Print Friendly, PDF & Email
le monde diplomatique

TTIP, il grande mercato transatlantico

I potenti ridisegnano il mondo

di Serge Halimi

I negoziati relativi al Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti (Ttip) fra gli Stati uniti e l’Unione europea conferma la determinazione dei liberisti a trasformare il mondo, ngaggiare dei tribunali al servizio degli azionisti , fare della segretezza una virtù progressista e consegnare la democrazia alle cure dei lobbisti.

…la loro inventiva è sfrenata. Prima dell’eventuale ratifica del trattato restano da superare diverse tappe. Ma la finalità commerciale del Ttip si accompagna a mire strategiche: isolare la Russia e contenere la Cina mentre queste due potenze si avvicinano l’una all’altra.

korabUN’AQUILA del libero scambio statunitense attraversa l’Atlantico per far strage di un gregge di agnelli europei mal protetti. L’immagine è dilagata nel dibattito pubblico sull’onda della campagna per le elezioni europee. È suggestiva ma politicamente pericolosa. Da un lato, non permette di capire che anche negli Stati uniti diverse collettività locali rischiano un domani di essere vittime di nuove norme liberiste le quali impedirebbero loro di proteggere lavoro, ambiente e salute. D’altro canto, fa distogliere lo sguardo dalle imprese europee – francesi come Veolia, tedesche come Siemens – che esattamente come le loro colleghe statunitensi sono determinate a far causa agli Stati che osano minacciare i loro profitti (si legga l’articolo di Benoît Bréville et Martine Bulard, pagine 14 e 15). E infine, trascura il ruolo delle istituzioni e dei governo del Vecchio continente nella formazione di una zona di libero scambio sul proprio territorio.

Dunque, l’impegno contro il Ttip non deve prendere di mira uno Stato specifico, nemmeno gli Stati uniti. La posta in gioco è al tempo stesso più ampia e più ambiziosa: riguarda i nuovi privilegi rivendicati dagli investitori di tutti i paesi, magari come risarcimento per una crisi economica che essi stessi hanno provocato. Una lotta di questo tipo, portata avanti efficacemente, potrebbe consolidare solidarietà democratiche internazionali che oggi sono in ritardo rispetto a quelle esistenti fra le forze del capitale.

In questo contesto, è meglio dunque diffidare delle coppie che sembrano eterne. La regola si applica al protezionismo e al progressismo quanto alla democrazia e all’apertura delle frontiere. In effetti la storia dimostra che le politiche commerciali non hanno un contenuto politico intrinseco (1). Napoleone III coniugò Stato autoritario e libero scambio (si legga l’articolo di Antoine Schwartz, pagine 16 e 17), quasi nello stesso periodo in cui, negli Stati uniti, il Partito repubblicano sosteneva di preoccuparsi degli operai del paese, in realtà per difendere meglio la causa dei trust, dei «baroni ladri» dell’acciaio che mendicavano protezioni doganali (2). « Il Partito repubblicano è nato dall’odio per la schiavitù e dal desiderio che tutti gli uomini siano davvero liberi ed eguali, indicava la sua piattaforma del 18 8 4 , perciò si oppone inequivocabilmente all’idea di mettere i nostri lavoratori in concorrenza mediante l’una o l’altra forma di lavoro asservito, negli Stati uniti o all’estero (3)». Già a quell’epoca si pensava ai cinesi. Ma si trattava delle migliaia di sterratori venuti dall’Asia, ingaggiati da compagnie ferroviarie californiane per compiere un lavoro da forzati in cambio di salari da fame.

Un secolo dopo, la posizione internazionale degli Stati uniti è ben diversa e tanto democratici quanto repubblicani fanno la gara a chi intona la serenata liberoscambista più mielosa. Il 26 febbraio 1993, appena un mese dopo il suo insediamento alla Casa bianca, il presidente William Clinton si mette in prima linea con un discorso programmatico destinato a promuovere l’Accordo nordamericano di libero scambio (Nafta), che sarà votato alcuni mesi dopo. Egli riconosce che il «villaggio globale» ha incrementato disoccupazione e bassi salari negli Stati uniti, ma si propone di accelerare il passo nella stessa direzione: «La verità della nostra epoca è e deve essere la seguente: l’apertura e il commercio ci arricchiranno in quanto nazione. Ci inducono a innovarci. Ci obbligano ad affrontare la concorrenza. Ci assicurano nuovi clienti. Favoriscono la crescita globale. Garantiscono la prosperità dei nostri produttori, che sono essi stessi consumatori di servizi e materie prime.»

A partire da questo momento, i diversi round di liberalizzazione degli scambi internazionali hanno già ridotto i diritti doganali in media dal 45% nel 1947 al 3,7% nel 1993. Poco importa: la pace, la prosperità e la democrazia chiedono che si vada sempre più lontano. «Come hanno sottolineato i filosofi, da Tucidide ad Adam Smith, insiste dunque Clinton, la consuetudine ai commerci contraddice quella alla guerra. Così come i vicini che si sono aiutati a costruire le stalle, più difficilmente saranno poi tentati di incendiarsele, quelli che hanno mutualmente elevato i propri livelli di vita, più difficilmente si scontreranno. Se crediamo alla democrazia, dobbiamo dunque impegnarci a rafforzare i legami commerciali.» Ma la regola non si applicava a tutti i paesi: nel 1996, il presidente democratico firmò una legge che inaspriva le sanzioni commerciali contro Cuba.

Dieci anni dopo Clinton, il commissario europeo Pascal Lamy – un socialista francese diventato in seguito direttore generale dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) – riprende la sua analisi: «Penso che, per ragioni storiche, economiche, politiche, l’apertura degli scambi vada nel senso del progresso dell’umanità. Nei periodi di apertura degli scambi ci sono stati meno conflitti e meno disgrazie che nei periodi di chiusura. Dove arriva il commercio, si fermano le armi. Montesquieu lo disse meglio di me (4).» Ma Montesquieu nel XVIII secolo non poteva sapere che un secolo dopo i mercati cinesi si sarebbero aperti non grazie alla forza di persuasione degli enciclopedisti ma a colpi di cannoniere, guerre dell’oppio e saccheggio del Palazzo d’estate. Fatti che invece Lamy non può ignorare.

MENO ESUBERANTE del suo predecessore democratico – per una questione di temperamento –, il presidente Barack Obama rilancia a sua volta il credo liberoscambista delle multinazionali statunitensi – e anche europee, anzi di tutti i paesi – per difendere il Ttip: «Un accordo potrebbe far crescere le nostre esportazioni di decine di miliardi di dollari, favorire la nascita di migliaia di posti di lavoro, negli Stati uniti e nell’Unione europea, e stimolare la crescita sulle due sponde dell’Atlantico (5)». Pur essendo a malapena evocata, la dimensione geopolitica dell’accordo importa più dei suoi ipotetici benefici in termini di crescita, posti di lavoro, prosperità. Washington, che vede lontano, conta sul Ttip non per conquistare il Vecchio continente, ma per stornarlo da ogni prospettiva di riunificazione con la Russia. E soprattutto, per… contenere la Cina.

E anche su questo punto, c’è una totale convergenza con i dirigenti europei. «L’affermazione di questi paesi emergenti è un pericolo per la civiltà europea, ritiene ad esempio l’ex primo ministro francese François Fillon. E l’unica nostra risposta sarebbe dividerci? È una follia (6).» Giustamente, afferma anche il deputato al Parlamento europeo Alain Lamassoure, il Ttip potrebbe permettere agli alleati atlantici di «mettersi d’accordo su norme comuni per imporle in seguito ai cinesi (7)». Architettato da Washington, un partenariato transpacifico al quale Pechino non è invitata si pone esattamente lo stesso obiettivo.

Non è un caso che Richard Rosecrance, il più accanito sostenitore del Ttip fra gli intellettuali, diriga ad Harvard un centro di ricerche sui rapporti fra Stati uniti e Cina. Il suo manifesto, pubblicato l’anno scorso, insiste sull’idea che il simultaneo indebolimento dei due grandi insiemi transatlantici deve indurli a serrare i ranghi di fronte alle potenze emergenti dell’Asia. Egli scrive: «L’una e l’altra metà dell’Occidente sono destinate a perdere terreno a meno che non si riuniscano, formando un insieme nei campi della ricerca, dello sviluppo, del consumo e della finanza. Le nazioni d’Oriente, guidate dalla Cina e dall’India, supereranno l’Occidente in materia di crescita, innovazione e reddito – e infine, in termini di proiezione di potenza militare (8)».

LE INTENZIONI generali di Rosecrance richiamano la celebre analisi dell’economista Walt Whitman Rostow sulle tappe della crescita: dopo la fase di decollo, il ritmo di crescita di un paese rallenta perché esso ha già realizzato i guadagni di produttività più rapidi (livello di istruzione, urbanizzazione ecc.). Nel caso specifico, i tassi di crescita delle economie occidentali, arrivate alla fase di maturità da diversi decenni, non raggiungeranno quelli di Cina o India. La carta principale che rimane da giocare è un’unione più spinta fra Stati uniti ed Europa, la quale permetterà loro di continuare a imporre il proprio gioco ai nuovi venuti, certo impetuosi ma disuniti. E così, come all’indomani della seconda guerra mondiale, l’invocazione di una minaccia esterna – ieri quella politica e ideologica dell’Unione sovietica, oggi quella, economica e commerciale, dell’Asia capitalista – permette di riunire sotto la guida del buon pastore (statunitense) le greggi che temono che presto la chiave di volta del nuovo ordine mondiale non si sarà più a Washington ma a Pechino.

Un timore del tutto legittimo, secondo Rosecrance, visto che «nella storia, le transizioni egemoniche fra potenze hanno coinciso in genere con un grande conflitto». Ma ci sarebbe un mezzo per impedire che «il trasferimento di leadership dagli Stati uniti verso una nuova potenza egemonica» sfoci in una «guerra fra la Cina e l’Occidente». Non potendo sperare di allineare le due principali nazioni asiatiche a partner atlantici penalizzati dal proprio declino, occorrerebbe approfittare delle rivalità che esistono fra quelle e contenerle nella loro regione grazie all’appoggio del Giappone, un paese che la paura della Cina salda al campo occidentale, al punto di farne il «capolinea orientale».

Benché questo grande disegno geopolitico invochi la cultura, il progresso e la democrazia, la scelta di alcune metafore tradisce un’ispirazione di carattere meno elevato: «Il produttore che non riesce a vendere una determinata merce, insiste Rosecrance, è spesso portato a fondersi con una società estera per allargare l’offerta e aumentare la quota di mercato, come ha fatto Procter& Gamble comprando Gillette. Gli Stati si trovano di fronte a scelte dello stesso tipo».

Nessun popolo considera ancora la propria nazione e il proprio territorio come un prodotto di largo consumo; ecco perché la lotta contro il Ttip è appena cominciata.

 

(1) Cfr. Le Protectionnisme et ses ennemis, Le Monde diplomatique – Les Liens qui libèrent, Parigi, 2012.
(2) SileggaHowardZinn,«Aitempidei“baroniladri”»,LeMondediplomatique/ il manifesto, settembre 2002.
(3) CitatodaJohnGerring,PartyIdeologiesinAmerica,1828-1996,Cambridge University Press, 2001, p. 59.
(4) LeNouvelObservateur,Parigi,4settembre2003.
(5) ConferenzastampaconFrançoisHollande,Casabianca,Washington,Dc,12 febbraio 2014.
(6) Rtl,14maggio2014.
(7) FranceInter,15maggio2014.
(8) RichardRosecrance,TheResurgenceoftheWest:HowaTransatlanticUnion Can Prevent War and Restore the United States and Europe, Yale University Press, New Haven, 2013. Vale anche per le citazioni successive.
(Traduzione di M.C.)

Add comment

Submit