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cambiailmondo

Parigi 2015, tappa strategica verso il disordine globale

Che si può ancora fermare

di Rodolfo Ricci

notte-san-bartolomeoPrima o poi, bisognerà prendere coscienza che siamo tutti sulla stessa barca, anzi sullo stesso mare. Il Mediterraneo. Se ciò non accadrà, sarà la catastrofe. Dopo secoli di commerci, di domini incrociati tra est e ovest, di scambi economici e culturali a cui tutti hanno attinto ed attingono, forse ora, a distanza di 60 anni dalla fine – formale ma non sostanziale – della colonizzazione europea dell’Africa e del Medio Oriente, dovremmo prendere atto che siamo interconnessi, definitivamente.

Lo siamo in particolare, grazie all’immigrazione cosiddetta terzomondiale giunta in Europa dopo le ondate dei sud europei nel dopoguerra verso Francia, Gran Bretagna, Germania e altri paesi del nord Europa. Un’immigrazione che è il frutto della nostra geopolitica.

L’Europa è multiculturale di fatto, con tutti i vantaggi e gli svantaggi del caso. Lo è da tempo, anche se le è sempre mancata adeguata coscienza. L’Europa, come dimostrano gli eventi della crisi, è interculturale (e ben problematica) anche al suo interno, come mostra solo per citare un esempio, il crescere delle espulsioni di cittadini intra-europei dai territori di altri stati membri causate da una costitutiva assenza di solidarietà tra i suoi paesi. (vedi: http://www.funkhauseuropa.de/av/audiobelgien100-audioplayer.html)

Adesso questa coscienza deve emergere.

I figli e i figli dei figli dei primi migranti extraeuropei del dopoguerra sono con noi, sul territorio europeo. Con le loro potenzialità, con le loro nevrosi identitarie, con la loro marginalità ed esclusione già emersa nelle successive rivolte delle banlieu parigine e delle periferie londinesi (o delle zone rurali del meridione italiano), come in passato era emersa con gli eventi che hanno costellato la storia delle migrazioni di italiani, spagnoli, greci, portoghesi, nei paesi di arrivo, fino a pochi decenni fa.

Le nuove generazioni di migranti, dopo i tempi di primo insediamento e del tentativo di integrazione dei padri (che generalmente non è ottimale), sviluppano sempre un processo di recupero delle identità originarie.

Gli italiani in Germania o ancor prima negli Usa e in altri paesi, assunsero un sentimento di differenza identitaria che serviva a vivere da pari a pari il confronto con le culture ospitanti. Da spaghettifresser e traditori (“Badoglio”), a un rinnovato orgoglio della propria provenienza patria a prescindere dai tanti lati negativi della loro cultura nazionale.

Più era dura la condizione di insediamento, più questo sentimento cresceva e a volte, non trovando spazi alternativi di rappresentanza, deviava verso mafia vera o criminalità fino a determinare in alcuni contesti, poteri in grado di influenzare o competere con quelli istituzionali. Il cinema americano è pieno di questi esempi. In modi più soft, si sublimava con la vittoria in manifestazioni internazionali, come lo sport, in particolare quello del calcio: una vittoria della nazionale ai mondiali valeva quattro anni di liberazione dalla subalternità sociale di milioni di lavoratori immigrati nel nord Europa.

Questo accadeva tra cittadini di paesi in competizione tra presunta o effettiva superiorità e subalternità. Ma comunque si trattava di persone provenienti da stati nazionali con una loro forte dignità storica.

A quali dinamiche psico-sociali sono sottoposti cittadini originari di paesi che non esistono più (poiché distrutti dalle guerre dell’occidente) o considerati territori coloniali, spesso in preda a elites corrotte al servizio dei paesi più forti dove la povertà è endemica, che producono profughi e ai quali, per tutte queste ragioni, non è riconosciuta una dignità di appartenenza a un popolo o a una tradizione nazionale e che, nel migliore dei casi, sono individuati come rifugiati, asilanti, cioè dei senza patria, figure anomiche senza passato, da riconvertire in nuove identità, negli spazi culturali “superiori” dei paesi di accoglienza ?

La quotidianità delle marginalità migranti è cosa difficile da descriversi. Lo è ancora di più nell’epoca della globalizzazione omogeneizzante dove le identità sociali e individuali vengono distrutte per  prassi condivisa e non resta che la centralità delle elites urbane e la marginalità delle moltitudini periferiche e indefinite, in cui gli elementi di comunanza solidale possono costruirsi talvolta su base etnica e talvolta – e questa è una novità di non poco conto – superando i confini etnici e aggregandosi intorno a macrovalori religiosi, come appunto l’Islam, in versione spuria di riscatto e di violenta vendetta.

L’altra novità è che l’emergere di una coscienza della subalternità, nel tempo della rete, rende insignificante e aggredibile la centralità del centro presunto. Nell’immaginario del navigatore web di qualsivoglia etnia il centro esiste solo come convenzione. Questa è la sfida lanciata dalle periferie meticcie. Il centro urbano-mediatico-produttivo è pura convenzione e un piccolo manipolo può farlo saltare, come un forte isolato in mezzo ad una moltitudine rancorosa. Facendo saltare i confini e gli steccati urbani si chiarisce che gli assediati potete essere voi. Basta solo assumere la coscienza di una potenzialità di intervento sul centro, varare più o meno improvvisate start up di terrore mutuate dalla cultura dei film di azione americani, utilizzando le opportunità di geometrica potenza (mediatica) che si è conosciuta fin dall’adolescenza, nelle tv, nei cinema, nella rete, e che ora, sono alla portata di chiunque. Il terrore del 7-9 gennaio a Parigi è un riciclaggio in salsa islamica, di cose viste e riviste. Cose strutturalmente occidentali, rivestite di un abito che serve a indicare la nuova identità degli attori; procedura già sperimentata, negli USA, a parte la violenza, all’epoca dei musulmani neri, di cui Mohammed Alì fu una bandiera.

Qui, l’attivazione della decisione dell’azione disperata è per certi versi analoga a quella anarchica di fine ‘800, quando non di rado, le principali azioni eclatanti furono messe in opera proprio da anarchici emigrati, alla lettura di eventi terrificanti, come la strage di Bava Beccaris a Milano, letta da Bresci su un giornale di New York, oppure con le bombe a Wall Street ritenuta (a torto ?) il centro dell’oppressione del proletariato internazionale.

Ma quelli erano i tempi in cui, come cantava Guccini, scoppiava nella via la bomba proletaria e illuminava l’aria la fiaccola dell’anarchia.

Oggi, per i nuovi giovani proletari immigrati e meticci (come per tutti gli altri) non vi è internazionalismo proletario, né vi sono paesi guida di riferimento. Cancellato lo spettro che si aggirava per l’Europa e per il mondo con la sua pedagogia rivoluzionaria verso il sol dell’avvenire, restano solo continue umiliazioni e stragi in guerre decennali che si susseguono negli stessi luoghi, quelli dal cui controllo, secondo molti geopolitici, si governa il mondo: il medio oriente, il mondo arabo e il cuore adiacente dell’Eurasia.

Sconfitto il mito di un socialismo nazionalista e interconfessionale, abbattuti tutti gli stati multinazionali laici che si estendevano dai Balcani al vicino oriente, come la Yugoslavia, l’Iraq, la Libia, la Siria, resta solo l’orientamento fornito dalle scritture dell’ultimo dei profeti e dei suoi nuovi interpreti balzati alla cronaca nell’ultimo ventennio – e onnipresenti nei media occidentali -, a concedere un ultimo riferimento di mitico riscatto.

I giovani fratelli orfani franco-algerini e il maliano Coulibaly, come le altre migliaia che costituiscono le brigate linguistiche provenienti dall’Europa e combattenti a edificazione dello stato islamico nella versione del nuovo califfo dell’Isis, Al Baghdadi (pare di madre ebrea, contiguo a eminenti personalità USA come l’ex sfidante di Obama, John McCain), o in quella del franchising di Al Qaeda (finanziata dai Saudi e dagli emiri), o di Al-Nosra (alleata di Nethaniau e Israele sulle alture del Golan), condividono un trascorso fatto, a quanto sembra di droga, di rap, di cultura metropolitana, di emarginazione, ingredienti e destino comune di vaste masse giovanili dell’intero occidente.

Trovano forse una via salvifica di emancipazione da questa condizione nelle dispute teologiche tra i vari gruppi della Jihad a contatto con imam esenti da vincoli gerarchici; hanno dalla loro la convinzione che, mettendo in conto il martirio, possono fare qualsiasi cosa, innanzitutto manifestare le loro potenzialità misconosciute (in quanto canaglie e feccia sociale secondo l’epiteto del Sarkozy) che possono emergere solo sotto il paradigma della violenza, come hanno imparato in tv fin dalla loro infanzia. Hanno raccolto il rancore durante i pranzi condivisi con i loro genitori, davanti alle bombe cadute su Baghdad, Kabul, Gaza, assistendo in diretta a innumerevoli stragi di innocenti in Afghanistan, Irak, Palestina ad opera di elicotteri e droni americani e supportati da inglesi, francesi e dalla coalizione dei “volenterosi” della Nato.

Che quelle bombe cadessero per abbattere dittatori  prima alleati del grande satana USA e degli ex colonizzatori europei in vista di un nuovo caos rigeneratore che consentisse l’instaurazione del nuovo ordine mondiale in cui tutto cambia per non cambiare nulla, è per loro indifferente. Non sanno che il potere vecchio e quello futuro si cibano delle stesse energie giovanili e fraterne, a partire dalle loro. Pensano di giocarsi la partita. L’emergenza a cui accondiscendono è quella dell’azione ideale che deve aggredire il potere imperiale vigente, richiamandosi ad altri improbabili progetti imperiali alternativi.

L’essenziale è l’azione. Suggerita e progettata, secondo l’intervista ad uno dei fratelli Kouachy,  da un predicatore di cittadinanza statunitense incontrato in Yemen, quindi di lingua inglese, abbattuto alcuni anni or sono da un drone.

***

La compenetrazione ebraico-cristiano-islamica degli eventi, è così profonda che solo gli ideologi della guerra di civiltà non possono vederla. (In realtà la vedono molto bene poiché la hanno creata). Tutto accade intorno al Libro e alle sue traduzioni.

L’Europa si accorge ora, di essere  il centro sensibile di questa compenetrazione.  Qualcuno, oltre atlantico, lo ha messo in conto da tempo. E’ di nuovo sulle sponde di questo mare nostrum che si giocano le carte del futuro. Se gli Usa riusciranno a stabilizzare una nuova cortina che va dal baltico, alla Siria-Irak, passando per l’Ucraina e più sotto, per la Libia e tenendoci dentro l’Europa, il gioco è fatto. Il trattato Ttip (la Nato economica) e quello transpacifico servono anche a questo.

Le parallele mosse implicano l’accerchiamento di Russia e Cina e il recupero – complicato – del subcontinente americano. Poi potremo assistente alla fase finale della guerra infinita che quindi ci vedrà perfettamente in prima linea.

A meno che l’Europa non comprenda di essere da sempre continente di interconnessione, per capirci, uno spazio strutturalmente inter-etnico e meticcio in cui le differenze tra un sud europeo e un nordeuropeo non sono poi così lontane da quelle tra un europeo e un nord africano o un mediorientale. O forse, meglio, si dovrebbe capire che non esiste l’Europa in sè, né il Medio oriente islamico, ma solo il loro medium, il grande piccolo mare Mediterraneo, lo spazio in cui tra gli infiniti nomi di Dio, se ne è scelto uno, in triplice versione.

Chi intende spezzare questa pluralità, sia da oriente che da occidente, lavora costantemente per la guerra.  Chi riconosce questo spazio come spazio di cooperazione, la allontana. Ma questo implica anche che la cooperazione inizi negli spazi metropolitani dell’Europa, dove il fondamentale potenziale è rappresentato dai 50 milioni di immigrati presenti nel continente.  Sono loro, insieme alle decine di milioni di disoccupati e sottoccupati autoctoni, gli attori della traduzione delle tradizioni. E magari (mai perdere la speranza), del recupero di una coscienza di classe delle moltitudini messe ai margini, che tenga insieme etnie, religioni, interpretazioni dell’esistenza.

Il marketing, come il diavolo, divide e segmenta. All’orientamento al mercato che agisce sul consumo si va sostituendo nel tempo globale, l’orientamento  (e la costruzione) di identità posticce recuperate da lontani trascorsi: lo stato ebraico in versione sionista, del muro e dell’apartheid e il nuovo califfato, da questo punto di vista, non sono molto distanti, salvo la differenza tecnologica con cui agiscono; per certi versi, anzi, si legittimano reciprocamente. La sopravvivenza dell’impero, implica che la segmentazione identitaria si approfondisca poiché giustifica il suo ruolo di paciere nel deserto globale. Superati gli stati sovrani, ha bisogno di nuove linee di confine sovrastrutturali che attraversino ogni territorio, ogni ex stato. Una logica del terrore, della precarietà, dell’insicurezza che si dispieghi in ogni spazio.

Ma se io sono –come sono, pur con molti distinguo – Charlie, cioè la libertà, sono anche egalitè e fraternitè.

A Parigi hanno attaccato la prima, in un mondo e in un tempo in cui la seconda e la terza sono già in fase di avanzata destrutturazione da oltre un trentennio. Qualcuno (o più di uno), sta tentando di completare l’opera. Sono quelli che pensano praticabile il ritorno all’età feudale, ad un nuovo medio evo che consenta alle elites di osservare dalle proprie torri le miserie e le lotte fratricide delle moltitudini umane senza più patrie, orizzonti, ideali comuni.

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