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alfabeta

Un socialismo del XXI secolo?

Lelio Demichelis

socForse la sinistra non ha più il vento della storia che soffia nelle sue vele, come dice il titolo dell’ultimo libro di Franco Cassano. Forse davvero la lotta di classe è finita con il crollo del Muro di Berlino, perché la guerra contro il demos e i diritti dell’uomo e del cittadino, la guerra di posizione per la conquista dell’egemonia l’ha vinta il capitalismo. Forse le sinistre si sono illuse di poter creare un socialismo (magari anche un poco anarchico e libertario) via rete, dove invece trionfa l’ideologia della condivisione di tutti con tutti e con il tutto della rete: rete capitalista all’ennesima potenza.

Forse l’errore (un errore intellettuale e culturale, prima che politico) di un certo socialismo è stato quello di credere che il capitalismo potesse essere democratizzato, o che bastasse stipulare un soddisfacente matrimonio di interessi tra capitale e lavoro per controllarne gli spiriti animali. Forse l’errore (un altro) della sinistra è stato quello di pensare che si potesse vincere grazie ad una coscienza di classe forte, quando invece il capitalismo ha nella sua logica di funzionamento proprio la dissoluzione, lo scioglimento (attraverso la de-socializzazione, la falsa individualizzazione, i falsi bisogni che continuamente crea, l’industria culturale e del divertimento che incessantemente distrae e diverte) di ogni legame e di ogni coscienza (anche) di classe contraria al proprio funzionamento.

Un capitalismo che è ormai apparato autopoietico: che cioè in se stesso e per se stesso ha la fonte e l’essenza della propria legittimazione e della propria riproducibilità infinita, capace di superare anche le contraddizioni che incessantemente crea, perché il capitalismo è una potentissima macchina di organizzazione ma soprattutto di socializzazione.

Dunque, dal capitalismo non si esce. La sua pedagogia ha ormai vinto, ha creato il suo uomo nuovo e i nuovi eroi sono gli imprenditori, appunto perché oggi ciascuno non è più persona ma solo capitale umano e imprenditore di se stesso, cioè non deve in alcun modo essere soggetto capace di individuazione e di soggettivazione, ma solo oggetto economico a produttività crescente e quindi assoggettato/integrato al capitalismo.

E invece si deve uscire da questa macchina autoreferenziale e bisogna farlo in fretta pena la dissoluzione definitiva della società (e la sua trasformazione in mercato), dell’ambiente naturale, dell’uomo/cittadino capace di saper/poter essere in-comune (non in comunità) con gli altri. Se il socialismo è nato nell’Ottocento, se è arrivato al potere nel Novecento in diverse forme ovvero, e semplificando: totalitarismo comunista o socialdemocrazia e/o welfare state europeo, ma se nel Novecento è forse anche morto, si può immaginare di resuscitarlo nel XXI secolo partendo magari da quella che era una periferia del mondo come l’America Latina? E poi, perché questa morte? A parte la vecchia e politicamente imbarazzante Unione sovietica, la sinistra europea è morta per proprio suicidio politico e culturale, accettando il neoliberismo (da Blair a Matteo Renzi) convinta che flessibilità, rete e globalizzazione fossero sinonimi di modernità e che quello fosse il giusto vento della storia.

Agli occhi di molti occidentali e di parte delle sue sinistre oggi allo sbando (perché cieche davanti alla realtà), la rivoluzione cittadina di Rafael Correa in Ecuador è sembrata un modello virtuoso, l’ultima speranza a cui aggrapparsi assieme a quella di altri (e comunque non omogenei) spostamenti a sinistra avvenuti in America Latina dall’inizio del nuovo millennio. Salita al potere dopo un ampio lavoro culturale e in forma pacifica e democratica, la rivoluzione ha elaborato una Costituzione detta di Montecristi (dal nome della località dove è stata discussa e approvata) tra le più avanzate del mondo quanto a riconoscimento dei diritti individuali, sociali, ambientali e civili, ma anche dei diritti di identità e di autonomia delle minoranze etniche oltre che di definizione di forme nuove di partecipazione democratica.

Un modello nuovo, per un socialismo del XXI secolo? Forse la realtà e la verità dei fatti dicono qualcosa di diverso. Carlo Formenti, in questo suo nuovo, documentatissimo e riflessivo libro a confine tra reportage e pamphlet (Magia bianca, magia nera – Jaca Book 2014) – esito di un seminario universitario e di una prolungata permanenza in Ecuador – prova a rompere l’illusione di questa rivoluzione che da subito (ancora!) ha cominciato a divorare i suoi figli e molti suoi padri se hanno ragione le opposizioni di sinistra che contestano il regime di Correa per avere imboccato una via tecnocratica, di preferire la magia nera del petrolio alla magia bianca del buen vivir e di preferire la modernizzazione via capitalismo (sia pure temperato) alla cultura tradizionale indigena fatta di cooperazione e di solidarietà comunitaria e di armonia tra uomo e natura. Scrive Formenti: “Ho dovuto prendere atto che l’etichetta di socialismo del XXI secolo è troppo generosa (perlomeno nel caso ecuadoriano) nei confronti di governi che, nella migliore delle ipotesi, possono essere definiti populisti di sinistra o post neoliberisti”. Con movimenti indigeni e nuovi movimenti sociali che “esprimono oggi un’amara delusione per le promesse non mantenute”.

Partiamo dal concetto di buen vivir. L’occidente ha creato la società del benessere (ben-essere), in realtà confondendo (Fromm) l’avere con l’essere. E questo sembra essere l’esito inevitabile di ogni via al capitalismo. Replicato in Ecuador dove i ceti medi, un tempo alleati delle culture indigene contro il neoliberismo, sono oggi su posizioni maggioritarie (il consenso populista di Correa) mentre gli indigeni sono tornati emarginati e minoritari. Buen vivir: vivere bene. Concetto affascinante, ma anche concetto passpartout, o sincretista: una vita dignitosa, anche se un poco austera; comunitaria; con forti valenze ambientali e spirituali; avvicinabile per alcuni al concetto occidentale di benessere (pur presentandosene come una variante), o di sviluppo come pure a bene comune e decrescita. Tutto e il contrario di tutto. Ma anche, scrive Formenti “riflesso di un rapporto di forza fra classi sociali, perché la posta dell’egemonia si gioca proprio nel rapporto fra movimenti indigeni e classi medie”. Con nuove élite e nuove classi dirigenti.

E poi: populismo, cui Formenti dedica pagine importanti. Macchina politica che personalmente consideriamo pericolosissima per la democrazia e la libertà (e la cittadinanza). Populismo: fenomeno di destra, oggi soprattutto di sinistra? Involuzione delle rivoluzioni antiliberiste ma incompiute in America Latina? Ha forse ragione il filosofo franco-argentino Ernesto Laclau a sostenere che il populismo è la sola logica politica possibile nel contesto attuale perché il popolo possa costruirsi in forma egemonica, con una volontà collettiva che trascenda le identità particolari, facendosi (gramscianamente) popolo (e non la classe operaia) che diventa Stato? Quello Stato – ancora Laclau – che, dopo la fase espansiva dei movimenti deve guidare dall’alto i processi per evitare derive corporative? L’idea di Laclau, scrive Formenti con ragione, è insoddisfacente. Come quella di Negri e le sue moltitudini. E dunque?

Per Formenti non basta tornare ad una visione marxista classica, ma prima occorre procedere ad una analisi dettagliata della composizione di classe che ha consentito lo sviluppo di questi movimenti rivoluzionari. E capire verso dove si sposta l’egemonia: “Se pende dalla parte dell’antagonismo indigeno nei confronti della civiltà capitalista, vince la magia bianca; se viceversa pende dalla parte dell’incivilimento del capitalismo attraverso il rafforzamento dei diritti individuali, vince la magia nera”. Resta il problema se il comunitarismo indigeno (o il suo marxiano comunismo primitivo) possa essere davvero anticapitalista e rappresentare una autentica magia bianca; mentre siamo convinti che i diritti individuali, se veri e capaci – come dovrebbero – di produrre soggettivazione e cura di sé e quindi anche degli altri non possano e non debbano essere associati inesorabilmente al capitalismo.

E dunque? Meglio lasciare l’Ecuador di Correa e andare nella Bolivia di Morales, simile ma molto diversa (ad esempio, per la sua composizione sociale)? Conclude Formenti: “Non intendo eleggere Evo Morales a eroe della rivoluzione mondiale né, tanto meno, voglio presentare il suo regime come un modello universale per la sinistra. Sono consapevole delle contraddizioni che lo caratterizzano (…). Ciò detto, mi pare giusto riconoscere che si tratta di un processo politico che, in ragione della forma che si è dato, appare tuttora aperto a un’evoluzione in senso socialista”.

Carlo Formenti
Magia bianca, magia nera
Jaca Book (2014), pp. 116

12.00

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