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Medio oriente in fiamme

L'ordine nel caos

di Leonardo Mazzei

Breve premessa. Mentre scrivevamo questo articolo - dedicato ai tanti sviluppi di quella che chiamiamo Grande Guerra Mediorientale - è arrivata la notizia dell'accordo di Losanna sul nucleare iraniano. Un fatto che potrebbe avere conseguenze geopolitiche di primaria importanza ed un impatto non secondario sui diversi fronti di questa stessa guerra. Su questo torneremo a breve con un articolo specifico

middle east 01. Il Medio Oriente in fiamme

Yarmouk (Damasco), Idlib, Tikrit, Aden: cosa unisce queste città? Certo, in tutte si parla l'arabo e si venera Allah. Ma ora, basta leggere i giornali di ieri, hanno un'altra cosa in comune: in tutte queste città si combatte aspramente, con il cambio della bandiera - magari solo provvisorio - di che le controlla. Quattro battaglie solo nelle ultime 48 ore: un'istantanea da cogliere al volo per cercare di capire qualcosa di più della Grande Guerra Mediorientale che ormai si dispiega apertamente in 4 paesi (Siria, Iraq, Yemen, Libia) ma che ne coinvolge almeno un'altra dozzina.

Per avere un'idea della portata del conflitto in corso, basta pensare alle distanze. Tra Idlib, nel nord ovest della Siria, ed Aden, all'estremità meridionale dello Yemen, ci sono 2.750 chilometri. Grosso modo la distanza che separa Roma da Mosca.

Che questa sia una guerra senza precedenti in Medio Oriente è fuori dubbio. Lo è per il numero dei paesi coinvolti, per gli eserciti (regolari e irregolari) sul terreno, per la vastità dei territori contesi, per la durata del conflitto in alcuni contesti (Siria e Libia in particolare), per gli interessi strategici in gioco (petrolio, ma non solo), per le potenze regionali in campo (Arabia Saudita, Turchia, Iran, Egitto), per il ruolo dell'imperialismo americano e di Israele, per il numero delle vittime e per i milioni di profughi.

Ma lo è ancor di più per l'assoluta centralità della fitna, la guerra religiosa che oppone gli sciiti ai sunniti.

Tutto ciò è, od almeno dovrebbe essere, chiaro. Assai meno semplice è la lettura del conflitto, dato che non vi sono solo due schieramenti e che ogni fronte ha le sue peculiari dinamiche, ogni paese i suoi particolari interessi. Lo stesso gioco delle alleanze è a geometria variabile, tanto che se volessimo rappresentarle su una carta, alla Limes per intenderci, ne verrebbe fuori una sorta di disordinata ragnatela difficile da interpretare.


2. I fatti degli ultimi giorni

Abbiamo parlato di 4 città simbolo. Città che rappresentano vicende nelle quali il "particolare" ci parla del "generale". Entriamo allora nel dettaglio, procedendo da nord verso sud.

La conquista di Idlib (Siria) da parte del fronte qaedista
Idlib è una città di 157mila abitanti, nel nord-ovest della Siria, non lontana da Aleppo ed a soli 30 chilometri dal confine turco. Il governatorato di Idlib è particolarmente popoloso, contando più di due milioni di abitanti. Da ieri l'altro la città è sotto il controllo di Al Nusra, che insieme ad altre forze islamiste (tra cui Ahrar al-Sham), ha preso la città alle truppe governative. Idlib è il secondo capoluogo di provincia perso dall'esercito di Assad, dopo Raqqa. Anche quest'ultima città era stata conquistata dalle milizie qaediste di Al Nusra, ma queste l'hanno poi dovuta cedere ai "concorrenti" dell'Isis. Ora i due principali network jihadisti hanno una loro "capitale", simboli importanti della loro lotta al governo di Damasco in una guerra che dura ormai da oltre 4 anni.

Il fronte anti-Isis riprende, almeno parzialmente, il controllo di Tikrit (Iraq) 

Tikrit è una città di 146mila abitanti, posizionata lungo il corso del Tigri a soli 140 chilometri a nord di Baghdad. E' il capoluogo del governatorato di Salah al-Din, ed è nota per aver dato i natali a Saddam Hussein. «Abbiamo liberato Tikrit dall'Isis», ha dichiarato ieri il capo del governo iracheno Haider al-Abadi. Il quale ha però dovuto ammettere che le sue forze al momento controllano solo la parte meridionale e quella occidentale della città. Un risultato non proprio esaltante dopo un attacco in corso da un mese. Ancora più significativa la dichiarazione politica del premier di Baghdad: «L'operazione per la liberazione di Tikrit sta procedendo con lo sforzo comune di esercito, polizia, milizie popolari, forze tribali e abitanti della città con la copertura aerea dell'aviazione militare irachena assieme a quella della coalizione internazionale». Il problema è che quella coalizione è guidata dagli Stati Uniti, i cui bombardieri continuano a colpire le postazioni dell'Isis che ancora controllano il 60% della città. Una specie di alleanza contro natura tra gli sciiti appoggiati dall'Iran e gli imperialisti americani, quelli che nello stesso momento stanno appoggiando logisticamente i tremendi bombardamenti della coalizione sunnita, a guida saudita, contro le forze degli Houthi nello Yemen. Una situazione che turba non poco i miliziani sciiti che hanno contribuito in maniera decisiva alla (parziale) riconquista di Tikrit. «Possiamo ripulire Tikrit da soli» dicono, ma intanto i jet a stelle e strisce sono lì sopra di loro a colpire il comune nemico.

Yarmouk (Damasco) nelle mani dell'Isis
Yarmouk è un grande campo profughi palestinese alla periferia sud di Damasco, ma da tempo si è trasformato di fatto in un normale sobborgo a pochissimi chilometri dal centro della capitale siriana. Prima dell'inizio della guerra vivevano a Yarmouk 160mila persone. Da tempo, dopo che è stato ridotto ad un cumulo di macerie, gli abitanti sono soltanto 18mila. A Yarmouk vigeva una fragile tregua, sotto l'assedio delle truppe di Assad, mentre il "campo" era già controllato sostanzialmente da milizie antigovernative. Ora è tra queste - l'Isis da un lato ed il gruppo palestinese Aknaf Beit al Maqdis (vicino ad Hamas ed alla Fratellanza Musulmana) dall'altro - che è scoppiato il conflitto. Le forze dell'Isis, alle quali si sarebbero aggiunti nell'occasione anche miliziani di al Nusra, avrebbero preso adesso il controllo pressoché totale dell'area. Certo, Yarmouk è soltanto un pezzo della periferia della metropoli siriana, un pezzo che Assad aveva di fatto già perso. Ma resta il fatto che la bandiera dell'Isis sventola ora a pochissimi chilometri dai palazzi del governo siriano.

Gli sciiti zayditi Houthi avanzano nel centro di Aden
Aden, 590mila abitanti, è la seconda città dello Yemen. Fino all'unificazione del Paese è stata la capitale della Repubblica Democratica Popolare dello Yemen. La città è in una posizione strategica, con il suo porto a poca distanza dallo stretto di Bab el-Mandeb, che mette in comunicazione l'Oceano Indiano con il Mar Rosso sulla rotta del Canale di Suez. Ad Aden si è rifugiato l'ex presidente Hadi, costretto ad abbandonare Sana'a dall'avanzata degli Houthi. I quali, incredibilmente, nonostante i massicci bombardamenti aerei della coalizione a guida saudita, sono entrati con i loro carri armati nel centralissimo quartiere di Khor Maksar. Ormai le vittime dei bombardamenti - tantissimi i civili - si contano a centinaia. I caccia di Ryad colpiscono infatti ogni notte, accompagnati dall'appoggio dell'intelligence americana e dal complice silenzio dei media occidentali. A dispetto di tutto ciò gli Houthi, alleatisi nell'occasione con i militari rimasti fedeli al vecchio dittatore Saleh, sembrano resistere all'attacco dal cielo. Mentre sul terreno la loro avanzata deve fronteggiare anche le non disprezzabili forze dell'Aqap (al Qaeda nella Penisola Araba) che paiono essersi schierate con l'Arabia Saudita. Una conferma assai significativa della polarizzazione religiosa tra sciiti e sunniti, che sembra prevalere sulle differenze politiche tra i vari soggetti in campo. Tutto questo nonostante che lo zaydismo (la tendenza sciita in cui si riconoscono gli Houthi) rappresenti la corrente sciita più vicina ai sunniti.


3. La centralità della fitna

In quello che sembra un inestricabile labirinto in cui si svolge la guerra di tutti contro tutti, alcuni punti fermi sono infatti facilmente rintracciabili. Il primo sta appunto nella fitna, la guerra di religione tra sciiti e sunniti.

Certo, le differenze non mancano in nessuno dei due campi. Sicuramente solo una piccola parte dei sunniti condivide la visione integralista dei takfiri dell'Isis; mentre sull'altro lato una cosa sono gli zayditi dello Yemen, un'altra gli sciiti duodecimani nettamente prevalenti in Iran, Iraq e Libano, altra cosa ancora gli alawiti siriani. E tuttavia, nonostante queste differenze, la polarizzazione tra le due tendenze principali in cui si divide l'islam è l'elemento centrale - che non vuol dire l'unico - che accomuna le guerre in corso in Siria, Iraq e Yemen.

In Siria, il regime di Assad, che si appoggia fondamentalmente sulla minoritaria comunità alawita, gode dell'appoggio dell'Iran e di quello dell'Hezbollah libanese. Viceversa, tra le forze antigovernative, troviamo - come si è già detto - sia componenti jiahdiste pur se in concorrenza tra loro (Isis e al-Nusra), sia settori più tradizionali sul piano religioso (grosso modo riconducibili alla Fratellanza Musulmana) e politicamente assai vicini alla Turchia.

In Iraq - come si è visto parlando della battaglia di Tikrit - a fianco delle truppe governative combattono diverse milizie sciite, tra le quali l'Hezbollah iracheno. Il tutto con il pieno sostegno di Teheran. Dall'altra parte non è un mistero per nessuno che i miliziani dell'Isis godano spesso dell'appoggio di comunità sunnite che niente hanno a che vedere con le loro concezioni religiose. Senza questo sostegno - spiegabile con la totale avversione al governo di Baghdad - non si comprenderebbe, ad esempio, la facile conquista di una città come Mosul.

Sullo Yemen abbiamo già detto della scelta di campo filo-saudita delle forze qaediste presenti. Ma ancor più significativa è la composizione della coalizione internazionale sunnita, dentro la quale convivono paesi apertamente filo-occidentali come l'Arabia Saudita, membri della Nato come la Turchia ed un paese come il Sudan considerato uno "Stato canaglia" dagli USA. Contraddizioni non piccole, ricompostesi nell'occasione contro il comune nemico sciita (ed ovviamente iraniano).

In questo quadro schematico fa ovviamente eccezione la Libia, data l'assenza degli sciiti nel paese. In Libia (leggi QUI) lo scontro è tra il governo di Tobruk, che raccoglie le forze anti-islamiste e filo-occidentali, con il pieno sostegno (anche militare) di Egitto, Arabia Saudita ed Emirati, ed il governo di Tripoli, costituito dalla coalizione denominatasi "Alba Libica", appoggiata dalla Fratellanza Musulmana, dalla Turchia e dal Qatar. Terzo incomodo, come noto, l'Isis, che controlla le città di Derna e Sirte.


4. Il ruolo delle potenze regionali

Il secondo punto fermo riguarda gli interessi delle 4 potenze regionali in campo, tutte protese alla conquista di un ruolo egemone nell'area, e tutte coinvolte nei vari fronti della guerra in corso. Tre di esse (Arabia Saudita, Turchia ed Egitto) appartengono al campo sunnita, una (l'Iran) a quello sciita.

L'Arabia Saudita e il suo asse strategico con Israele

Come noto, l'Arabia Saudita dispone di enormi mezzi economici derivanti dalla rendita petrolifera. Grazie a questi mezzi la monarchia di Ryad ha dato il via, ormai da anni, ad un gigantesco programma di riarmo. Adesso, anche grazie alle nuove armi acquistate prevalentemente dagli USA, i sauditi vogliono pesare di più in tutto lo scenario mediorientale. Il loro nemico principale è l'Iran, del quale temono la crescita di influenza nel confinante Iraq. Il loro grande alleato è attualmente l'Egitto di al-Sisi, il cui golpe del 2013 hanno foraggiato in abbondanza. Alleati minori dei sauditi sono gli Emirati ed il Bahrain, ormai diventato di fatto un protettorato controllato da Ryad. Ma quel che caratterizza ancor di più la politica dei sauditi è la saldatura strategica che hanno stabilito con Israele. Anche in questo caso il collante è rappresentato dall'identica ossessione anti-iraniana, che porta questi due paesi a forzare costantemente, in senso guerrafondaio, la stessa politica mediorientale degli Stati Uniti. Nella guerra in corso l'Arabia Saudita combatte direttamente nello Yemen ed appoggia i suoi alleati in Siria ed in Libia, mentre è assai meno influente sulla situazione irachena.

Il ruolo attuale di una Turchia indebolita

Il peso della Turchia non è più quello di qualche anno fa. E tuttavia Ankara continua a contare non poco nel quadro regionale. La politica "neo-ottomana" teorizzata dall'attuale premier Davutoglu, quella dei "problemi zero con i vicini", che riteneva di potersi basare sul soft power di una potenza economica emergente è fallita. Ed il luogo di questo fallimento si chiama Siria, il cui conflitto ha fatto di un leader amico (Assad) un nemico da eliminare a tutti i costi. La Turchia è stata anche la prima vittima, sul piano internazionale, del golpe egiziano. Le posizioni di Ankara si sono dunque indebolite negli ultimi anni. Questo non significa che le ambizioni neo-ottomane siano ormai una cosa del passato, ma esse devono oggi fare i conti con l'imprevisto della Grande Guerra Mediorientale, che costringe la Turchia ad una tattica più prudente ed attendista. Come abbiamo già detto, il governo Davutoglu (in alleanza con il Qatar) appoggia in Libia il governo di Tripoli e partecipa alla coalizione anti-Houthi nello Yemen, mentre i suoi alleati in Siria hanno oggi una forza piuttosto limitata.

L'Egitto di al-Sisi, un golpista che vorrebbe diventare il "nuovo Faraone"

Notoriamente l'Egitto, anche in virtù del suo peso demografico, aspira da sempre ad un ruolo guida dell'intero mondo arabo. Un ruolo che ai tempi di Nasser gli fu in larga parte riconosciuto. Oggi, dopo la rivoluzione democratica che cacciò nel 2011 Mubarak, dopo il fallimento del governo della Fratellanza Musulmana, sfociato nella restaurazione del 2013, il generale al-Sisi rispolvera le ambizioni di sempre. Lo fa verso ovest, in Libia, anche con l'intervento militare diretto contro il governo di Tripoli e contro le milizie dell'Isis. Lo fa verso est, partecipando all'aggressione militare contro lo Yemen.

I tanti fronti dell'Iran e l'accordo sul nucleare di Losanna
Le ambizioni regionali dell'Iran riposano da sempre su tre fattori: le dimensioni del paese, le sue ricchezze energetiche, l'essere il punto di riferimento obbligato di tutte le comunità sciite. La sostituzione del combattivo Ahmadinejad con il nuovo presidente Rohani, decisamente più gradito dall'occidente, non ha cambiato più di tanto la politica di Teheran nell'area. L'Iran sostiene attivamente, anche sul piano militare, i governi di Damasco e Baghdad, come pure (almeno politicamente) i ribelli Houthi nello Yemen. Ma l'Iran appoggia anche Hezbollah in Libano e pure (benché sunnita) Hamas in Palestina. Da qui l'ossessione israeliana contro Teheran. Mentre manteneva le sue posizioni nella regione, il governo iraniano ha cercato in tutti i modi di arrivare ad un accordo sul proprio piano nucleare, in modo di giungere ad una revoca delle sanzioni imposte dall'occidente. E proprio mentre scrivevamo questo articolo è arrivata la notizia che a Losanna, dove da tempo si svolgevano le lunghissime trattative, è stato raggiunto un "accordo quadro" sulla questione. Non ci soffermiamo qui, per ragioni di spazio, sul contenuto dell'accordo, che si configura sostanzialmente come uno scambio tra la rinuncia dell'Iran al nucleare in cambio della fine delle sanzioni e - cosa forse più importante - di un riconoscimento politico dell'Iran a 37 anni dalla rivoluzione khomeinista. Senza dubbio questo accordo avrà le sue ricadute sulla guerra in corso, in quale misura ce lo dirà solo il tempo.


5. Il caso dello Yemen: appoggio alla resistenza degli Houthi contro l'aggressione saudita

Soffermiamoci ora brevemente sul caso dello Yemen, la cui vicenda merita in questo momento un'attenzione speciale, non solo per la recentissima escalation del conflitto, ma anche per la particolare conformazione delle forze in campo.

Abbiamo già visto come le varie potenze regionali siano presenti nei diversi conflitti nazionali. Ma mentre in Siria, Libia ed Iraq lo fanno sostanzialmente tramite i propri alleati locali, in Yemen siamo di fronte ad una vera e propria aggressione esterna, ad opera di una coalizione numerosa, agguerritissima e ben armata. Una coalizione che per ora si "limita" ai bombardamenti aerei, ma che certo non esclude affatto la possibilità di un'azione terrestre.

Mentre negli altri paesi la natura del conflitto è prevalentemente interna - anche se non dobbiamo certo dimenticare la criminale aggressione della Nato alla Libia del 2011, così come non dobbiamo mai stancarci di denunciare come la crisi irachena sia di fatto un lascito velenoso della guerra e dell'occupazione dell'Iraq ad opera degli americani e dei loro alleati - quella in corso nello Yemen è a tutti gli effetti un'aggressione militare esterna, che ha l'unico scopo di fare di quel paese una sorta di protettorato saudita.

Per questi motivi, come antimperialisti, nel mentre denunciamo la gravità dei bombardamenti in corso, esprimiamo il nostro pieno appoggio alla resistenza dei guerriglieri Houthi ed alla loro lotta per uno Yemen libero ed indipendente.

 

6. L'imperialismo americano ed Israele: due strategie e due interessi non sempre coincidenti

Finora abbiamo parlato soltanto dei protagonisti "locali" della guerra in corso, ma è evidente che bisogna allargare lo sguardo. Tralasciamo qui ruolo ed interessi, che pure ci sono, di altre potenze come la Cina e la Russia. E tralasciamo anche l'Unione Europea, o meglio gli Stati dell'UE, più che altro interessati al destino della Libia, visto che quel paese è considerato dagli Stati Uniti come di secondaria importanza. Occupiamoci invece della strategia di due protagonisti ben più interni alle complesse dinamiche del conflitto in corso: la superpotenza americana e l'unica potenza nucleare del Medio Oriente, cioè Israele.

USA ed Israele sono notoriamente alleati molto stretti, ma come si conviene nelle migliori alleanze non sempre interessi e strategie combaciano alla perfezione. Gli Stati Uniti di Obama, usciti dalla scottatura delle guerre di Bush, in primis quella irachena, hanno cercato in questi anni altre strade per esercitare il loro dominio, senza per questo rinunciare all'intervento militare diretto, come si è visto nel 2011 in Libia, nei raid aerei (spesso condotti con i droni) contro al Qaeda nello Yemen, ed in quelli contro l'Isis in Siria ed Iraq. Contro il Califfato la Casa Bianca ha stretto un'alleanza con Teheran in Iraq, mentre manda segnali aperturisti allo stesso Assad. Israele vede questa politica come fumo negli occhi. Dal punto di vista dello Stato ebraico l'Iran resta il nemico principale, come le prime violentissime reazioni di Netanyahu all'accordo di Losanna confermano. E non è certo un mistero che Obama avrebbe preferito la sconfitta di quest'ultimo nelle recenti elezioni israeliane (leggi QUI).

Da cosa dipendono queste divergenze tra Israele e Stati Uniti? Certamente esse hanno origine nella diversa visuale di Washington e Tel Aviv. Se la Casa Bianca agisce, sia pure in un mondo che tende al multipolarismo, come centro di comando dell'unica superpotenza davvero globale, i governanti israeliani badano anzitutto al loro vicinato. Se gli Usa hanno necessariamente una visione di medio-lungo periodo, Israele si concentra intanto sui nemici che oggi considera come i più pericolosi.

Da queste diverse visuali scaturisce il diverso atteggiamento verso Teheran. Mentre Israele vorrebbe il ridimensionamento immediato dell'Iran, gli Stati Uniti puntano alla stabilità dell'area, diciamo più realisticamente alla "massima stabilità ragionevolmente possibile" in una regione per tanti motivi strutturalmente instabile. Gli USA non vogliono che l'Iran diventi una potenza in grado di esercitare una forte egemonia regionale, ma neppure vogliono che lo diventi l'Arabia Saudita. Quest'ultima rimane un'alleata di Washington, ma i motivi di frizione non mancano: non ultimo la scelta saudita di far crollare il prezzo del petrolio per mettere in difficoltà i produttori americani di "shale oil".

Questa politica americana non è certo una novità, si pensi all'atteggiamento tenuto durante la guerra Iran-Iraq (1980-1988). Negli 8 lunghi anni di quel sanguinosissimo conflitto gli Stati Uniti appoggiarono prima l'Iraq di Saddam Hussein (sostenuto allora dall'Arabia Saudita), poi l'Iran khomeinista ed infine, quando le truppe di Teheran stavano sfondando a sud, di nuovo l'Iraq. Schizofrenia? No, strategia abilmente calibrata onde impedire il costituirsi di una vera potenza regionale. Strategia riuscita, dato che i due paesi uscirono entrambi malconci da un conflitto senza vincitori. Nulla di strano, dunque, che oggi a Washington ci riprovino, badando intanto al contenimento dei due contendenti più coinvolti nei tanti fronti del conflitto attuale: l'Iraq e l'Arabia Saudita.


7. La mediorientale "Guerra dei trent'anni"

Ci siamo fin qui sforzati di tracciare un quadro, il più comprensibile possibile. Ma è del tutto evidente come, dentro ad alcune coordinate di fondo, sia entrata in gioco una molteplicità di soggetti non facilmente riconducibili ad un unico schema. Si pensi, ad esempio, alla partita dei curdi iracheni e di quelli siriani, per non parlare del significato profondo dell'emersione del fenomeno jihadista, che trova oggi nell'Isis la sua massima espressione.

Scriveva Moreno Pasquinelli (leggi QUI) nell'agosto scorso:

«Quello in atto in Medio oriente è solo l’inizio di un sconquasso geopolitico di portata storica e globale, l’equivalente della “nostra”  Guerra dei trent’anni. Stanno definitivamente saltando in aria gli assetti dell’intera regione, figli della spartizione delle spoglie dell’Impero ottomano compiuta dalle potenze coloniali inglese e francese (Accordi Sykes-Picot del maggio 1916). Usando questa chiave di lettura possono essere decodificate e comprese le mosse dei diversi attori che calcano la scena mediorientale: le potenze internazionali, gli USA in primis (di cui Israele è in ultima istanza una protesi), Russia e Cina; e quelle regionali: Iran, Arabia Saudita, Egitto,Turchia».

Ecco, quel che bisogna capire è la portata e l'ampiezza del conflitto. Dalla sua Grande Guerra il Medio Oriente non uscirà uguale a prima. Insieme a tanti governi, cambieranno i confini disegnati dai colonialisti, e cambieranno di certo i rapporti di forza interni alla regione. E se un giorno vi sarà una mediorientale Pace di Westfalia, che ponga finalmente termine alle guerre di religione, questa non potrà che sancire i cambiamenti prodotti dall'attuale conflitto.


8. Dedica finale all'idiozia del complottismo

Prima di concludere ci sia concesso di dedicare qualche riga ai complottisti. Una categoria parecchio attiva sul web, che a volte lascia le scie chimiche per dedicarsi al Medio Oriente, con risultati davvero esilaranti.

Da una parte verrebbe anche da comprenderli. Le vicende mediorientali sono così intricate, che una bella semplificazione non può che far piacere alle anime semplici. Da qui un certo successo ed una messe di luoghi comuni non facili da estirpare.

Ma facciamola breve. Secondo la vulgata che va per la maggiore l'Isis, al Qaeda e l'integralismo islamico in genere sarebbero soltanto una creatura dell'inventiva degli "strateghi del caos". Che in tanti vogliano rendere onore ad una siffatta strategia imperialista con il sacrificio della propria vita, dovrebbe già far scattare qualche dubbio, o almeno smuovere lievemente la tendenziale pigrizia neuronale di certi soggetti.

Ma ovviamente non è così. La specialità dei complottisti è appunto quella di spiegare la storia universale con i complotti. Dei quali, loro, sanno ovviamente quasi tutto. Seguiamoli dunque nel loro ragionamento, secondo il quale Isis ed affini sarebbero soltanto una creatura saudita ed americana, nonché, ovviamente, sionista. Dunque avremmo un fronte unico che andrebbe da Abu Bakr al-Baghdadi, ad al Qaeda, a tutte le milizie sunnite, a tutti gli stati sunniti (escluso, si badi, il "laico" Egitto di al-Sisi) fino ad Israele ed alla Casa Bianca. Dall'altra parte resterebbe l'Iran, la Siria di Assad, Hezbollah e le milizie sciite in genere.

Certo, una storia così è più facile da raccontare. Ma quanto corrisponde alla realtà? Attenzione, nessuno nega che sauditi ed americani abbiano ad un certo punto inciuciato in qualche modo con l'integralismo islamico per utilizzarlo contro Assad, ma questo significa che sono ancora alleati? Nessuno ricorda più com'è finita la storia del sostegno americano agli islamisti afghani in funzione antisovietica? E nessuno ricorda quanto siano mutevoli e complesse le alleanze nella storia? Nessuno che si ricordi del patto Molotov-Ribbentrop?

Ma torniamo ad oggi e al Medio Oriente, con alcuni esempi (certo non esaustivi) delle incongruenze del racconto complottista.

Partiamo dall'Egitto. Per molti a "sinistra" un governo laico da applaudire: reprime la Fratellanza Musulmana e tanto basterebbe. Di più, bombarda gli islamisti in Libia, e qui gli applausi si fanno scroscianti. Dunque l'Egitto starebbe contro il blocco sunnita? Non sembrerebbe proprio a giudicare dalla stretta alleanza con i sauditi ed ancor di più dalla partecipazione attiva ai bombardamenti della coalizione sunnita sullo Yemen.

Approdiamo in Siria, dove il fronte sunnita (abbiamo visto a Yarmouk) si combatte aspramente al proprio interno. Non solo, si combattono tra di loro anche i pretesi "fantocci" dell'Isis e di al-Nusra: che strane creature quelle partorite da certi complotti!

Ai complottisti sembrerà strano, ma lo stesso scontro - tutto nel campo sunnita - sta devastando da tempo la Libia. E per giunta mette contro la coppia turco-qatariota contro quella saudita-emiratina. Forse non si saranno intesi bene mentre complottavano insieme, chissà.

Ed in Iraq, che dire dell'intervento americano a sostegno delle forze sciite. E cosa dire di quello contro l'Isis in Siria? Certo, tutto ciò fa a cazzotti con quel che avviene nello Yemen, dove anche al Qaeda - fino a poco tempo fa colpita duramente dai droni USA - sta dalla parte della coalizione appoggiata da Washington. Noi abbiamo cercato di spiegare il perché di queste apparenti contraddizioni, ma certo non pretendiamo che lo capiscano i complottisti.

In conclusione, e senza offesa per nessuno, il complottismo è davvero la scienza degli sciocchi. Non che non esistano i complotti e i lati oscuri della storia. Ma essi vanno sempre letti dentro alle dinamiche generali che la muovono. Naturalmente, queste semplici considerazioni non convinceranno mai gli astutissimi adepti della scienza complottologica, ma ogni tanto qualcosina gli andrà pur fatto notare. O no?

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