana”, invece, la costituzione di un Polo imperialista continentale non è mai stata percepita come un buon affare. Essa ha sempre cercato, pur navigando a vista, di tessere una politica internazionale “autonoma” ossia libera di scegliersi, volta per volta, le alleanze a lei maggiormente convenienti. I rapporti privilegiati con la Russia, sotto tale aspetto, ne rappresentano una sintesi eccellente.

Berlusconi, nonostante i suoi problemi con il congiuntivo, la giustizia e le minorenni, ha dalla sua l’innegabile dote del fiuto. Basti ricordare i tempi in cui, mentre i suoi colleghi spendevano dieci miliardi di lire per accaparrarsi le prestazioni di una qualche promessa fuoriuscita dai campi della B, lui, con meno di cinque, portava al Milan Gullit, Van Basten e Rijkaard. Il medesimo fiuto, quello di capire in anticipo da che parte spiri il vento in modo da cadere, nella peggiore delle ipotesi, sempre in piedi, lo ha accompagnato anche nelle scelte politiche internazionali. Conscio che l’Italia non è in grado di svolgere un ruolo attivo e centrale nella costituzione del Polo imperialista continentale ma, nella migliore delle ipotesi, esserne mesto vassallo, ha sempre coltivato altre possibilità, non ultima quella di tessere rapporti privilegiati oltre che con la Russia con tutta una serie di Paesi, come ad esempio l’Algeria e la Libia, detentori di riserve strategiche come il gas e il petrolio, in modo da garantirsi in prima persona riserve energetiche di primaria importanza e, al contempo, avere mano libera in zone di scambio, di mercato e di investimenti gestiti attraverso il più classico gangsterismo affaristico. Gli stessi rapporti di “ottimo vicinato” con Bielorussia e Kazakistan andavano, e per molti versi continuano ad andare, esattamente in tale direzione.

Nell’acutizzarsi della competizione e del conflitto interimperialistico, la borghesia berlusconiana mira a non esservi trascinata come forza di prima linea, ma a mantenere una neutralità tale da consentirle, al momento opportuno, di salire sul carro dei vincitori. Un carro che il fiuto di Berlusconi non sembra individuare nell’alleato a Stelle e Strisce e neppure nelle consorterie a dominanza anglo/francese. Fiuto a parte, l’ipotesi berlusconiana sembra essere il frutto di una buona dose di realismo politico. Nello scenario che si profila, un vero e proprio scontro tra titani, i nostri stessi settori di borghesia imperialista indigena non possono aspirare ad altro, come i patetici governi Monti e Letta sono lì a ricordare (Bruxelles li rimanda continuamente a settembre obbligandoli, per di più, a continui “compiti a casa”), che diventare piccole appendici di consorterie transnazionali potenti e agguerrite, incapaci pertanto di assurgere a un qualche ruolo di primo piano In tale contesto, le “pre-moderne” frazioni di borghesia berlusconiana corrono il concreto rischio di precipitare nella condizione di sanculotti.

Ad ogni modo, le contraddizioni presenti all’interno dell’area interventista non finiscono certo qua. Se gli alleati occidentali degli Stati Uniti sono tutto tranne che una “squadra”, il quadro si complica maggiormente spostando lo sguardo verso gli alleati mediorientali.

A scombussolare ancora di più lo scenario, infatti, è sopraggiunta l’ultima dichiarazione di Al Zawahiri, il presunto leader di Al Qaeda (imbarazzante, almeno in apparenza, alleato nella “campagna di Siria”), il quale, prendendo a pretesto la ricorrenza dell’11 Settembre, indica quale sarà la “linea di condotta” del braccio armato internazionale delle Petromonarchie: aggredire gli USA in casa loro, con attacchi continui e costanti a bassa intensità. Tutto ciò al fine di ottenere un duplice risultato: rendere costantemente insicuro il territorio metropolitano statunitense – cosa che, per gli USA, comporta una novità in assoluta poiché dai tempi di Fort Alamo non ha mai conosciuto la guerra, portata da parte di una forza straniera, al suo interno – e in seconda battuta, come effetto obbligato del clima di insicurezza permanente al suo interno, obbligare il governo federale statunitense a investire risorse considerevoli sul piano della sicurezza, tanto da facilitarne il crollo economico. In questo progetto, l’imperialismo qaedista, per di più, può vantare una qualche presa tra le masse subalterne non occidentali e reclutare, in tal modo, forze partigiane da impiegare dietro le linee nemiche. Giocando, come già fece a suo tempo l’imperialismo giapponese, la carta della “linea del colore”, la guerra imperialista di Al Qaeda veste i panni della riscossa musulmana al fine di ottenere un “consenso di massa” al suo agire brigantesco. Un aspetto che non va sottovalutato poiché, se non altro, indica quali e quante insanabili contraddizioni la fase imperialista globale abbia messo in gioco.



I volti di Marte

Detto ciò, proviamo ad analizzare il senso politico e strategico del progetto coltivato da Al Qaeda.


In altre parole, ed è l’esatto corollario di quanto la conduzione della guerra asimmetrica si porta appresso, per il quartier generale quaedista si tratta di applicare la medesima tattica utilizzata da Lawrence d’Arabia nel corso della “Guerra nel deserto” contro i turchi: colpire con mille punture di insetto il rinoceronte turco, sino a farlo stramazzare al suolo. Esattamente attraverso questa tattica estremamente efficace ed efficiente, e al contempo non eccessivamente dispendiosa in termini di risorse umane e tecniche, la guerriglia araba fu in grado durante il primo conflitto mondiale di immobilizzare, in un primo momento, gran parte dell’esercito dell’Impero Ottomano schierato in Medio Oriente e, al termine di un lungo logoramento, contribuirne in maniera decisiva all’implosione. Certo, perché ciò si rendesse possibile, occorreva anche uno stato di crisi dell’Impero Ottomano poiché, per quanto geniale, una particolare forma di guerriglia, di per sé, non è in grado di ottenere risultati tanto importanti contro una struttura statuale solida, compatta e con una popolazione fortemente decisa a difendere la propria forma politica. Ma proprio su una situazione latente di crisi, su una tale situazione di disaffezione delle popolazioni alle “proprie” istituzioni, la genialità di Lawrence trovò proficua applicazione. Apparenze di solidità, potenza e maestosità a parte, infatti, l’Impero Ottomano viveva esattamente una condizione complessiva di crisi rispetto alla quale, alla fine, l’esercito rappresentò la struttura di maggior tenuta e, al contempo, di maggiore fragilità. Sulla sua  potenza militare l’Impero Ottomano giocò la carta della rinascita; perciò il crollo dell’esercito ne decretò il collasso definitivo. Un gigante sì, ma corroso da mille contraddizioni e problemi. Alla base, quindi, della “Guerra nel deserto” non vi era altro che un’originale applicazione del principio di Clausewitz del rapporto tra politica e guerra dove l’insieme dei fattori politici, economici, sociali e culturali che fanno da sfondo alla guerra devono essere costantemente tenuti a mente. In questo senso solo un “cervello politico” capace di leggere per intero la forma politica antagonista è in grado di elaborare una “linea di condotta” militare vittoriosa.

Lo strapotere tecnico – militare può, come in effetti si è dimostrato anche in questi anni, avere facilmente ragione in conflitti che, tutto sommato, alla scala della storia si configurano come “bagatelle” di dimensioni più o meno rilevanti ma, nel momento in cui la guerra tende a generalizzarsi, solo una esatta disamina della “forza totale” dell’avversario può garantire un piano militare all’altezza della situazione. Sotto tale aspetto, allora, non vi è nulla di meno tecnico e tecnologico della guerra. L’errore fatale, tanto per ricordare un fatto storico ampiamente noto, commesso dal nazifascismo nei confronti dell’URSS fu esattamente quello di fare della forza delle sue divisioni corazzate e dei bombardieri che gli aprivano la strada l’elemento centrale della guerra sottovalutando, al contempo, tutti quegli elementi, dall’apparato produttivo al lealismo della popolazione verso le proprie istituzioni politiche, che in una guerra totale diventano l’elemento non solo centrale, ma assoluto. Proprio sulla solidità della sua forma politica l’URSS costruì, in primo luogo, le basi e le premesse per la vittoria finale, nonostante i primi mesi di guerra configurassero una situazione apparentemente disperata e senza soluzioni. La migliore riprova di quanto la solidità e la salute di una forma politica si mostrino l’elemento centrale nella conduzione della guerra, rimanendo sempre nell’ambito della Seconda guerra mondiale, è rappresentato dalla Francia dove, a fronte di un bagaglio tecnico – militare persino superiore per quantità e qualità a quello tedesco, il disfacimento politico e morale della Terza Repubblica permise al nazismo di liquidare la pratica Francia in due mesi.

Il veloce richiamo a questi accadimenti storici è importante poiché essi mostrano come la guerra rappresenti il banco di prova per eccellenza per qualunque forma politica la quale, proprio dentro tale contesto, testa la solidità complessiva del suo sistema. Difficile, per non dire impossibile, pensare di condurre una guerra in maniera vittoriosa se la propria cornice esistenziale è gravida di contraddizioni e nodi politici, economici e sociali non solo irrisolti ma continuamente dilatati ed esasperati. A partire da questa obiettiva disamina dello stato di salute della potenza nordamericana, la “Guerra nel deserto” di Lawrence d’Arabia, torna ad essere una possibile pratica combattente all’interno del conflitto interimperialistico. Tale tattica, dalle forze egemonizzate da Al Qaeda, è ipotizzata dentro uno scenario in cui, a diventare centrale, non è il piano militare bensì quello economico. Ciò che Al Qaeda ha in mente non è il crollo della potenza politico – militare statunitense, piuttosto la sua implosione economica con tutte le inevitabili conseguenze del caso. Una vera e propria nemesi per gli Stati Uniti poiché, se tale strategia avesse successo, si troverebbero a vivere la medesima condizione conosciuta dall’URSS e dal “Patto di Varsavia”, implose economicamente nel tentativo di reggere, sul piano strategico – militare, la sfida con gli USA e la NATO.

Un’ipotesi tutt’altro che fantasiosa e che sarebbe poco sensato ascrivere al mondo del profetico come se i leader di Al Qaeda osservassero lo scenario storico/politico contemporaneo attraverso le lenti del Corano e fossero pervenuti a un’analisi della realtà statunitense semplicemente forzando una qualche sura o ayāt del libro sacro. Pensarlo, infatti, sarebbe come se, per leggere le mosse dello IOR, si dovesse far ricorso al Deuteronomio. L’ipotesi formulata da Al  Zawahiri si mostra di particolare interesse perché evidenzia come una forza imperialista, direttamente concorrente su scala globale con l’impero statunitense, registri sobriamente, e su basi assolutamente materiali e non ideologiche, quanto avanzato sia l’Autunno degli USA.

Una constatazione che, al di là delle retoriche di facciata e della pacche sulle spalle elargite a costo zero al Presidente statunitense nel corso del recente G20, sembra essere patrimonio comune di gran parte delle Cancellerie internazionali. Ciò che, con ogni probabilità, in molti si aspettano dalla “Guerra di Siria” è l’implosione, o almeno il corposo ridimensionamento, dell’impero nordamericano e il conseguente banchetto che ciò potrebbe offrire. Del resto non sarebbe neppure uno scenario troppo nuovo.

Fatte le tare del caso, gli USA, oggi, possono vantare una posizione non dissimile da quella ostentata dalla Gran Bretagna a ridosso del Secondo conflitto mondiale. Nel 1940, agli occhi del mondo, l’Impero britannico era la più possente e temibile potenza politica – militare presente sulla scena internazionale. Quella potenza era l’esatto risultato della vittoria ottenuta nel Primo conflitto mondiale il quale, almeno in apparenza, aveva regalato al mondo un’entità politica dalla potenza mai vista. Nel 1945, di tutto ciò, non rimane quasi nulla e, direttamente o meno, quella costruzione politica finì, almeno in gran parte, in grembo agli USA. La Gran Bretagna, da potenza mondiale, dovette ripiegare al più modesto ruolo di alleato di “primo letto” del nuovo signore del mondo. Oggi, per molti versi, sembra profilarsi qualcosa di simile. Gli Stati Uniti si trovano nella non facile posizione di dover compiere una serie di atti, quelli che ci si aspetta da una potenza di tale rango, mentre la loro debolezza strutturale li limita non poco. Inoltre, a differenza di un passato recente, ma ormai distante in maniera siderale, gli USA non possono più contare su alleati fedeli ma, nella migliore delle ipotesi, su compagni di strada che, in qualunque momento, possono voltargli le spalle se non, addirittura, piantar loro un coltello nel petto o nella schiena.

La coalizione messa in campo dagli USA, trasportata sul piano delle relazioni politiche internazionali, non sembra altro che il remake di Giungla d’asfalto. Là un insieme di individui si misero insieme per portare a termine un colpo e, una volta realizzato, ognuno iniziò a fare la guerra agli altri per tenersi l’intero bottino; qua gruppi imperialisti, complottano, ancor prima di aver messo le mani nella marmellata, gli uni contro gli altri, cercando di trarre il massimo profitto per se stessi e il massimo danno per gli altri. Del resto, gli USA, di ciò ne hanno qualcosa di più che un vago sentore. Il controllo ossessivo al quale hanno sottoposto da tempo proprio i loro “migliori alleati” ne rappresenta una buona esemplificazione. Lo stesso modo in cui, a conti fatti, l’“incidente diplomatico” del Datagate è stato velocemente accantonato da tutti mostra quanto, almeno tra gli addetti ai lavori, i giochi siano tutto sommato chiari: Ognuno per sé e Dio per tutti.

Venuto meno il “Patto di Varsavia”, ossia il nemico comune, con le conseguenti trasformazioni non solo politiche ma soprattutto economiche e sociali che hanno fatto seguito al dissolvimento del “Blocco socialista”, il mondo è diventato qualcosa di completamente diverso tanto che, e non è proprio un fatto irrilevante, il dollaro, in quanto moneta, ha cessato di essere la moneta sovrana. In questo scenario, radicalmente nuovo e diverso rispetto a quanto conosciuto tra il 1945 e il 1989, tutto torna in gioco. Le linee dell’amicizia e dell’inimicizia di ieri cadono in frantumi. L’ordine internazionale precipita e il nuovo nomos della Terra rimane tutto da decifrare. Una condizione che, per molti versi, riporta alla mente ciò che faceva da sfondo al fatidico colpo di cannone del ’14.Infatti, se un qualche collegamento storico è sensato operare, questi trova maggiori, pur con tutte le ovvie tare del caso necessarie, assonanze con quanto accaduto nel 1914 piuttosto che nel ‘39.

In tale scenario, allora, la Siria assume le vesti della Serbia e l’incidente dei gas ne può rappresentare la sua Sarajevo. Se c’è qualcosa di completamente assente dallo scenario bellico attuale è la dimensione ideologica,con la sola eccezione delle forze qaediste il cui intervento nella guerra siriana è ammantato anche di motivazioni “religiose” e ideologiche. Ciò è vero osservando la frastagliata composizione, e ancora tutta da definire, coalizione in fieri prona all’intervento armato immediato sia guardando in maniera oggettiva lo schieramento pronto a difendere i “destini della Siria”. Osservando anche solo superficialmente quanto si è delineato appare evidente che, andando al sodo, Assad e il suo regime perdono qualunque importanza e interesse mentre, a diventare centrale, è tutto ciò che, in e dentro il conflitto siriano, è in gioco.

Non diversamente da quanto accaduto nel Primo conflitto mondiale, anche se questa volta gli attori protagonisti sono di gran lunga superiori, ciò che si delinea è la messa in forma di un conflitto di pura potenza dentro il quale, a differenza di quanto accaduto nel 1914, neppure la variante patriottica può giocare una qualche suggestione ideologica e/o morale. Per altro verso, gli assi strategici che si vanno delineando, del resto, neppure alla lontana possono far tornare alla mente le coalizioni viste all’opera nel corso della Seconda guerra mondiale. Nessuna “Grande guerra patriottica”, nessuna rielaborazione dei “principi dell’89”, nessun fronte della libertà contro la barbarie può, oggi, fare da sfondo all’imminente conflitto. Così come sulla piccola Serbia trovarono la loro sintesi l’insieme di contraddizioni di quella fase imperialista oggi, sulla piccola Siria, sembrano venire al pettine i nodi dell’attuale fase imperialista e tutto ciò avviene senza che una qualche ideologia sia in grado di sostanziarne il senso.



Il dilemma della sovranità


Torniamo al soffio dei venti di guerra. Obama, pur evidenziando la legalità decisionista che il suo mandato comporta, cerca, soprattutto all’interno degli USA, un consenso sufficientemente ampio prima di dare il via ai giochi; la Francia preme per un intervento militare senza se e senza ma ponendosi, almeno in apparenza, come il classico falco della situazione ma, al contempo, osserva imbarazzata e preoccupata la non popolarità che un eventuale intervento in Siria nutre tra la propria popolazione; la Russia, sapendo benissimo che nessuna commissione internazionale sarà in grado di stabilire alcuna verità “vera” sull’uso dei gas, formula quella che, al momento, appare la soluzione politica e diplomatica maggiormente gettonata. In poche parole, balletti diplomatici a parte, una certa dose di titubanza sembra essere presente tra tutti gli attori deputati a svolgere un ruolo primario nell’immediato scenario bellico. Ad aleggiare è una certa difficoltà a esercitare appieno la decisione, il che, per altro verso, rimanda alla questione a questa immediatamente correlata: la sovranità. Difficile, infatti, pensare di entrare in un conflitto che ha tutte le premesse e potenzialità per trasformarsi in una guerra vera e propria, una guerra totale, senza poter esercitare appieno la sovranità, ossia poter esercitare il controllo e la direzione della popolazione chiamata, in prima persona, a sostenere i costi e gli oneri della decisione. Ed è esattamente a questo punto che emergono appieno le contraddizioni interne all’attuale fase imperialista.


Come abbiamo cercato di argomentare nelle pagine precedenti, le contraddizioni tra i diversi blocchi imperialisti sono ampie, diffuse e laceranti ma non meno ingarbugliata si mostra la situazione osservando quanto accade dentro i confini dei blocchi imperialisti stessi e, in particolare, tra quelli a dominanza statunitense ed europea. Una non secondaria crisi di sovranità, tra questi, sembra manifestarsi in maniera piuttosto vistosa. Tra Governo e Popolazione sembra essersi aperto un baratro difficilmente colmabile. Ciò rende la situazione, per le classi dominanti, forse non esplosiva ma certamente poco gestibile poiché, proprio nel momento in cui sarebbe necessaria una forte presa sulla propria popolazione, questa si mostra, almeno in gran parte, poco “cointeressata” a seguire, e a pagare, le politiche di potenza delle classi dominanti.


L’aspetto intorno al quale pare opportuno focalizzare l’attenzione, pertanto, è l’ assenza di consenso da parte della popolazione nei confronti della “campagna di Siria”. A livello di massa, forse come semplice intuizione, appare alquanto diffusa l’ostilità nei confronti della guerra mentre i governi sembrano ricercare un’adesione alle politiche di guerra di natura ben diversa da quella richiesta per le operazioni militari del recente passato. Il ricorso al voto del Parlamento da parte di tutti i governi che hanno manifestato l’intenzione di un attacco militare alla Siria, in quanto espediente per temporeggiare e rimandare la dichiarazione dello stato d’eccezione, dimostra l’evidente difficoltà che il conflitto siriano rappresenta per essi. Nessun governo è attualmente in grado di vantare un dominio e un controllo tale sulla propria popolazione da poter prendere una decisione sull’inizio di una guerra, che ha tutte le premesse per avere ricadute globali, scavalcando il piano della legalità e dando corso all’eccezionalità della decisione politica. Il ricorso ai propri parlamenti da parte delle potenze imperialiste, in questo frangente, non è altro che il segno della mancanza da parte di queste ultime della forza necessaria per esercitare appieno la decisione.

Se sovrano è chi possiede la forza di decidere sullo stato di eccezione, le vicende cui stiamo assistendo raccontano esattamente la crisi di sovranità cui sono soggette attualmente le potenze imperialiste. D’altra parte, storicamente l’esercizio della sovranità negli stati borghesi ha coinciso con l’identificazione dello Stato con la Nazione, ossia con quell’entità storica, lo Stato/Nazione, fondata proprio sulla capacità delle classi dominanti di includere la popolazione all’interno dei confini dello Stato, attraverso un processo di nazionalizzazione delle masse. A questo processo corrispondeva un determinato assetto produttivo e l’apparato ideologico ad esso legato, capace di garantirne il funzionamento. La fase globale del capitalismo con ogni evidenza ha decretato la fine dell’entità storico politica dello Stato/Nazione, in quanto le trasformazioni strutturali degli assetti produttivi hanno reso obsoleto quel rapporto tra classi dominanti e masse, fondato sulla necessaria inclusione politica (con gli inevitabili corollari rappresentati dai diritti sociali) di queste ultime, diretta all’ottenimento del consenso.

La crisi sistemica e globale del processo di accumulazione, motore del sistema economico capitalistico, ha accelerato questo processo rendendo necessaria per l’ottenimento di profitti e per l’estrazione di plusvalore, uno sfruttamento sempre più massiccio della forza lavoro di fatto globalizzata “in basso” anche nei paesi occidentali. Il processo di globalizzazione “in basso” della forza lavoro, con il simultaneo venir meno dei confini economici tra primo e terzo mondo, altro non ha significato se non la necessità per i governi, espressione degli interessi delle classi dominanti, di attuare dispositivi di esclusione della popolazione dai processi decisionali e dai confini della mediazione statuale. Questo processo trova in questo momento – di fronte all’esigenza e alla tendenza sempre più inevitabile delle potenze imperialiste alla guerra come mezzo per risolvere una crisi che non trova altre vie d’uscita -  il punto di massima contraddizione. Infatti, la tendenza alla guerra totale, necessaria alla distruzione di capitale variabile e costante e unica via d’uscita allo scontro interimperialistico sempre più diretto, prefigura l’adesione attiva, la “mobilitazione totale”  della popolazione come necessità strategica essenziale per la conduzione della guerra. È esattamente qui che si evidenzia per intero lo scarto con la storia del nostro recente passato.

Con ogni probabilità si è ormai perso il conto del numero di guerre messe in forma dal 1991 a oggi. Di fronte a queste, forse con la sola eccezione dell’intervento in Iraq, gran parte della popolazione dei nostri mondi mostrava un sostanziale disinteresse. Anche nel caso della seconda guerra del Golfo, però, la disputa intorno alla guerra era come minimo pretestuosa, per esempio nel nostro Paese la vera posta in palio era il “Governo Berlusconi” e le sue azioni. La riprova, del resto, si è avuta nel 2006 quando, con il cambio di governo, la politica irakena non ha subito sostanziali modifiche e il nuovo governo in carica si è affrettato a riconoscere, in fondo, la sensatezza interventista del governo precedente. Nel nostro Paese la guerra in Iraq si è risolta in una bega condominiale. Il che, osservando lo scenario complessivo, trova la sua spiegazione nello statuto stesso delle guerre degli ultimi anni.

Le guerre erano lontane, “immateriali”, distanti dalla vita reale e concreta delle popolazioni. Le bolle speculative non erano ancora scoppiate e i costi delle missioni militari sembravano non incidere più di tanto sulla vita delle masse. Inoltre, e si tratta con ogni probabilità dell’aspetto principale, nessun “cittadino normale” era direttamente coinvolto nelle operazioni di guerra. A combattere erano volontari, nel caso delle truppe legittime, soldati di ventura, contractor o, più prosaicamente, mercenari nel caso di combattenti recatisi negli scenari di guerra a seguito di un contratto stipulato con una delle numerose agenzie private specializzate nel fornire materiale umano per svolgere una delle tante attività che lo stato di guerra comporta.

Queste agenzie, non diversamente da una qualunque agenzia interinale, forniscono personale per ogni tipo di incombenza. Così come una normale agenzia è in grado di reperire lavapiatti, camerieri, cuochi specializzati ecc., allo stesso modo le agenzie specializzate in guerra e sicurezza sono in grado di fornire ai diversi committenti ex berretti verdi, ad alto contenuto tecnico/professionale, ex paracadutisti specializzati nel sabotaggio, uomini rana particolarmente utili per conquistare postazioni strategiche acquatiche ma anche semplice carne da cannone da impiegare nelle operazioni militari più classiche. Quella classica ed eterna fanteria che, per forza di cose, paga sempre prezzi altamente elevati e che, non per caso, è composta per lo più da contractor provenienti dai Paesi africani sino ad arrivare a bodyguard di belle speranze che, impegnati in operazioni di sicurezza di basso profilo, pensano di andare a svolgere le loro mansioni in una Rimini solo un po’ più movimentata. L’Italia, sotto questo aspetto, è stata particolarmente ben rappresentata.

Tutte queste figure, sicuramente molto differenti tra loro, come i loro ingaggi testimoniano, hanno una cosa in comune: sono lì per libera scelta. Certo si potrà obiettare – e questo vale soprattutto per i mercenari africani o i numerosi “volontari” dell’esercito statunitense i quali, attraverso il servizio militare, si conquistano il diritto alla Green Card – che si tratta pur sempre di scelte in gran parte indotte dalla povertà ma, ed è ciò che conta, nessuna leva obbligatoria li ha presi e spediti in qualche angolo del mondo. L’impatto che le loro morti hanno all’interno dei Paesi di origine è, per lo più, assai limitato. Il grosso dei morti delle coalizioni occidentali, quando ci sono, è dato da forze nazionalmente non inquadrate e che, per di più, le logiche di senso comune ascrivono al mondo dei proscritti,mentre gli stessi “morti nazionali” fanno parte di un esercito che ha perso ogni legame organico con la Nazione. Tutto ciò ha fatto sì che, nei nostri mondi, la guerra finisse con l’essere confinata ad una parte infinitesimale della popolazione. A conti fatti ben pochi ne risultavano realmente coinvolti. Di fronte alla guerra vi era una sostanziale apatia. Ciò era quanto bastava ai vari governi per condurre, pressoché indisturbati, le loro operazioni di posizionamento strategico sulla scena internazionale. Nessuno, a ben vedere, chiedeva un’adesione alle imprese belliche ma, più modestamente, la non interferenza in ciò che, in fondo, veniva presentato come campo esclusivo per addetti ai lavori e personale competente.

La guerra che, almeno a partire dalla Grande Rivoluzione, si era ammantata sempre di una qualche battaglia campale di popolo stile Valmy, oramaidi questa ne aveva perso ogni memoria. La guerra era distante non tanto spazialmente – la guerra in Jugoslavia era stata combattuta pur sempre in territorio europeo  ma temporalmente. In tale ottica, ampiamente enfatizzata dalla teoria politica dominante, dai media insieme agli opinionisti di turno, la guerra veniva presentata come il retaggio di un mondo antico, il quale poco o nulla aveva a che fare con la nostra realtà. Le guerre venivano ancora dolorosamente combattute per aiutare alcune popolazioni a colmare il ritardo storico che le separava da noi. Un nuovo colonialismo? Forse, ma con intenti assolutamente umanitari ed emancipativi mentre, l’obiettivo reale, sottoporre ogni parte del globo alle retoriche ed esigenze del capitalismo globale, venivano continuamente sottaciute privando gli interventi di qualunque investitura ideologica. La riduzione del nemico a entità banditesca e/o etnica ne configurava, sin da subito, il tratto impolitico.

La cornice culturale e materiale entro la quale le guerre prendevano forma faceva sì che, per i più, quella che era stata a lungo il frutto della decisione politica per eccellenza retrocedesse a semplice gioco esotico. Inoltre, altro aspetto non poco rilevante, nessuna di queste guerre mostrava un volto ideologico. Presentate, volta per volta, come “operazioni umanitarie”, “operazioni di polizia” e via discorrendo, queste guerre non sembravano in grado di contrapporre due campi politici realmente avversi bensì la prosaica differenza tra un mondo ricco e ordinato e uno povero e caotico.  Riassumendo: guerre condotte da professionisti e volontari; assenza di ricadute visibili e corpose nei nostri mondi; impoliticità degli interventi; non coinvolgimento attivo delle masse nella conduzione della guerra. Proprio nella messa in forma di questa modellistica di guerra sembrava consumarsi e concludersi per intero il legame tra Stato e Nazione che aveva catturato per almeno due secoli la forma guerra. Al proposito è quanto mai significativo l’assenza di mobilitazione da parte di quegli strati sociali, piccola e media borghesia, che hanno sempre rappresentato la “base di massa” delle guerre imperialiste e sulla cui mobilitazione permanente ha potuto materializzarsi quel processo di “nazionalizzazione delle masse” che, in non pochi casi, ha finito con il contaminare anche quote non secondarie di proletariato. Paradossalmente, oggi, le organizzazioni politiche radicali della piccola e media borghesia, il mondo dell’estrema destra, non preme in alcun modo per la guerra. Per sommi capi questo lo scenario che si è delineato nel corso di tutte le guerre combattute dal 1991 a oggi.

Di fronte al “corridoio di Damasco” tutto ciò sembra cambiare repentinamente. Il consenso apatico della popolazione non sembra più essere sufficiente. Occorre che, la popolazione di ogni blocco imperialista, si schieri in prima linea perché la posta in gioco, dentro la crisi sistemica e globale del sistema capitalistico, è tale da coinvolgere direttamente le potenze in campo. È esattamente qua che emergono le contraddizioni interne proprie dell’attuale fase imperialista globale. Di fronte a una guerra che avrebbe la concreta possibilità di tornare a essere qualcosa che ci riguarda direttamente da vicino, occorre perché possa essere condotta, che ampie quote di popolazione siano disposte ad abbracciare con entusiasmo la guerra e le sue ricadute. Il consenso deve tornare ad essere attivo e pronto alla “mobilitazione totale”. Ma questa esigenza strategica si scontra inevitabilmente con le logiche politiche che, in questi anni, hanno presieduto alla formazione economica e sociale della fase imperialista globale e che, il precipitare della crisi ha ulteriormente enfatizzato.

Nei Paesi europei, dato non proprio irrilevante, il numero dei disoccupati è salito a oltre 26 milioni di unità, mentre le condizioni di lavoro precarie e marginali, aumentano a vista d’occhio dando vita a un fenomeno di massa quale l’esclusione sociale impensabile per quella costruzione politica che era lo Stato/Nazione, in cui l’obiettivo della piena occupazione, come il keynesismo di guerra è lì a ricordare, era uno dei capisaldi delle politiche economiche degli Stati. In contemporanea la pressione fiscale colpisce come una scure impietosa tutto il lavoro subordinato e le posizioni di rendita della piccola borghesia. In poche parole, oggi, assistiamo alla messa in atto di una vera e propria “guerra sociale” da parte delle elite dominanti contro gran parte dei subalterni. Uno scenario che, obiettivamente, non può certo favorire il prodursi di un consenso verso una politica militare di “lacrime e sangue” la quale, per potersi realizzare, necessita di un consenso e un’adesione alle politiche governative a tutto tondo. Al contrario, il modello socio economico attuale, giorno dopo giorno non fa altro che porre in fuori gioco quote sempre più consistenti di popolazione. Le forze imperialiste occidentali si trovano a dover fronteggiare una duplice contraddizione. Sul piano globale devono, se non vogliono retrocedere a postazioni da medio-bassa classifica, giocarsi per intero la partita internazionale che inevitabilmente le spinge al conflitto armato ma, al contempo, si ritrovano con una panchina talmente corta da rendere l’impresa a dir poco disperata. La guerra sociale condotta contro le “proprie” classi sociali subalterne ha ridotto all’osso la base di massa per una guerra sul piano internazionale che si profila, necessariamente, ad alta intensità.

Leggere queste contraddizioni è la possibilità che un’analisi marxista della realtà offre alle forze comuniste per l’elaborazione di un pensiero strategico all’altezza del presente. Dentro questa “crisi di sovranità” si apre la concreta possibilità per una politica comunista in grado di portare sino alle estreme conseguenze i frutti maturi della crisi capitalistica globale. Raccogliere questa sfida per le avanguardie comuniste, significa assumere concretamente e consapevolmente l’urgenza, dentro lo scenario attuale, dell’elaborazione  di una prospettiva politica e organizzativa complessiva.

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