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sinistra

Integraciòn o muerte! Venceremos?

L'America Latina nel suo labirinto

Daniele Benzi

I. Introduzione

image0024L’America Latina vive oggi importanti processi di trasformazione politica ed economica e di conflitto sociale relativamente intensi in uno scenario mondiale in cui gli equilibri geopolitici e le dinamiche dell’accumulazione capitalista stanno mutando profondamente. Uno sguardo sommario agli eventi dell’ultimo anno e a quello in corso, anche se probabilmente poca cosa rispetto alle accelerazioni della turbolenza globale, confermerebbe facilmente quanto si dice.

Per questa ragione, andando un po’ più indietro, se è lecito affermare che la «lunga notte neoliberale» – intesa come modello di governo non solo relativo alla sfera economica – sia già passata nella regione, gli avvenimenti del decennio appena trascorso e del nuovo che è iniziato sconsigliano l’uso di prefissi ed etichette generiche destinate senz’altro a non durare nel tempo. Ancora più importante, però, invitano ad essere cauti nella proposizione di analisi e schemi che abbiano la pretesa di fornire una visione compiuta di ciò che sta succedendo sul piano geopolitico e geoeconomico regionale, specialmente per quanto riguarda i processi di integrazione, e sul ruolo presente e futuro dell’America Latina nella difficile transizione del sistema mondiale.

In quattro brevi interventi propongo più modestamente una panoramica ed alcuni spunti di riflessione sulle alternative contraddittorie in campo ed i conflitti da esse innescate. Discuto in questa prima parte alcuni problemi dell’eredità economica, politica e sociale del neoliberismo ancora assai palpabili nei limiti programmatici e difficoltà pratiche dei governi della cosiddetta «svolta a sinistra».

Mi soffermo in particolare sui tratti dominanti dei modelli di sviluppo ed accumulazione che hanno contraddistinto la storia recente della regione nel quadro dei processi di integrazione. Nel secondo intervento affronterò invece il problematico rapporto con gli Stati Uniti. Il terzo sarà dedicato al gigante brasiliano, mentre l’ultimo alle relazioni con la Cina. Credo che a partire da questi elementi sia utile iniziare a ragionare sulle convergenze tattiche e le divergenze di fondo in alcuni aspetti chiave dell’attuale momento storico che rendono così frammentato e almeno in apparenza ancora carente di senso strategico il panorama dell’integrazione in America Latina.

L’insistenza sull’integrazione, oltre che a un interesse professionale, si deve principalmente a due ragioni. Da un lato a una personale impressione sulla tendenza di una parte della sinistra italiana ed europea a deformare, se non propriamente a mitizzare, ma anche a guardare con sufficienza o persino demonizzare, probabilmente come risposta alla frustrazione e crisi di identità che vive oggi nel vecchio continente ed alla constante e sistematica disinformazione dei media mainstream, sia i processi politici in atto in questa parte di mondo sia, appunto, nelle rare occasioni in cui se ne parla, quelli di integrazione. Avendo vissuto già da alcuni anni in vari paesi dell’area, mi sono convinto che questo atteggiamento che in alcune occasioni ho definito «orientalismo di sinistra», a volte ingenuo e romantico, altre presuntuoso o interessato, assai diffuso comunque fra gli intellettuali, gli studenti e i ricercatori di passaggio o i turisti (rivoluzionari) che visitano la regione e di cui ci facciamo eco, rinforzandolo spesso, noi migranti stanziali, anche se non necessariamente negativo, anzi, certamente non aiuta, né qui né lí, il lavoro teorico e politico di ricostruzione di una sinistra critica con una visione globale e all’altezza dei tempi. Il secondo motivo è senza dubbio più importante, e deriva direttamente dalla profonda convinzione che in una fase di «caos sistemico» come quella che viviamo attualmente, l’integrazione sia per le aree periferiche e semi-periferiche un passo necessario, non radicale né tantomeno definitivo però indispensabile, per raggiungere un ordine multipolare minimamente stabilizzato in cui sia possibile poter pensare e continuare a praticare esperimenti alternativi al sistema dominante. Di nuovo, una riflessione seria su questo punto da parte della sinistra credo sia ancora da compiere.

 

Tra la «svolta a sinistra» e l’impasse dell’integrazione. L’America Latina dopo il neoliberismo

La crisi vissuta nel subcontinente a partire dagli anni ‘70, preludio dei rivolgimenti in corso, è stata parte essenziale dei mutamenti che hanno investito il capitalismo su scala mondiale. Anzi, la strategia dominante che ha guidato il processo di riorganizzazione capitalistica ha trovato in America Latina, complici la trappola del debito e il repulisti delle dittature militari, la sua culla e un laboratorio privilegiato di sperimentazione. La «lunga notte neoliberale», insomma, cominciata con il golpe di Pinochet in Cile nel 1973 ed interrotta simbolicamente con l’elezione dell’ex presidente venezuelano Hugo Chávez Frías nel 1998, nonostante in diversi paesi abbia anche visto la transizione a sistemi democratici parlamentari, è stata un tragico e penoso susseguirsi di crisi politiche, economiche e finanziarie – basti pensare al Venezuela del 1989, al Messico del 1994, all’Ecuador a partire dal 1997, al Brasile del 1998 o all’Argentina ed alla Bolivia dell’inizio del nuovo millennio – le cui conseguenze più tangibili si sono riflesse in una paralisi prima e rallentamento sostanziale poi della crescita economica, così come nel diffuso peggioramento delle condizioni di povertà e disuguaglianza nell’intera regione.

In questo contesto, come è noto, è maturato un vasto fronte di opposizione al neoliberismo come dottrina economica ed ai suoi strumenti di governo. Parallelamente ad una nuova ed aggressiva ondata di espansione capitalista, la crisi scaturita dall’applicazione latina del Washington Consensus ha creato – senza che probabilmente vi sia bisogno di ricorrere all’elusivo concetto di «moltitudine» – una corrente di resistenza tanto ampia quanto i diritti e gli interessi minacciati: dalle nazionalità e comunità indigene ed afro-discendenti alle classi medie urbane, passando per i movimenti contadini senza terra e i piccoli coltivatori schiacciati dall’agro-business, pensionati, quadri inferiori di polizia ed esercito, i residui nuclei operai e, soprattutto, vaste masse di disoccupati, stanziali e migranti, espulse o mai entrate nel ciclo produttivo. Ma ha altresì visto lo stabilirsi e consolidarsi non solo di conglomerati multinazionali oligopolici, di origine autoctona o straniera, variamente inseriti nella fabbrica mondiale e nelle catene globali del valore, ed élite transnazionalizzate legate ai circuiti parassitari della speculazione finanziaria, ma anche di gruppi paramilitari e potenti organizzazioni criminali vincolate al fiorente e lucrativo business del narcotraffico le cui connessioni con la politica ed economia «legale» sono forti ed evidenti. Allo stesso tempo, finalmente, si è anche manifestata la fragilità dei «patti» di transizione post-dittatoriale e dei sistemi partitici che li avevano negoziati e rappresentati, dando luogo a nuovi assetti istituzionali.

In queste condizioni l’America Latina ha festeggiato l’arrivo del nuovo millennio con la fioritura di un variopinto carosello di governi «progressisti». Appare oggi chiaro in ogni caso come l’esperienza neoliberista non sia stata semplicemente «l’applicazione di alcune politiche economiche che si possono invertire per riprendere da dove stavamo vent’anni fa»1. Come accennato, «vent’anni di neoliberismo hanno trasformato profondamente queste società, la loro base produttiva, le relazioni tra i diversi settori del capitale, tra i settori della società, la cultura politica e il modo in cui lo Stato si relaziona al mercato»2. Soprattutto, però, non diversamente da altre aree del pianeta, benché in questo caso in una posizione in generale ancora spiccatamente asimmetrica e subordinata, la maggiore integrazione dell’America Latina alla struttura produttiva, commerciale e finanziaria mondiale è un dato difficilmente ineludibile per qualsivoglia tipo di analisi.

Se gli anni ’80 erano stati battezzati dalla Cepal come il «decennio perduto» per lo «sviluppo», la prima decade del nuovo secolo è apparsa ad alcuni analisti come il «decennio vincente», in ragione degli alti tassi di crescita, della riduzione della povertà e in minor misura delle diseguaglianze e della crescita dell’occupazione, però anche di una gestione macroeconomica apparentemente più solida ed equilibrata, riflessa per esempio nella riduzione del debito estero, nell’accumulazione di ingenti riserve internazionali e nelle politiche di stabilità monetaria, la cui conferma si troverebbe – nonostante alcune importanti eccezioni – nell’assenza di forti scosse all’indomani della crisi mondiale iniziata nel 2007-2008.

Con diverso grado ed intensità, è anche evidente tuttavia una tendenza generale riguardante il notevole incremento del peso delle risorse naturali (minerali ed idrocarburi principalmente) e dell’espansione delle monoculture (soia, palma africana e canna da zucchero per esempio) sull’offerta esportabile praticamente di tutti i paesi dell’area. Con un azzeccato gioco di parole, la sociologa argentina Maristella Svampa si è riferita a questo fenomeno come il «Consenso delle commodities»3, la cui portata ed impatto trascendono ampiamente la sfera domestica dei singoli Stati proiettandosi direttamente, in termini geopolitici e geoeconomici, sul piano regionale e globale in una prospettiva di medio e forse lungo termine. Infatti, a prescindere dalla continuità o meno dell’attuale congiuntura di fluttuazione e alta volatilità dei prezzi delle principali materie prime indispensabili allo sviluppo capitalista e modello di civiltà dominante, è assai probabile che la regione, in quanto deposito di vaste riserve non solo di gas e petrolio, ma anche di acqua dolce, minerali strategici, biodiversità ed ampie superfici per l’allevamento e l’agricoltura di tipo industriale, sarà un nodo importante delle dispute geopolitiche dei decenni a venire.

Per ora, ad ogni modo, il boom delle commodities e l’attrazione di investimenti esteri diretti spiegano in gran misura la buona performance degli ultimi anni in termini di crescita del PIL regionale, gettando allo stesso tempo numerose ombre sulla sua sostenibilità politica, economica e socio-ambientale. Il fenomeno di deindustrializzazione iniziato già in epoca neoliberale di paesi di per sé scarsamente industrializzati, l’apprezzamento delle monete locali rispetto al dollaro ancorché adesso in controtendenza, il mantenimento di sistemi tributari fortemente «regressivi» ed, infine, la crescente devastazione ambientale accompagnata dall’incremento della conflittualità sociale legata, da un lato, alle dinamiche di spoliazione e difesa dei territori sacrificati alla estrazione di materie prime e, dall’altro, alle dispute politiche per il controllo dei surplus fiscali che derivano dal commercio delle risorse naturali, vengono normalmente indicati come i principali fattori di rischio e debolezza. La controrivoluzione del capitale, d’altro canto, alla fine degli anni ’70, era consistita proprio nel cercare di sbarazzarsi dello Stato «sviluppista» e del suo modello di industrializzazione per riportare la regione, fra le altre cose, alla specializzazione primaria e/o di piattaforma «maquiladora». Riuscendoci al principio nelle zone più legate all’economia statunitense e successivamente, anche se solo in parte, indistintamente in tutti i paesi agganciatisi a poco a poco alla «locomotrice asiatica». Paradossalmente, Raúl Zibechi ha sottolineato che per quanto abbia reso possibile una enorme redistribuzione sotto forma di politiche sociali assistenziali, non dissimili in realtà, salvo che per le dimensioni e gli obiettivi politici sottostanti, dai programmi disegnati negli anni ’90 dalla Banca Mondiale, questo modello di accumulazione basato nelle materie prime in definitiva rafforza le borghesie e le destre locali a scapito dei movimenti indigeni, contadini e dei lavoratori, soprattutto se autonomi4.

In questo contesto si sono andate sviluppando le esperienze dei governi bollati come «radicali» o «neo-populisti di sinistra» – Venezuela, Bolivia ed Ecuador – che hanno ridato fiato e diritto di cittadinanza nel sistema interamericano sia alla boccheggiante rivoluzione cubana sia alle nostalgie e nuove speranze della sinistra latinoamericana e mondiale (specialmente europea); dei governi «moderati» o della sinistra «moderna» come in Brasile ed Uruguay; e, infine, dei «recalcitranti» neoliberali come Colombia o Messico. Tutti gli altri paesi si troverebbero così in una posizione intermedia tra questi tre «tipi ideali».

Tale classificazione, che con obiettivi e valutazioni opposte è spesso impiegata indistintamente da autori di destra e di sinistra, corre il rischio di ridurre eccessivamente la complessità di esperienze nazionali per molti versi assai distinte e distanti che le espressioni «svolta a sinistra» o «onda rosa» non riescono a comprendere. Non senza fondamento, comunque, è anche servita fino ad oggi per spiegare le mutevoli geografie politiche, economiche ed istituzionali del nuovo regionalismo e della integrazione latinoamericana. Ad ogni modo, al di là delle specificità nazionali e sub-regionali, il ciclo riformista iniziato con la cosiddetta «svolta a sinistra» si trova indubbiamente adesso in fase di stallo.

Come ha segnalato di recente l’analista politico Decio Machado, la diminuzione del prezzo delle materie prime ha avuto un impatto fortemente negativo sull’economia regionale, creando condizioni propizie per indebolire e, in alcuni casi, destabilizzare i governi chiave della «svolta progressista» come in Argentina, Brasile e Venezuela5. Per quanto non abbiano ancora raggiunto la coesione di un tempo, le destre sono riuscite a riorganizzarsi un po’ ovunque cospirando, con o senza successo, disputando il governo agli schieramenti progressisti in elezioni locali, parlamentari o anche presidenziali e, infine, salendo persino sul carro del progressismo trionfante e determinato a non abbandonare il potere.

I numerosi casi di corruzione evidenziati nella gestione dei nuovi governi, non diversamente dai loro predecessori, così come il controllo e la presunta violazione dei diritti umani e della libertà d’espressione delle opposizioni, in un quadro di stagnazione e incertezza economica seguita all’effimero boom degli anni precedenti, costituiscono i temi ricorrenti di un malessere espresso in primo luogo dalle vecchie e nuove classi medie. Esse includono spesso anche i dissidenti di sinistra che a tali tensioni sommano il «caudillismo» dei leaders, le contraddizioni delle politiche economiche intraprese e l’associazione con determinate frange del capitale e della destra economica. Nella misura in cui gli effetti della crisi si fanno più acuti e pressanti anche sui beneficiari diretti delle politiche sociali e redistributive, i settori popolari, indigeni e movimentisti, bastione elettorale del progressismo latinoamericano, hanno iniziato anch’essi a manifestare distanza e scetticismo sulla «svolta a sinistra».

In alcuni paesi – Honduras o Paraguay – timide esperienze riformiste sono state interrotte prematuramente mediante una nuova tipologia di colpi di Stato battezzati per l’appunto come «blandi», «civili» o persino «istituzionali». In altri, invece, i tentativi di destabilizzazione – Venezuela, Bolivia ed Ecuador – sono stati finora arginati oltre che dalla mobilitazione di alcuni settori della società civile, grazie ad un nuovo «consenso democratico» fra i principali Stati latinoamericani che si è espresso, non senza difficoltà, al margine della Osa6, in organizzazioni formate di recente come la Unasur7 sotto lo sguardo vigile e ruolo di mediatore dell’unico paese con le carte in regola, almeno per le grandi potenze extra-regionali sia «declinanti» che «emergenti», per esercitare una sorta di leadership «benigna» e «responsabile»: il Brasile. Il ruolo del «neo-colosso globale», oggi alle prese con la recessione e una forte crisi di identità/legittimità del progetto petista, è stato in effetti determinante anche nel disattivare tensioni e potenziali conflitti interstatali passibili di turbare la relativa stabilità regionale. In tutti questi casi, invece, l’atteggiamento del governo statunitense è stato quantomeno fortemente ambiguo.

Sembrerebbe, in effetti, che gli Stati Uniti, impegnati dal 2001 nelle crociate mediorientali di G.W. Bush e della sua truppa neocon, stiano cercando adesso di contenere il declino egemonico nel proprio «cortile di casa» attraverso la pressione militare e la balcanizzazione di territori divorati ogni giorno di più dall’insicurezza e dal traffico di uomini e stupefacenti; aggiornando la propria diplomazia commerciale ora orientata decisamente sul versante del Pacifico; e attraverso una strategia di vigilanza e logoramento verso quei governi politicamente ostili o non sufficientemente allineati, promuovendo e mettendo a profitto le loro debolezze e contraddizioni. Tuttavia l’irruzione della Cina e, contemporaneamente, la propensione del Brasile a capitalizzare in leadership politica il potere economico accumulato hanno rappresentato, specialmente dopo la morte precoce della potenziale alternativa espressa dall’effimero «ciclone» Chávez, elementi non certo nuovissimi del panorama regionale che assumono però, a fronte della crisi statunitense ed europea, tutt’altro peso e significato. Allo stesso modo, l’interesse crescente di attori extra-regionali come Russia, India, Corea del Sud o Iran si somma adesso ai partner tradizionali appunto come gli Stati Uniti e l’Unione Europea.

La sinistra regionale, specialmente quella di base, discute e analizza con entusiasmo e scetticismo l’impatto «regressivo» o «progressista» dei primi echi in America Latina di un mondo multipolare ancora assai precario sul piano globale, senza che sia possibile, per il momento, decifrarne con chiarezza le conseguenze soprattutto se, in prospettiva storica, si cerca di misurarle secondo temporalità diverse, in un’ottica, cioè, di breve, medio o lungo termine. Coesistono, in questo modo, si sovrappongono ed entrano in conflitto numerosi fattori e processi su molteplici livelli e gerarchie spesso contrapposte e contraddittorie sia su un piano spaziale – locale, nazionale, sub-regionale o regionale e infine globale –, sia su quello strettamente connesso che rimanda tuttavia con più enfasi alla dimensione etnica, razziale e di classe propria della sfera sociale.

Come risultato, il panorama dell’integrazione ha sperimentato negli ultimi dieci o quindici anni un accelerato e per molti versi tuttora indecifrabile processo di cambiamento. Il dato da evidenziare è sicuramente il vivace attivismo, anch’esso oggi in fase di stallo, che ha caratterizzato in questo periodo alcuni paesi dotati di notevoli risorse materiali e/o immateriali – Brasile, Venezuela, Argentina e Messico in primo luogo – in grado di imprimere alle dinamiche regionali un orientamento in linea con i propri obiettivi di politica estera e visione sul futuro ordine internazionale.

Il carisma e il volontarismo di leader come Lula da Silva, Néstor Kirchner e Hugo Chávez è stato nel bene e nel male un ingrediente essenziale del dinamismo integrazionista dell’ultima decade che, adesso, fa appunto i conti con la loro assenza. Allo stesso modo, l’importante ruolo svolto dai movimenti sociali nell’opposizione al progetto statunitense dell’Alca8 non ha potuto trascendere il momento della resistenza con la elaborazione di una proposta di «integrazione alternativa». Piuttosto, invece, puntando sull’alleanza e il dialogo con i governi «progressisti», e specialmente con quello bolivariano, i movimenti non sono riusciti, intrappolati nel vecchio dilemma fra autonomia e cooptazione, ad approfondire una propria proposta contro-egemonica diversa dall’agenda «neo-sviluppista» e modernizzante persino dei più «radicali» fra i governi della «svolta a sinistra», i quali, d’altra parte, spesso in modo grottesco, si sono appropriati degli slogan e dei dibattiti sulla transizione ad altre opzioni di civilizzazione alternativa allo «sviluppo occidentale» illustrati dai concetti di «buen vivir», «sumak kawsay» e «suma qamaña», o anche del «socialismo comunitario» e del «XXI secolo».

Si è affacciata l’ipotesi di un «nuovo regionalismo» che, sulla scia della letteratura anglosassone e nordeuropea, è stato battezzato come «post-liberale» e «post-egemonico» per citare solo due delle caratterizzazioni più ricorrenti. In uno stadio ancora embrionale, comunque, si presenta adesso come un processo quanto mai complesso e circoscritto solamente all’area sudamericana, senza nessuna certezza riguardo un eventuale consolidamento. Sicuramente, e non solo per quanto riguarda l’America Latina, ad alcuni osservatori non è sfuggito il carattere paradossale del «nuovo regionalismo»: se da un lato contribuisce ad accelerare i processi di trans-nazionalizzazione produttiva nei differenti ambiti regionali per migliorare l’efficienza e la competitività delle imprese nell’economia politica globale, dall’altro rivendica e cerca di restituire agli Stati nazionali i margini di sovranità economica perduti con le liberalizzazioni e privatizzazioni degli anni ’80 e ’90.

Infine, per quanto l’inizio del XXI secolo sia stato caratterizzato da una rinnovata vitalità nei processi di integrazione, l’America Latina di oggi appare come uno spazio regionale eterogeneo e frammentato, formato da paesi e sub-regioni che per quanto riguarda questioni chiave come le alleanze geopolitiche e le strategie di partecipazione economica e commerciale nel mercato mondiale, ancorché convergenti nel «Consenso delle commodities», presentano caratteristiche piuttosto differenti tra loro. Si tratta, d’altro canto, di differenze riconducibili almeno parzialmente alle diverse opzioni e coalizioni dominanti negli scenari politici nazionali che, nel caso di alcuni degli Stati più importanti – Brasile, Argentina, Colombia o Venezuela per esempio – sono passibili di mutamenti tali da influenzare sia le scelte in materia di politica estera sia, appunto, quelle toccanti la integrazione regionale.

I principali nodi che complicano il panorama del «nuovo regionalismo» riguardano i dubbi relativi ad una più accentuata proiezione verso i mercati extra-regionali oppure verso quelli interni con le imprescindibili conseguenze sull’orientamento dei grandi progetti infrastrutturali in corso come l’Iirsa9 o l’integrazione energetica; l’articolazione fra entità statali e imprese private, in cui è sempre più considerevole l’influenza delle multinazionali «indigene», le cosiddette «multilatinas» o «translatinas»; le tensioni politiche ereditate e quelle più recenti fra Stati della regione, non di rado istigate dagli Stati Uniti; e, infine, le difficoltà concernenti la creazione di una nuova architettura finanziaria regionale, palesi nella costituzione di una Banca del Sud e nel rafforzamento di un Fondo Regionale di Riserva.

Il punto chiave, forse, sottolineato da diversi analisti di differente tendenza, è la biforcazione sempre più accentuata fra una dimensione politica dell’integrazione, di dialogo e concertazione, e quella economica, caratterizzata dall’alto livello di frammentazione non solo esistente ma anche programmatica. Il sorgere di numerosi schemi quali l’Unasur, l’Alba-Tcp10 e la Celac11, per quanto in un primo momento salutari rotture rispetto all’egemonia del «regionalismo aperto» degli anni ’80 e ’90 ed oggi, come già detto, fondamentali spazi di dialogo e concertazione politica, favorisce e alimenta la scarsa coesione, una insufficiente solidità istituzionale e la tendenza alla frammentazione. In quest’ottica, la proliferazione di sigle e accordi, a volte complementari, a volte sovrapposti, contraddittori o esplicitamente in conflitto, rimane una caratteristica rilevante dell’area. Benché a ragione si continui a conferire all’integrazione un ruolo di primo piano nella definizione degli orizzonti e delle opportunità per i paesi della regione nel sistema globale del XXI secolo, negli interventi che seguono cercherò di mostrare quanto impervio sia ancora il cammino da compiere.

(Continua qui e qui)

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Note
1 Lander E., cit. in Azzellini D., Il Venezuela di Chávez: Una rivoluzione del XXI secolo?, Derive Approdi, Roma, 2006, p. 264.
2 Ibidem.
3 Svampa M., “«Consenso de los Commodities» y lenguajes de valoración en América Latina”, «Nueva Sociedad» n. 244, Marzo-Abril 2013, pp. 30-46.
4 Zibechi R., “El caos sistémico se instala en Sudamérica”, La Jornada del 20-03-2015.
5 Machado D., “Y llegaron las vacas flacas”, Fundación Alternativas Latinoamericanas de Desarrollo Humano y Estudios Antropológicos (Aldhea), 2015, disponibile su http://www.aldhea.org/?p=1176.
6 Organizzazione degli Stati Americani (OEA nell’acronimo in spagnolo).
7 Unione delle Nazioni Sudamericane.
8 Area di Libero Commercio delle Americhe.
9 Iniziativa per l’Integrazione dell’Infrastruttura Regionale Sudamericana.
10 Alleanza Bolivariana per i Popoli della Nostra America – Trattato di Commercio dei Popoli.
11 Comunità di Stati Latinoamericani e dei Caraibi.

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