Print
Hits: 8082
Print Friendly, PDF & Email
antiper

Della guerra. Crisi e conflitti dell'imperialismo

Giulia Bausano - Emilio Quadrelli

“La guerra oggi non è niente di diverso da quello che era prima. Essa aumenterà la domanda di navi, aumenterà i rischi dei trasporti e i prezzi delle merci; la speculazione avrà una ripresa...Al contrario se non viene alla guerra, il mondo dovrà ancora aspettare a lungo un miglioramento naturale che è ancora lontano” (In P. Togliatti, La preparazione di una nuova guerra mondiale da parte degli imperialisti e i compiti dell'Internazionale comunista)

In9N4eJIncipit

Mentre si stava completando la revisione del presente saggio Parigi era sotto attacco. Cellule islamiche combattenti, legate all'Isis, hanno portato la guerra non solo dentro le metropoli imperialiste ma lo hanno fatto colpendo direttamente la popolazione. Non si è trattato di un attacco indiscriminato, come sostenuto da gran parte dei commentatori e analisti distratti, bensì di una serie di azioni che miravano a colpire i rituali maggiormente frequentati dalla popolazione: la cena al ristorante all'inizio del week–end, un concerto live e, rituale tra i rituali, lo stadio. Nessuna “follia terrorista” ma una lucida e razionale strategia di guerra. Il suo obiettivo, ampiamente raggiunto, è stato quello di riportare la dimensione di massa della guerra proprio là dove, il “pensiero strategico”, l'aveva archiviata nel museo della storia. L'imperialismo fondamentalista, con questa mossa, spiazza l'intero archetipo della forma guerra coltivato dagli imperialismi occidentali ponendolo in una oggettiva situazione di crisi. Mettendo sotto scacco lo stile di vita della popolazione raggiunge un triplice obbiettivo: in prima istanza pone in una condizione cognitivamente impensabile, e probabilmente insostenibile, le popolazioni occidentali le quali, della guerra, avevano un'idea non distante dal videogame; in seconda battuta logora il nemico il quale, di fronte ad attacchi simili, non può che precipitare in una situazione di panico permanente obbligandolo a consumare, senza che la cosa apporti, con ogni probabilità, a qualche risultato concreto, enormi quantità di mezzi e di risorse nell'illusione di garantire la sicurezza dentro i propri territori; infine, ma non per ultimo, rafforza l'opera di consenso tra le popolazioni sulle quali esercita direttamente il suo potere politico in quanto fa subire alle popolazioni nemiche lo stesso trattamento al quale sono, o sono state, sottoposte le popolazioni vittime dell'aggressione imperialista occidentale coniugando così, all'operazione bellica, un'opera di proselitismo il cui effetto a cascata è pressoché garantito. Quanto accaduto sembra, pertanto, rafforzare e confermare le ipotesi di seguito sostenute. La guerra imperialista, oggi, non è più una tendenza ma la nuda e cruda realtà con la quale fare i conti. Il contributo che segue prova ad andare esattamente in tale direzione.

 

A che punto è la notte

Il testo che segue prova a delineare gli scenari attuali della guerra e le sue tendenze. Lo fa utilizzando una serie di “schemi concettuali” ovvero attraverso un'analisi essenzialmente teorica. Una procedura che va spiegata e argomentata. Il nostro punto di partenza è l'imperialismo e le contraddizioni oggettive che questo si porta appresso. Contraddizioni che, nel momento in cui questi entra in una crisi generale, non possono che acutizzarsi. La guerra, a quel punto, diventa realisticamente l'unico sbocco possibile che questi ha per fuoriuscire dalle secche in cui è precipitato. Crisi–guerra–ricostruzione è il solo modo che, il capitalismo giunto alla sua fase imperialista, può mettere in campo per rilanciare un nuovo ciclo di accumulazione. Solo attraverso la distruzione di ingenti quantità di capitale costante e capitale variabile, l’imperialismo è in grado di risorgere e dare vita a una fase più o meno lunga di espansione economica e stabilità politica. Di ciò l'intera storia novecentesca ne è stata una puntuale conferma. Se questa è la cornice generale, o astratta, entro la quale prende forma il politico all'interno della crisi imperialista la sua dimensione concreta è il frutto di tensioni e conflitti tra diversi attori politici [1]. Se, per il sistema imperialista nella sua astrazione, è sostanzialmente indifferente chi uscirà vincitore dal conflitto interimperialista (in ogni caso le distruzioni belliche obbligheranno alla ricostruzione e, con questa, a una nuova ed espansiva fase di valorizzazione del capitale), per i diversi gruppi imperialisti le cose stanno ovviamente in altro modo. A questi, a conti fatti, poco importa la ripresa del sistema imperialista in astratto bensì chi, nel concreto, sarà in grado di governare e dominare il ciclo storico fuoriuscito dalla crisi. Dentro la crisi, inevitabilmente, si ridefiniscono le gerarchie e i rapporti di forza tra le diverse consorterie imperialiste.

La Prima guerra mondiale stabilì la sostanziale egemonia britannica sul mondo e l'ascesa degli Stati Uniti e del Giappone mentre, la Seconda, vide il gigante statunitense ergersi a potenza imperialista pressoché incontrastata. Per una fase piuttosto lunga, sicuramente sino a quando il “blocco sovietico” è rimasto in sella, tutti i gruppi imperialisti hanno dovuto marciare, volere o volare, piegandosi agli interessi strategici della potenza statunitense [2]. Nonostante le non secondarie frizioni presenti tra i diversi potentati imperialisti questi, durante questa fase, non hanno mai potuto configurarsi configurarsi come alternativa strategica alla potenza statunitense. Nessuno di loro, infatti, sarebbe stato in grado di reggere il confronto militare con il “blocco sovietico”. In tale scenario, per lo più, i conflitti interimperialisti potevano assumere una dimensione tattica, anche acuta, mai strategica. In virtù della sua potenza militare l'imperialismo a dominanza americana [3], governava saldamente le gerarchie interne alle forze imperialiste. Impossibile, in quello scenario, ipotizzare il ribaltamento delle gerarchie internazionali. Tuttavia la dominanza USA poggiava su una palese contraddizione. Alla potenza militare, obiettivamente difficile da contestare e ancor più da contrastare (tenendo a mente il “volume di fuoco” del “blocco sovietico” considerato come il nemico principale da parte di tutte le forze imperialiste), l'imperialismo a dominanza stelle e strisce cominciava a non vantare più la medesima forza in campo economico. Il declino industriale degli USA, a partire dagli anni '70 del secolo sorso, si è mostrato come il possibile tallone d'Achille della potenza americana [4]. Su questo terreno, senza troppi clamori, gli imperialismi concorrenti hanno iniziato a erodere, gradatamente, il potere statunitense.

Dopo l'89 le cose iniziano, però, velocemente a cambiare. Cessato il confronto obbligato con il “blocco sovietico” ogni aggregato imperialista ha iniziato, più o meno a sprone battuto, a smarcarsi dalla potenza americana. La costituzione in fieri del Polo imperialista europeo rappresenta una esemplificazione non secondaria di questo processo [5]. Con il varo dell'Euro, moneta in aperta competizione con la divisa verde, l'imperialismo Continentale si è contrapposto apertamente alla dominanza statunitense internazionale [6]. Non per caso lo stesso contenitore politico–militare, la NATO, sintesi dell'alleanza interimperialista post '45, ha cominciato a vacillare. La “politica estera” europea, da questo momento, ha iniziato progressivamente a rendersi indipendente da quella statunitense, fino a raggiungere il punto in cui, a causa della stessa natura del sistema imperialista, i diversi interessi degli imperialismi occidentali sono entrati in competizione, essendo gli obiettivi politici diversi, se non addirittura contrastanti. Non a caso Francia e Germania, le “locomotive” del blocco imperialista europeo, in sempre più occasioni a partire dall’ultimo decennio del Novecento, hanno perseguito una linea di condotta in polemica con quella statunitense [7].

Dentro tale scenario, già foriero di instabilità, si è innestata la crisi sistemica del modo di produzione capitalista [8]. Il confronto interimperialista si è fatto sempre più serrato e acuto tanto che l'ipotesi di una generalizzazione internazionale del conflitto è diventata tutto tranne che una semplice esercitazione accademica. Attualmente vecchi e nuovi imperialismi si confrontano sempre più apertamente. Giovani imperialismi cercano di scalzare prima, e ribaltare poi, tutte le gerarchie politiche, economiche e militari messe in gioco dalla crisi. Fibrillazioni sempre più accentuate animano i diversi aggregati imperialisti dando vita a blocchi e raggruppamenti dove ogni partner diventa disponibile a pugnalare alle spalle l'alleato del momento, se ciò gli consente di acquisire un qualche vantaggio [9]. Le retoriche proprie delle società neoliberiste, fondate su un individualismo assoluto ed esasperato, sembrano indicare il modello comportamentale degli stessi governi [10]. A conti fatti e più prosaicamente sembra regnare il motto: “ognuno per sé e dio per tutti”. Al contempo le nazioni indipendenti, come la Russia, in grado di difendere la propria sovranità nazionale entrano in rotta di collisione con le forze imperialiste che, oggi più che mai, non sono disposte a tollerare la presenza di borghesie nazionali non soggiogate e governate, direttamente o meno, dalle forze imperialiste. Governi progressisti, come quelli dell'ALBA latino–americana [11], sono continuamente oggetto di manovre destabilizzanti da parte dell'imperialismo statunitense coadiuvato in ciò, almeno in alcuni casi, dai governi europei alla ricerca di “mercati aperti” e basi strategiche in quelle aree geografiche. Per altro verso, potenze regionali governate da forze politiche nazionaliste e aggressive, come ad esempio la Turchia, manovrano militarmente per accrescere il loro peso specifico [12]. Tutto il mondo è in ebollizione e fermento. A partire da queste constatazioni prendono le mosse le riflessioni che seguono.

Come si è detto il testo è costruito sulla base di “modelli concettuali” mentre, per quanto concerne i dati empirici, non può che fare riferimento alla pubblicistica corrente. Pubblicistica che va presa con le molle poiché, come è noto, in uno scenario di guerra la prima vittima è proprio la verità [13]. Pertanto ciò che si proverà a fare, sulla base della teoria marxista, è, in prima battuta, una disamina delle forze imperialiste in gioco, quindi si tenterà di spiegare il significato che assume il conflitto tra le forze imperialiste e le borghesie nazionali, assumendo la Russia come modello esemplificativo di ciò. Infine si proverà a riproporre la fatidica domanda Che fare?, ipotizzando una possibile linea di condotta delle assottigliate forze comuniste e del loro ruolo ultrasecondario sulla scena politica internazionale. Realisticamente dobbiamo riconoscere che l'unica e sola arma strategica di cui siamo in possesso, le uniche divisioni che possiamo mettere in campo, sono rappresentate dalla teoria marxista e dal pensiero strategico leniniano. Il presente testo, che ha la sola pretesa di contribuire alla comprensione analitica dei nodi propri dell'attuale fase imperialista, prova semplicemente ad affinare le armi della critica. Certo, in un mondo già in armi, questo può anche essere o sembrare poca cosa ma, sulla scia di Lenin, riteniamo pur sempre che il lavoro analitico e teorico rimane la conditio sine qua non per la messa a punto di una praxis comunista all'altezza dei tempi. Solo attraverso affinate armi della critica è possibile giungere al rovesciamento dialettico delle stesse [14].

Come sarà facile osservare nel testo compaiono non pochi riferimenti a quell'insieme di eventi che hanno fatto da prologo al Secondo conflitto mondiale, il che potrebbe, a un primo sguardo, non sembrare appropriato. A uno sguardo un poco più attento, almeno questa è l'opinione di chi scrive, le assonanze con quegli eventi, fatte tutte le tare del caso, non sono poche. Certo, la storia non si ripete in maniera seriale però, ed è questo il punto, i limiti concettuali e analitici, limiti storici e non soggettivi, del pensiero borghese soggiacciono pur sempre alle medesime condizioni. Ci sembra infatti che, l'incomprensione della tendenza oggettiva al conflitto interimperialistico da parte delle stesse borghesie imperialiste apertamente verificatasi negli anni '30 del secolo scorso, viva nel presente una nuova infausta stagione. Del resto è nella natura storica della borghesia comprendere e razionalizzare gli eventi sempre post festum [15].

Non diversamente dalla crisi economica la guerra interimperialista è un prodotto storico–oggettivo e non l'effetto, nel caso della crisi, di un'incompetenza manageriale diffusa ai massimi livelli, così come, nel caso della guerra, di una qualche malvagia personalità assetata di sangue. La crisi è la deriva obbligata, come Marx ha argomentato e spiegato già nell'800 [16], delle contraddizioni oggettive del modo di produzione capitalista; mentre, la guerra non è altro che il frutto maturo a cui inevitabilmente la crisi conduce, e la sua dimensione mondiale il “semplice” frutto degli intrecci economici–finanziari propri della fase imperialista [17]. Ciò è tanto più vero nel presente dove, di fatto, il “mercato mondiale” ha pressoché catturato l'intero mondo. Oggi, a ben vedere, non esistono più crisi politiche, economiche e militari localmente archiviabili. Ogni crisi reca in seno il germe della sua internazionalizzazione [18]. Ciò è il frutto di un meccanismo oggettivo all'interno del quale le soggettività politiche borghesi non possono far altro che prendere atto. La borghesia non crea la crisi ma vi finisce dentro senza, per lo più, neppure aver sentore di ciò che sta accadendo. Allo stesso modo precipita in guerra senza possedere alcun quadro d'insieme della situazione.

Tanto nel 1914, quanto nel 1939, nessuna borghesia aveva coscientemente a mente a che cosa aveva dato il la. Nel primo caso tutti i contendenti ipotizzavano che il conflitto non si sarebbe prolungato più di sei mesi [19], mentre nel secondo, la stessa Germania, la potenza imperialista che più aveva progettato la guerra, pensava di condurla attraverso delle singole operazioni militari di breve durata. A ciò, del resto, mirava la messa in–forma della guerra attraverso l'innovativa e inizialmente irresistibile strategia della “guerra lampo” [20]. In tal modo, la Germania, ipotizzava di liquidare gli avversari uno alla volta e, una volta raggiunto il suo obiettivo, negoziare quel dato di fatto chiudendo momentaneamente la partita fino a riaprirla nuovamente nel momento più opportuno [21]. Una strategia che, fino a quando non si arenò alle porte di Mosca, sembrava non conoscere ostacoli [22]. È vero, l'Inghilterra non aveva ceduto, ma le sue armate erano completamente arroccate sulla difensiva e assolutamente non in grado di incidere sullo scenario europeo. Con ogni probabilità, se Mosca fosse caduta e l'URSS costretta a ripiegare oltre gli Urali, anche questo capitolo si sarebbe chiuso in breve tempo. Lo stesso Giappone, una volta colpita in profondità la capacità militare statunitense con l'attacco a Pearl Harbour, ipotizzava di conquistare l'Asia, o almeno una sua buona parte, prima che la partita con gli Stati Uniti potesse riaprirsi [23]. Sia come sia, in quel momento, gli stessi stati aggressori, nel momento in cui attraversano la soglia del non ritorno non pensano a un conflitto di dimensioni internazionali e prolungato nel tempo, a conferma di come, tutti i paesi imperialisti, vengono trascinati nel vortice della guerra e solo quando vi sono dentro iniziano a comprenderne il portato. Nel presente non vi è alcun elemento in grado di affermare che, sul piano teorico–concettuale, la borghesia sia stata in grado di emanciparsi dai suoi limiti storici. Non diversamente che dal passato, oggi, le classi dominanti non possono che navigare a vista. La crisi sistemica in cui è approdato il modo di produzione capitalista, proprio nel momento in cui ne si elogiava, con toni apologetici [24], l'assoluta stabilità e prosperità, ne rappresenta, al contempo, l'elemento esemplificativo e paradigmatico. In fondo niente di nuovo sotto al sole. In prossimità della crisi del '29 il clima non era troppo diverso, basti ricordare, il che ha ben presto assunto i tratti del comico, i passi salienti del discorso pronunciato nel dicembre del 1928 dal presidente statunitense J. C. Coolidge sullo stato dell'Unione:

“Un Congresso degli USA non si è mai trovato in una situazione così favorevole come quella attuale. All'interno ci sono tranquillità, pace sociale e soddisfazione insieme alle cifre primato degli anni della prosperità. All'estero c'è pace e buona volontà che deriva dalla comprensione reciproca.”

Non si trattava di una boutade ma del modo in cui l'insieme dei circoli imperialisti osservavano il mondo. In fondo i vari Berlusconi e Brunetta i quali, osservando i ristoranti pieni, negavano l'esistenza stessa della possibilità della crisi non hanno rappresentato una anomalia bensì, più semplicemente, la limitatezza storico–oggettiva del pensiero politico borghese uno scenario che, per altro verso, caratterizza egualmente la “visione del mondo” della cosiddetta sinistra moderna e riformista. Al proposito vale la pena di ricordare come, mentre il mondo stava precipitando nella più radicale delle crisi economiche e politiche, Rifondazione comunista focalizzava il suo dibattito sulla “auto coscienza maschile” e la sua decisione politica si incentrava sulla partecipazione o meno di Vladimir Luxuria al programma di intrattenimento L’isola dei famosi [25]. Per l'insieme di questi motivi il richiamo al prologo della Seconda guerra mondiale è sembrato attuale. Fatta questa necessaria premessa entriamo nel vivo della questione.

L'appello all'ONU pronunciato il 28 settembre 2015 da Vladimir Putin per la costituzione di una coalizione internazionale contro l'ISIS e la minaccia fondamentalista, equiparata a quella realizzatasi negli anni '40 del secolo scorso contro il nazifascismo, offre l'occasione per delineare i tratti essenziali non solo della guerra in corso ma, soprattutto, delle sue derive [26]. La guerra, occorre ancora una volta ricordarlo, è sempre il frutto maturo di una decisione politica [27], la quale, a sua volta, soggiace alla “visione del mondo” degli attori politici in gioco. Nella guerra, e questo è tanto più vero nell'epoca della fase imperialista del modo di produzione capitalista, sono presenti molteplici volti. Se, ed è palese, la guerra imperialista è la cornice generale entro la quale il conflitto prende forma, al suo interno se ne delineano altre due: la guerra nazionale e la guerra di popolo. Ciò è stato vero nel corso del Primo conflitto mondiale dove, dentro la guerra imperialista, si sono sviluppate sia le premesse che hanno portato all’emancipazione alcune popolazioni dell’est Europa, sia la guerra di popolo iniziata con l’ottobre sovietico, conclusasi dopo quattro anni di accaniti combattimenti con la vittoria della Repubblica dei Soviet contro la controrivoluzione interna e l’appoggio fornita a questa dalle potenze imperialiste. Uno scenario simile è possibile osservarlo anche nel corso della Seconda guerra mondiale, anzi, in quel contesto guerra nazionale e guerra di popolo, tra loro intrecciate all'interno di quell'eroico fenomeno che è stata la Resistenza, sono state il permanente lato oppositivo alla cornice della guerra imperialista [28].

Al termine del conflitto, in Francia, Italia e Grecia la guerra nazionale ebbe il sopravvento sulla guerra di popolo mentre, in Bulgaria, Polonia, Cecoslovacchia, Romania, Ungheria, Albania, Jugoslavia, Cina e parte della Germania [29] prevalse la dimensione della guerra di popolo ampiamente supportata dalla forza politica e militare dell’URSS. Ciò è vero anche quando, almeno nell’immediato, il conflitto non si generalizza. Al proposito è sufficiente ricordare, avendo a mente gli anni che intercorrono tra le due guerre mondiali, quanto accaduto soprattutto in Spagna nel 1936 [30]. Un conflitto locale, tutto interno a una dimensione nazionale, divenne immediatamente una questione internazionale, tanto da poter essere considerato il corposo prologo di quanto, di lì a poco, avrebbe preso forma su scala mondiale. Tutte le potenze imperialiste, in qualche modo, vi furono direttamente coinvolte ascrivendo così nell'ambito delle tensioni imperialiste un conflitto che, altrimenti, sarebbe rimasto ampiamente circoscritto e velocemente archiviato dal legittimo governo. Difficile infatti ipotizzare che, senza l'intervento diretto italiano e tedesco, la rivolta franchista avrebbe avuto i mezzi per reggersi in piedi, così come, senza la criminale politica del “non intervento” [31] perseguita dalle “democrazie occidentali”, al fine di ingraziarsi i regimi fascisti e isolare l'URSS, ben difficilmente le forze fasciste spagnole sarebbero state in grado di vantare una superiorità militare sull'esercito repubblicano. Per forza di cose l'imperialismo non poté far altro che appropriarsi di quella guerra e piegarla ai propri fini.

Per altro verso, in epoca più recente, Vietnam [32] e Algeria [33] rappresentano ottime esemplificazioni dei diversi volti che assume la guerra imperialista. Due lotte nazionali, tipicamente anticoloniali, divennero l'epicentro del rapporto tra le forze imperialiste e quelle socialiste e democratiche. Due conflitti che, non per caso, finirono con il delineare precisi campi di amicizia e inimicizia anche all'interno dei paesi imperialisti. Vietnam e Algeria abbandonarono ben presto l'ambito della dimensione locale per diventare a pieno titolo sintesi di quella guerra civile internazionale della quale l'Ottobre sovietico ne era stato l'incipit [34]. Da quando il capitalismo ha raggiunto lo stadio imperialista ciò appare una costante difficilmente contestabile. Nessun conflitto locale, in linea di massima, è destinato a rimanere tale. Per questo, studiare le dimensioni del conflitto attuale, è il solo modo per comprendere il cuore del politico in un contesto storicamente determinato.

Per provare a decifrare e anticipare quanto il futuro prossimo sembra riservarci occorre delineare i presupposti politici attraverso i quali i vari attori politici si attrezzano al conflitto. Sappiamo che il ciclo oggettivo dell'imperialismo si gioca tutto nella dialettica tra crisi e guerra, la quale, a sua volta, può dare adito a due diverse sintesi: la ricostruzione, ovvero un nuovo ciclo di accumulazione e valorizzazione del capitale forte delle distruzioni, sia di capitale costante sia di capitale variabile, che la guerra inevitabilmente si porta appresso; oppure, la rottura rivoluzionaria in una o più parti del mondo con la conseguente edificazione di un modello politico, sociale ed economico socialista. Nel primo caso, sotto il dominio dei vincitori, l'imperialismo è in grado di conoscere una nuova fase, più o meno lunga, di espansione e prosperità, mentre, nel secondo caso, a farsi attuale diventa il passaggio dalla preistoria alla storia. Realisticamente, quindi, dentro la guerra si giocano le sorti del mondo e degli individui non solo in relazione agli eventi bellici contingenti ma per tutta un'arcata storica. Provare a comprendere i diversi sensi che il conflitto assume, pertanto, non è uno sfizio intellettuale, bensì qualcosa di estremamente pratico e concreto. Notoriamente, per quanto si possa ignorare la guerra, questa non ignorerà noi. Detto ciò torniamo a Putin e al suo appello rivolto all'ONU e, in primis, alle potenze delle “democrazie occidentali”. Appello che, queste, si sono ben guardate dal prendere in considerazione, cestinandolo immediatamente e non solo. USA, Francia e Inghilterra, nel momento in cui la Russia, attraverso il suo parlamento, ha deliberato l'intervento in piena autonomia in Siria, a supporto delle forze che combattono sul serio l'ISIS, ovvero l'esercito regolare siriano, i volontari iraniani e l'organizzazione politico–militare Hezbollah, hanno manifestato non solo estraneità ma avversione. Ogni giorno che passa l’irritazione delle potenze occidentali sembra mostrarsi sempre più radicale, ma non solo. Giorno dopo giorno l’imperialismo è costretto ad ammettere che, ai suoi occhi, il nemico non è il terrorismo fondamentalista bensì l’unico governo laico della regione, ovvero il legittimo governo di Damasco contro il quale, come ammettono ormai senza pudore, le potenze occidentali hanno armato, finanziato e addestrato numerose forze musulmane prone alla jihad. Palesemente, per le forze occidentali, il vero obiettivo è l'attuale governo siriano nei confronti del quale si auspica una rimozione non dissimile da quella consumata, in epoca recente, contro Gheddafi e il governo libico. Ne consegue che, a conti fatti, per l'imperialismo, nel suo insieme e indipendentemente dalle diverse prospettive coltivate, tutte le forze che si battono contro Assad sono ben accette. Se il nemico è Damasco, tutti coloro che lo combattono sono obiettivamente amici. Sotto ogni latitudine, geografica e storica, la legge del beduino mantiene inalterata la sua fascinazione. Ma torniamo all’appello di Putin.

Partiamo dall'equiparazione tra fondamentalismo e nazifascismo. Cos'è che li accomuna? Una risposta superficiale direbbe che a legare il fondamentalismo al nazifascismo è la comune brutalità [35]. Una risposta certamente non contestabile ma che, di per sé, significa ben poco. Ciò che unisce fondamentalismo e nazifascismo è il loro essere forze imperialiste nuove e fresche alla ricerca di un ruolo egemone, o per lo meno di prim'ordine, nella contesa internazionale. Solo se assumiamo il tratto imperialista del fondamentalismo possiamo comprendere il senso della posta in palio che, intorno a questi, si è iniziata a giocare. In quanto marxisti non consideriamo i movimenti politici come espressioni organizzate di determinate e concrete classi sociali, politicamente organizzate, e dei loro interessi. Al pari di qualunque altro movimento politico, il fondamentalismo islamico, deve essere colto e osservato avendo a mente gli interessi di classe ai quali soggiace. Deve essere compreso come “storia materiale” e non come “storia delle idee”. Questo il presupposto intorno al quale ruotano per intero le argomentazioni che seguono. Si tratta, infatti, di leggere la realtà attraverso le lenti del marxismo e del suo metodo materialistico e dialettico o accodarsi all'empirismo e/o idealismo dei teorici borghesi e, con questi, limitarsi a interpretare i fatti storici come una contingenza dietro l'altra, perdendo e ignorando la dimensione generale, oppure ricondurre il tutto all'interno di una battaglia delle idee tanto astorica quanto immateriale. In altre parole o si affronta la questione riconducendo il tutto alle contraddizioni proprie della fase imperialista, tenendo ovviamente a mente le trasformazioni che la cosiddetta era globale vi ha apportato, oppure non si può che finire nella scia dei teorici dello scontro di civiltà [36]. In qualche modo si torna alle origini: o la lettura della realtà attraverso la dialettica materialista o l'eterna salsa idealista variamente declinata [37]. Delle due, una.

 

Vecchi e nuovi imperialismi

Molti, nel momento in cui si sono apprestati ad analizzare le vicende relative al fondamentalismo, si sono limitati a osservare il non secondario ruolo di sponsor che alcune potenze occidentali, in primis USA e Inghilterra, hanno avuto nei confronti di questo. Un dato che, certamente, nessuno si sogna di contestare ma che, almeno a nostro parere, non coglie che un lato, e forse il meno incisivo, della questione [38]. Dobbiamo chiederci se, ISIS e propaggini varie, non siano altro che l’obiettiva conseguenza di quella “strategia del caos” perseguita dagli USA nel momento in cui si sono resi conto che, non potendo più essere il gendarme del mondo, l’unico modo per continuare a svolgere una funzione di primaria importanza sullo scenario internazionale, fosse trasformare questo in un caos permanente dove la presenza militare degli USA diventasse un fatto imprescindibile [39]. Da questa prospettiva, sarebbero gli USA, e in parte il suo storico alleato inglese, a muovere le fila della jihad internazionale. Un’ipotesi affascinante e tranquillizzante al contempo, la quale, però, non tiene conto del peso che oggi può vantare il capitale finanziario. Se questo è vero, e lo è, allora diventa difficile eludere il peso che paesi come l’Arabia Saudita o le varie petromonarchie possono vantare nello scenario del capitalismo globale. Un peso che le pone in diretta concorrenza, il che non esclude alleanze tattiche, con altre potenze economico - finanziarie. Occorre, in qualche modo, “provincializzare” sul serio l'Occidente, prendendo realmente atto che l'era del capitalismo globale ha modificato in profondità le dinamiche stesse del sistema imperialista. Dobbiamo, cioè, uscire dalla logica “tardo colonialista” all'interno della quale, in fondo, nulla è cambiato dall'epoca del fardello dell'uomo bianco [40]. Se, come è difficilmente contestabile, oggi è in prima istanza il potere del capitale finanziario a tessere le fila del mondo capitalista, è ben difficile non considerare, in veste di competitori globali, paesi che, su questo piano, sono in grado di mettere in campo risorse illimitate [41]. Continuare a pensare a questi paesi come sudditi, o come borghesia locale al servizio di interessi internazionali, significa non comprendere quanto, e ormai da tempo, il mondo capitalista sia cambiato. Quote non secondarie del denaro che ogni giorno viaggia sulle autostrade informatiche è denaro legato a determinati interessi di classe, non ai capricci di vanitosi miliardari petroliferi interessati unicamente a sperperare le loro ricchezze ai tavoli delle roulette, in automobili esclusive e notti brave. Questa visione un po' naif del mondo arabo, al quale di fatto si nega la possibilità di esistere come classe, per limitarlo all'ambito dello “individuo eccentrico” è un retaggio razzista che non trova alcun riscontro empirico [42]. Ma se ciò è vero, se cioè la formazione di settori di borghesia imperialista è un prodotto del sistema imperialista sotto qualunque latitudine, per quale motivo questa classe, economicamente in ascesa e, per di più, determinata come qualunque classe giovane ansiosa di farsi largo nel mondo e mettere in pensione le vecchie élite dominanti, dovrebbe rinunciare ad esercitare sino in fondo il suo “diritto di predatore”? Perché dovrebbe rinunciare al suo imperialismo? Perché, in fondo, dovrebbe seguire un iter diverso da quello che, volta per volta, i giovani imperialismi hanno intentato? Perché dovrebbero rinunciare a lottare come classe e accontentarsi di essere un insieme di individui ricchi ma politicamente inesistenti? Esistere e affermarsi come classe egemone internazionale non è stato forse, dentro le rotture storiche, l'obiettivo coltivato e perseguito dalle diverse borghesie imperialiste in ascesa? Non si sono forse queste scontrate, senza esclusione di colpi, contro le vecchie e, in apparenza, consolidate gerarchie internazionali? Ogni crisi non ha forse dato il la a una ridefinizione sanguinosa dei rapporti di forza interni all'imperialismo? Sulla risposta non è pensabile che sorgano dubbi. Ogni borghesia imperialista in ascesa ha combattuto per conquistarsi il proprio “posto al sole”. Questa è la legge storica del sistema imperialista.

Una legge che le versioni postmoderne socialdemocratiche, coltivate attraverso le pur suggestive teorie di Empire, non hanno intaccato di una virgola [43]. Così come, nel '900, l'imperialismo non è approdato al tranquillizzante “ultraimperialismo” [44], nel XXI secolo l'imperialismo non si è trasformato in un Empire unico e unitario ma continua a configurarsi in blocchi politici, economici e militari in aperto conflitto tra loro. Non diversamente dal '900 la guerra continua a essere il solo sbocco dei conflitti e delle crisi oggettive alle quali il sistema imperialista approda. A modificarsi, anche se non è cosa da poco, è il numero e la complessità degli attori in gioco e l'allargamento oggettivo dei partecipanti in veste di protagonisti. Anche in questo caso, però, lo scenario è meno innovativo di quanto possa sembrare. Nel Primo conflitto mondiale, una partita che sembrava essere esclusivamente europea, iniziò a emergere, come forza preponderante, la potenza statunitense. Una potenza che immediatamente entrerà in conflitto con l'Inghilterra la quale, ancor prima che contro la Germania, sarà obbligata a una lunga guerra di posizione proprio contro gli USA [45]. La Seconda guerra mondiale si è conclusa con la piena capitolazione, in quanto potenze imperialiste egemoni, delle borghesie imperialiste europee e l'affermazione dell'imperialismo a dominanza statunitense [46]. Ciò che è possibile osservare è, dentro ogni crisi, l'irrompere di forze imperialiste fresche in aperta competizione con le altre. Uno scenario che, a conti fatti, rappresenta il quadro immutabile dell'intera fase imperialista.

Sotto tale aspetto, allora, diventa facile comprendere come il fondamentalismo non sia altro che l’aspetto fenomenico attraverso il quale un giovane imperialismo tenta di scalzare la concorrenza di altri potentati. Si tratta di un imperialismo che agisce su più fronti. Da un lato, in maniera più o meno classica, mira a impadronirsi di spazio. Ciò avviene in situazioni quali l’Iraq, la Libia, lo Yemen e in parte la Siria dove, al seguito delle operazioni militari condotte dai potentati occidentali, si è creato un vuoto di potere. Per altro verso, ad esempio in Pakistan ed Egitto, mira ad acquisire l'egemonia all’interno del paese, grazie alle “quinte colonne” che può vantare tra le stesse classi dominanti e il consenso che è in grado di acquisire tra alcuni strati della popolazione. In seconda battuta cavalca o si appropria di lotte locali antioccidentali, attraverso una tattica che ricorda assai da vicino la ”rivolta nel deserto” di Lawrence [47], per creare delle enclave territoriali in grado di rendere fortemente instabili un territorio. In tal modo obbliga gli avversari a un notevole dispendio di risorse ed energie al fine non tanto di batterli sul campo ma di logorarli. Non va dimenticato che, la tattica de “la guerra nel deserto”, contribuì non poco all'implosione dell'Impero Ottomano il quale, in quella guerra, disponeva di forze militari incommensurabilmente più ampie di quella poste a disposizione della “rivolta araba”. Quell'apparato cedette non perché sconfitto bensì perché logorato da una guerriglia della quale non riusciva venire a capo [48]. Forse, anche in questo caso, occorrerebbe avere migliore considerazione delle borghesie extraoccidentali invece di continuare a pensarle pura manovalanza di interessi altrui. In altre parole, così come le borghesie imperialiste di matrice araba sono in grado di muovere capitali in piena autonomia e in funzione dei propri interessi di lasse, sono assolutamente capaci ad elaborare un “pensiero strategico” anche senza che il Lawrence di turno le prenda per mano. Infine, attraverso ristrette cellule combattenti, il giovane imperialismo islamico colpisce direttamente, con azioni di diversa intensità, le stesse metropoli imperialiste occidentali. I recenti “fatti di Parigi” ne sono un semplice, ma ben significativo, esempio [49]. Masse subalterne in cerca di riscatto, come vedremo meglio in seguito, sono attratte da forze e movimenti che, nei loro confronti, non mostrano certo il volto dell'imperialismo, bensì quello dell'emancipazione e della riscossa individuale e di classe.

Per questo insieme di motivi, pur con tutte le ovvie tare necessarie, riscontriamo non poche similitudini tra le vicende odierne e quelle che hanno portato al secondo conflitto mondiale. Abbiamo sostenuto che, intrecci oggettivi a parte, il fondamentalismo non è altro che l'avanguardia politico–militare di un'area imperialista a dominanza arabo e arabo - saudita che, nella ridefinizione degli assetti geopolitici e geostrategici post 1989, sta cercando di assurgere a un ruolo di primaria importanza. Questo ruolo, coltivato da tempo attraverso l'alleanza con le potenze occidentali in funzione anti-URSS, con l'irrompere della crisi sistemica del modo di produzione capitalista ha assunto tratti sempre più aggressivi ed espliciti. Dalla crisi esplosa nel 2008 il mondo, realisticamente, uscirà assai diverso da prima. La crisi economica è anche crisi politica e militare. Il che non può che comportare il formarsi di nuove gerarchie di potere su scala internazionale. La posta in palio è nuovamente il mondo e la sua spartizione.

In altre parole siamo di fronte a qualcosa di non troppo diverso dalla fine degli accordi di Versailles per quanto riguarda l'Europa, e dalla decisione di rompere definitivamente “l'accerchiamento europeo e statunitense”, da parte del Giappone, in oriente negli anni a cavallo tra la Prima e la Seconda guerra mondiale. In quel contesto due giovani e aggressivi imperialismi iniziarono a tessere le fila per spodestare, o almeno ridimensionare, le vecchie potenze imperialiste. A tal fine, entrambi, poggiarono su qualcosa di più che un nazionalismo esasperato. Germania e Giappone diedero vita a “ideologie imperialiste di massa” in grado di cooptare nei loro progetti parti non secondarie delle proprie classi sociali subalterne e, nel caso del Giappone, catturare il consenso, almeno inizialmente, anche delle popolazioni poste sotto tutela. Un'impresa che risultò loro neppure troppo difficile poiché, per realizzarla, non dovettero far altro che attingere a piene mani dalle contraddizioni proprie dello stesso sistema imperialista.

L' “anticapitalismo eclettico” della fase ascendente del nazionalsocialismo è sin troppo noto. L'ideologia del volk che fece da sfondo al processo di “nazionalizzazione delle masse [50]” in Germania durante il primo dopoguerra, ebbe facile presa poiché, a conti fatti, non era altro che una versione alienata della lotta di classe. Le stesse difficoltà patite dal movimento comunista nei confronti del nazionalismo radicale, paradigmatica la questione inerente al “nazionalbolscevismo” [51], testimoniano di come l'imperialismo nazionalsocialista attinse a piene mani dalle contraddizioni oggettive poste dall'imperialismo. Su questo aspetto gli scritti di Dimitrov mantengono inalterata tutta la loro freschezza e dovrebbero essere tenuti maggiormente a mente non solo in relazione alla questione in sé ma, soprattutto, sotto il profilo metodologico [52]. Ciò che negli scritti dell'epoca, Dimitrov, rimproverando non poco la linea di condotta di gran parte dei militanti comunisti, sostiene con ostinazione è la necessità imprescindibile per il movimento comunista di saper cogliere la contraddizione dialettica “concreta” della fase storica. Secondo Dimitrov, si tratta, a partire da un fatto “particolare” e “concreto” - il formarsi e il rafforzarsi di un movimento di massa, certamente reazionario in senso storico - politico, ma eclettico e “radicale” sul piano empirico - di cogliere, analiticamente prima e nella prassi subito dopo, le occasioni che la storia pone alle avanguardie di classe. Chiuso il breve inciso proseguiamo.

Ancora più interessante, per il contesto attuale, sembrano essere però le vicende giapponesi. L’imperialismo nipponico, infatti, poté giocare non poco sulle contraddizioni che le politiche imperialiste occidentali avevano esasperato tra le popolazioni asiatiche. Contemporaneamente all'attacco portato contro la base navale statunitense di Pearl Harbour, i Giapponesi iniziarono la loro avanzata in Asia. Una marcia più fulminea di quella, già impressionante, compiuta dalle armate hitleriane [53]. Ciò è reso possibile grazie, soprattutto, all'antimperialismo e anticolonialismo del quale, pur strumentalmente, il Giappone si fa portatore. Le truppe nipponiche promettono un'Asia grande e unita emancipata una volta per tutte dal dominio occidentale [54]. Per capire quanto tali retoriche abbiano avuto una base concreta si può ricordare come Gandhi rispose alla richiesta britannica di mobilitarsi contro la minaccia giapponese:

“La presenza degli inglesi in India è un invito al Giappone a invadere l'India. Il loro ritiro allontanerebbe la tentazione; ad ogni modo, se ciò non fosse, l'India libera saprebbe fronteggiare assai meglio l'invasore". [55]

Per altro verso negli Stati Uniti, come ricorda Malcom X [56], l'attacco giapponese alla base navale americana nelle Hawaii fu salutato con gioia dai neri che, a tutti gli effetti, erano una colonia interna. Si tratta di due episodi in grado di raccontarci qualcosa di non secondario. L'imperialismo giapponese non dovette inventarsi nulla ma, per catturare se non l'adesione per lo meno la neutralità di gran parte delle popolazioni che si apprestava a porre sotto tutela, gli fu sufficiente attingere a piene mani dalla situazione oggettiva in cui, l'imperialismo occidentale aveva relegato l'esistenza di buona parte delle popolazioni non bianche [57]. In altre parole l'imperialismo giapponese non dovette che far leva sul modello di potere edificato sulla “linea del colore” dalle potenze occidentali. Anche in questo caso, come per altro verso avvenne per le masse subalterne tedesche, i giovani imperialismi fecero leva su qualcosa che viveva dentro l'animo delle masse. I nazisti puntarono non poco sul carattere “operaio” e “socialista” del loro movimento mentre, i giapponesi, utilizzarono a piene mani l'avversione nutrita dalle popolazioni asiatiche nei confronti della dominazione coloniale bianca. Una colonizzazione, sembra il caso di ricordarlo, particolarmente violenta e brutale. Lo stesso Hitler non si fece remore a sfruttare una certa retorica anticoloniale. Esemplificativo il brano che segue tratto dal Diario W. L. Shirer:

“Il Führer ha affermato di aver domandato alle nazioni che dovevano considerarsi minacciate da lui, secondo Roosevelt, se si sentivano veramente tali, “e la risposta è stata negativa in ogni singolo caso”. Non aveva potuto interpellare, così disse, Stati come la Siria perché questi “per il momento non sono in possesso della libertà, bensì occupati e di conseguenza privi dei loro diritti ad opera di agenti militari dei paesi democratici”. Inoltre, “al signor Roosevelt è evidentemente sfuggito il fatto che la Palestina è occupata in questo momento non già da truppe tedesche, bensì inglesi”. E via di questo passo.” [58]

Certo, tanto i nazisti quanto i giapponesi, mostrarono ben presto quanto di ben poco socialista e anticoloniale vi fosse nella loro politica, ma non è questo il punto. Ciò che è importante registrare sono due cose: le contraddizioni oggettive proprie del capitalismo di cui si servono sia l'imperialismo nazifascista sia quello nipponico; il carattere di “massa” che fa da sfondo all'iniziativa dei giovani e aggressivi imperialismi. Dobbiamo pertanto chiederci se, oggi, l'imperialismo fondamentalista stia ricalcando una strada simile. Molti indicatori sembrerebbero confermarlo.

Partiamo da un dato di fatto difficilmente contestabile: in Africa e in gran parte dell'Oriente, con la sola eccezione delle forze maoiste indiane e nepalesi, tutti i movimenti che, pur confusamente, si oppongono alla dominazione imperialista occidentale ruotano intorno all'Islam. Nella stessa Palestina, Hamas [59], la più forte organizzazione della Resistenza, è di ispirazione islamica mentre altre, dichiaratamene prone al fondamentalismo estremista vi hanno preso piede. Questo non significa che tutti i movimenti musulmani siano immediatamente riconducibili all'imperialismo fondamentalista ma è sicuramente vero che, questo, vi può trovare degli interlocutori. In che modo? Semplicemente dimostrandosi più attrezzato e determinato degli altri a condurre la battaglia contro i dominatori occidentali. Il punto sta esattamente qua. Nei confronti delle masse mussulmane, l'imperialismo fondamentalista, non si presenta come espressione di una determinata frazione della borghesia imperialista in guerra con altre, bensì come forza di liberazione ed emancipazione delle masse islamiche soggiogate dal capitalismo internazionale. In poche parole ciò che le retoriche fondamentaliste compiono è una declinazione in chiave religiosa del capitalismo e dell’imperialismo. A essere messo in discussione è l’aspetto fenomenico dell’imperialismo, il suo essere a dominanza cristiana e/o ebraica, tralasciando bellamente di affrontarne gli aspetti strutturali. A essere cattivo e oppressivo non è il capitalismo in sé, bensì la sua essenza “crociata” o “ebraica”. Fecero qualcosa di diverso i nazisti? Assolutamente no. Hitler e soci si presentarono forse come espressione dell'industria pesante tedesca e dei circoli finanziari? No tanto che, una volta stabilizzatisi al potere, dovettero liquidare manu militari la loro componente plebea e popolare che vagheggiava giunto il momento di por atto alla seconda rivoluzione. Ma era esattamente questa componente, a lungo posta in prima fila, che era stata utilizzata per cooptare il consenso, e in non pochi casi anche la militanza, dei settori sociali subalterni [60]. Lo stesso antisemitismo, per tutta una fase, è stato declinato in chiave anticapitalista o antiborghese. È l'ebreo ricco, possidente e borghese che viene additato come nemico del popolo tedesco. È il capitalista ebreo ad essere indicato quale responsabile della miseria delle masse. Favole sicuramente, le quali, tuttavia, ebbero non poco successo. I nazisti ebbero buon gioco nell'indirizzare l'odio di classe invece che sui padroni in quanto tali, sulla borghesia imperialista tout court verso una particolare classe capitalista etnicamente determinata. Una classe, per di più, identificata essenzialmente come classe finanziaria e quindi parassitaria. L'odio spontaneo delle masse verso le banche e i banchiere fu indirizzato, attraverso l'equazione capitale finanziario = possidente ebreo, nell'antisemitismo. Facendo leva sulle contraddizioni reali ampiamente presenti nella vita delle masse, i nazisti riuscirono a stravolgerne il senso, piegando ai voleri di una nuova forma imperialista le aspirazioni di quote non secondarie di subalterni. Con ciò diedero il via a una leggenda, quella del capitalismo buono e produttivo a fronte di un capitalismo parassitario e malsano, che, ancora oggi, vanta non pochi epigoni in gran parte dei mondi politici [61].

Notoriamente la presa fondamentalista trova ampio spazio anche dentro i paesi imperialisti. Qua, ancora più che altrove, diventa evidente come la demagogia fondamentalista poggi sulle immense contraddizioni causate dal sistema imperialista stesso. Se le cellule militanti e combattenti legate direttamente alle organizzazioni dell’imperialismo fondamentalista non hanno numeri elevati, il consenso diffuso che, “istintivamente”, quote di popolazione di pelle scura gli riservano non è secondario. È tra i “dannati della metropoli” che questo imperialismo trova decisi consensi. Chiediamocene il motivo.

Difficile pensare che un giovane arabo o nero cresciuto dentro le metropoli imperialiste, nelle quali è ghettizzato e marginalizzato, trovi nella “legge coranica”, in quanto tale e nella sua più rigida applicazione, un particolare interesse; più facile pensare che a trascinarlo verso il fondamentalismo sia la possibilità di rivalsa che questo gli offre. Molto probabile che, più della preghiera in quanto tale, a rendere particolarmente appetibile il mondo fondamentalista sia il combattimento. Infine, ma non per ultimo, come ricorda Max Weber non di solo pane vive l’uomo. Chiunque abbia minimamente idea a cosa si riduca la vita, e le sue prospettive, per milioni di subalterni dentro le “periferie del nulla” [62], dovrà convenire che lì le sirene fondamentaliste trovano, a dir poco, un terreno fertile. Anche in questo caso, come vedremo meglio in seguito, la linea di condotta dell’imperialismo fondamentalista ricalca non poco lo schema procedurale utilizzato dai nazisti. A essere posta in primo piano è un’identità forte (al proposito vale sicuramente la pena di ascoltare con attenzione il “testamento politico–esistenziale” di Amedy Coulibaly [63] espresso a ridosso dell’operazione di Parigi), insieme a una determinazione altrettanto forte di cui i neofiti del fondamentalismo si possono appropriare. Tutto ciò, però, non potrebbe darsi se l’odio non fosse diventato l’alfa e lo zenit delle masse subalterne in pelle scura, delle masse subalterne confinate dentro le periferie delle metropoli imperialiste [64]. Se l’odio, oppure la rassegnazione, non fossero diventate il sentimento maggiormente acquistabile per una parte non secondaria dei nostri mondi. Sono le contraddizioni oggettive del sistema imperialista a creare i presupposti perché un giovane imperialismo catturi quote non secondarie di consenso. Ma è altrettanto vero che, questo stesso sistema, si mostra incapace di cogliere il portato di tali contraddizioni. Per l'imperialismo l'esclusione e la marginalizzazione, in questa sua fase, di gran parte dei subalterni è qualcosa di assolutamente naturale. Difficile, per non dire impossibile, che possa guardare a ciò come a una contraddizione dalle conseguenze drammatiche.

 

Sul filo del tempo

Per l'insieme di questi motivi, nei confronti dell'ISIS, e delle organizzazioni fondamentaliste in generale, le “democrazie occidentali” stanno ripercorrendo una strada non troppo diversa da quella catastrofica seguita nei confronti del nazismo, del militarismo giapponese e della loro ascesa. Un ripasso storico, al proposito, può risultare utile. Nel 1936, di fronte all'aggressione perpetuata dal franchismo nei confronti della Repubblica democratica e del suo governo di Fronte popolare, niente di più e niente di meno di una repubblica borghese progressista il cui principale compito e obiettivo era, attraverso la riforma agraria, modernizzare il paese e liberarlo dalle briglie di un regime semi feudale e clericale [65], le “democrazie occidentali” si guardarono bene dallo schierarsi con il governo progressista. Al fine di non compromettere i rapporti con i regimi nazifascisti di Germania e Italia, entrati di forza nel conflitto con l’invio di armi, in particolare aerei e carri armati, e uomini al fianco del generale golpista, tutte le “democrazie occidentali” imposero, di fatto, il disarmo della Repubblica spagnola e la conseguente vittoria della dittatura clerico–fascista [66]. Una vittoria ben distante dall'avere un semplice effetto locale ma che rafforzò il nazifascismo su scala continentale. Solo l'Unione sovietica ebbe di ciò piena consapevolezza. Non per caso, l'URSS e l'Internazionale comunista, si spesero non poco per arginare e sconfiggere il fascismo in Spagna avendo ben a mente gli effetti nefasti che, quella vittoria, avrebbe comportato sull'insieme degli assetti politici europei prima, internazionali poi. Quanto la “partita spagnola” non fosse altro che l'incipit del futuro prossimo fu, sotto l'aspetto analitico, chiaro ed evidente solo al movimento comunista internazionale il quale si adoperò per la realizzazione del più ampio fronte antifascista di massa possibile. Le “Brigate internazionali” [67] di ciò ne rappresentarono la sintesi –militare migliore. In compenso tutte le forze borghesi si mostrarono irriducibilmente avverse a una politica di fronte.

Certo, nelle “Brigate internazionali” confluirono anche numerosi non comunisti [68]. Democratici, antifascisti e socialisti, gli anarchici non possiamo che considerarli soggettivamente appartenenti al movimento di classe e quindi naturalmente interni a questo fronte, andarono a riempire le fila delle “Brigate internazionali” ma, ed è questo il punto, in virtù di una scelta individuale. La socialdemocrazia internazionale, in particolare, si guardò bene dal fare sua questa battaglia allineandosi alla politica del “non intervento” ipocritamente perseguita dalle “democrazie occidentali”. A conti fatti, in Spagna, tutte le frazioni politiche della borghesia cedettero senza troppe ambasce al fascismo internazionale. In realtà quanto accaduto in Spagna non era neppure una novità poiché poteva vantare almeno due precedenti di non poco conto. Il 13 gennaio del 1935 i nazisti misero a segno il primo colpo finalizzato a neutralizzare il Trattato di Versailles. Attraverso un plebiscito, che vide la partecipazione di circa il 98% della popolazione, con oltre il 90% di consensi i territori del bacino della Saar, che al termine della guerra erano stati sottoposti sotto la giurisdizione della Società delle Nazioni, ritornarono alla Germania e, con questi, anche tutte le risorse minerarie del bacino che, sino ad allora, erano state date in sfruttamento alla Francia. Il primo marzo del 1935 il Consiglio della Società delle Nazioni ratificò gli esiti del plebiscito riconsegnando il bacino della Saar alla Germania. L'effetto immediato di questo cedimento, il primo di una lunga serie, fu il rafforzamento del regime hitleriano all'interno e un protagonismo sempre più accentuato in politica estera. Esattamente un anno dopo, il 7 marzo 1936, Hitler, forte del successo conseguito nella Saar, diede il via alla rimilitarizzazione della Renania. La smilitarizzazione della Renania era stata imposta alla Germania con il trattato di Versailles. Il suo scopo, ancora prima che politico, era di natura strategica. Questa garantiva, alla Francia ma anche al Belgio, una maggiore sicurezza dei propri confini poiché rendeva improbabile, se non impossibile, il reiterarsi di quanto accaduto nel 1914 quando, proprio dalla Renania, l'esercito tedesco dilagò in Belgio e in Francia, ma non solo. Sulla smilitarizzazione della Renania poggiavano per intero le garanzie offerte dal sistema di alleanze francese ai paesi dell'Europa orientale [69]. Nel caso di un attacco tedesco alla Polonia o alla Cecoslovacchia, saldamente, almeno in apparenza, legate alla Francia da accordi diplomatici e militari, l'esercito francese, attraverso la Renania, avrebbe potuto raggiungere con notevole facilità la Ruhr, cuore industriale della Germania e del suo apparato bellico, avendo così la possibilità di mettere facilmente in ginocchio l'industria pesante e con lei l'esercito tedesco. Hitler, attraverso la rimilitarizzazione della Renania, non solo stracciava, di fatto, gli accordi di Versailles, il che gli valse un rafforzamento non secondario del regime tra tutta la popolazione tedesca, ma faceva saltare i presupposti stessi sui quali poggiavano gli accordi e le alleanze tra la Francia e i paesi dell'Europa orientale. Adesso, per l'esercito francese, raggiungere la Ruhr non sarebbe stata una passeggiata. Per comprendere le ricadute a trecentosessanta gradi che la rimilitarizzazione della Renania avrebbe comportato non occorreva una particolare genialità eppure, sia il governo francese che quello inglese, le potenze europee sulle quali poggiavano gli equilibri politici e militari scaturiti dalla Prima guerra mondiale, lasciarono mano libera ai nazisti. Non diversamente si comportarono nel marzo del 1938 quando Hitler attuò l'Anschluss nei confronti dell'Austria. Anche in questo caso i nazisti ottennero un duplice obiettivo: realizzavano una parte del “progetto pangermanista” [70], consolidando un prestigio di massa non indifferente, si aprivano, ed era l'obiettivo strategico centrale, la strada verso Praga. Non è per nulla secondario notare, al proposito, l'attenzione con la quale, ogni volta, i nazisti coniugano la realizzazione strategica dei loro progetti imperialisti su scala internazionale con, all'interno, il processo di “nazionalizzazione delle masse” [71]. Tanto la Renania quanto l'Austria sono parti integranti di quel progetto del volk posto alla base dell'ideologia nazista. Un progetto che sarà alla base anche del successivo passo posto in cantiere dall'imperialismo nazista: la conquista della Cecoslovacchia. È noto, infatti, come il tutto si giocò attraverso i “diritti calpestati” della minoranza tedesca interna allo stato cecoslovacco. Qua, però, i giochi cominciarono a farsi più complicati poiché la Cecoslovacchia, oltre che con la Francia, aveva un trattato di alleanza anche con l'URSS.

Questa, di fronte alle minacce hitleriane, non perse tempo offrendo alla Cecoslovacchia a tutto il peso del suo potenziale militare. Per poter intervenire, però, non avendo confini con la Cecoslovacchia, avrebbe dovuto attraversare i territori della Polonia e della Romania con l’esercito e il loro spazio aereo con l’aviazione. I governi di questi due paesi, che si stavano già stringendo il cappio al collo con le proprie mani avendo iniziato a coltivare entusiastici rapporti di buon vicinato e amicizia con i nazisti, si opposero alle richieste sovietiche. La Francia, alla quale l’URSS chiese di intercedere con tutta la sua forza diplomatica verso i governi dei due paesi recalcitranti al fine di ottenere il lasciapassare, si guardò bene da operare in tal senso. L’Inghilterra, per parte sua, scoraggiò ogni iniziativa bellica risultando la principale artefice dell’ignobile trattato di Monaco che consegnava anche la Cecoslovacchia al dominio nazista. La farsa consumatasi a Monaco, tuttavia, non fu che una tappa della debacle alla quale andarono incontro le potenze democratiche. Come recita un proverbio algerino: “quando si è toccato il fondo, si può sempre iniziare a scavare” ed è esattamente ciò che le “democrazie occidentali” fecero poco dopo Monaco.

Le mire naziste, nonostante le reiterate assicurazioni di pace declamate da Hitler, non si fermarono certo con l'acquisizione dei territori cecoslovacchi. Il che, in fondo, è ampiamente comprensibile. Austria e Cecoslovacchia avevano senso, nella logica del progetto imperialista nazista, solo come tappe intermedie della propria ipotesi complessiva di dominazione. Limitarsi all'acquisizione di esse, a conti fatti, non comportava una radicale ridefinizione delle gerarchie imperialiste a livello internazionale. Nella migliore delle ipotesi queste avrebbero garantito alla Germania lo status di potenza regionale ben distante, però, da insidiare il peso e la potenza dell'imperialismo francese e, soprattutto di quello inglese. Ma le mire naziste miravano esattamene a scardinare le gerarchie imperialiste internazionali concretizzatesi a Versailles. La Polonia, a questo punto, non poteva che entrare nel mirino della politica di conquista nazista. Diventava così evidente come, l'acquisizione della Cecoslovacchia rappresentasse, per la Germania, un nodo strategico-militare di primaria importanza in vista dell'attacco alla Polonia. Il governo polacco, che in maniera a dir poco miope nell'operazione nazista contro la Cecoslovacchia aveva intravisto la possibilità di annettersi quote territoriali di quest'ultima e aveva perciò negato il transito all'esercito sovietico sul proprio territorio, si ritrovò completamente sguarnito sul lato sud. Per la Germania, a questo punto, l'operazione polacca si mostrava poco più di una formalità.

Partendo dalla “questione Danzica” e dei territori tedeschi che Versailles aveva consegnato alla Polonia, i nazisti si apprestarono a liquidare e inglobare anche la Polonia. Anche in questo caso i nazisti seguirono una linea di condotta in grado di unire i progetti imperialisti coltivati dall'élite borghesi al potere con quanto faceva parte dell'humus popolare. Va ricordato infatti che neppure la Repubblica di Weimar aveva mai accettato i nuovi confini orientali definiti dalle potenze vincitrici del Primo conflitto mondiale [72]. Per la Germania, Danzica e dintorni, era una ferita rimasta aperta e considerata tale da gran parte della popolazione. Non stupisce pertanto che, agli occhi della popolazione tedesca, Hitler potesse apparire più il nazionalista che combatteva una giusta “guerra di riscossa nazionale” che la sintesi politico-militare delle élite imperialiste di cui era effettivamente espressione. Ma torniamo alle vicende che, passo dopo passo, conducono alla deflagrazione del Secondo conflitto mondiale e alle linee guida perseguite dalle “democrazie occidentali” nel suo approssimarsi.

Dopo Monaco, Francia e Inghilterra, pensano che gli equilibri europei si siano definitivamente assestati mentre di natura ben diversa è la valutazione alla quale perviene, per bocca di Stalin, l'URSS. Su questo torneremo dettagliatamente più avanti. Torniamo a Francia e Inghilterra. Per entrambi, Monaco, può considerarsi, e qua ancora una volta si mostra come il tragico si trasformi velocemente in comico, una vittoria poiché, e dal loro punto di vista è la cosa essenziale, ha tagliato fuori l'URSS dagli scenari diplomatici-strategici internazionali. Ciò va tenuto costantemente a mente poiché, per le “democrazie occidentali”, a essere percepito come il vero problema e l’autentico nemico non è tanto il nazismo, quanto l'URSS, il movimento operaio e comunista internazionale e i popoli che, come in Cina, stanno combattendo una guerra di liberazione nazionale antimperialista. Con la stessa ottica, a conti fatti, Francia e Inghilterra affrontano il nodo polacco pur sapendo che, questa volta, ben difficilmente il conflitto potrà rimanere localmente circoscritto.

Incalzate sia dall'opinione pubblica interna, una parte della quale comincia a intuire che le mire germaniche puntano al dominio dell'intera Europa e che, pertanto, l'URSS deve essere un interlocutore privilegiato al fine della messa a punto di una strategia militare di sicurezza internazionale, sia dalla persistente iniziativa diplomatica sovietica che sollecita senza sosta le “democrazie occidentali” alla costituzione di un fronte militare antinazista, i governi anglo/francesi riprendono tenue trattative con i sovietici. Trattative che, come vedremo tra breve, sembrano avere più lo scopo di accontentare gli oppositori e l'opinione pubblica del proprio paese, la quale inizia a coltivare più che un dubbio sulla sensatezza della linea di condotta perseguita dai propri governi, piuttosto che giungere ad accordi chiari e stringenti con l'URSS. Di ciò se ne ha ampia conferma ricordando gli eventi che si svolgono tra il 12 e il 21 agosto 1939. Dopo numerosi tentennamenti i governi di Francia e Inghilterra accettano di inviare a Mosca una missione diplomatico-militare . Si tratta, però, di una missione priva di qualunque mandato ossia gli uomini che la compongono, tra l'altro di basso profilo politico, diplomatico e militare, non sono autorizzati ad assumersi alcun impegno. A conti fatti si tratta di una semplice “missione esplorativa”. Mentre lo stato sovietico, per bocca della sua più alta autorità militare, il maresciallo Voroscilov, espone dettagliatamente il modo in cui l'Armata rossa si accinge a entrare nel conflitto e fornisce dati inequivocabili: 136 divisioni, 5.000 cannoni, 10.000 tanks, 5.000 aerei oltre a un numero cospicuo di carri armati dei quali, però, non è fornito il numero, i rappresentanti di Francia e Inghilterra non sono in grado di mettere sul piatto nulla. L'Inghilterra, candidamente, ammette di non avere praticamente esercito di terra da impiegare, al massimo è in grado di mobilitare 5 divisioni, mentre il rappresentante francese temporeggia asserendo di non essere autorizzato a svelare i piani militari della Francia. In questo clima surreale i colloqui si protraggono per altri nove giorni nel corso dei quali, il governo sovietico, chiede che Francia e Inghilterra convincano almeno la Polonia, in caso di attacco nazista, a far entrare in sua difesa l'esercito sovietico. Il 20 agosto il governo polacco, non particolarmente sollecitato da Francia e Inghilterra, respinse anche questa offerta; il giorno dopo, senza un nulla di fatto, francesi e inglesi ritornarono a Parigi e a Londra [73]. Il primo settembre, alle ore 4.45, le truppe tedesche penetrano in Polonia. Esattamente ventotto giorni dopo i resti dell'armata polacca si arrendono. L'ultima e irriducibile resistenza polacca, concentrarsi nella penisola di Hela, viene definitivamente spenta il 30 ottobre. La Seconda guerra mondiale era iniziata.

Di lì a poco le “democrazie occidentali” furono poste sotto scacco dall'imperialismo tedesco. Per altro verso, in Estremo Oriente, le cose non andarono molto diversamente. Nei confronti dell'intraprendenza giapponese, le “democrazie occidentali” non dimostrarono meno arrendevolezza. Non mossero un dito quando questi iniziò le sue operazioni militari nel Nord della Cina e quando, poco dopo, iniziò a puntare in altre direzioni, ripiegarono senza colpo ferire. Così Shanghai, cuore del capitale straniero in Cina, passò in mano al Giappone. A una sorte analoga andò incontro Canton, centro strategico dell'imperialismo inglese nella Cina meridionale con conseguente accerchiamento di Hong - Kong. Poco dopo Hainan fu ceduta ai giapponesi. Abbiamo riportato questa sintesi storica perché la riteniamo particolarmente utile ai nostri fini. Cosa emerge principalmente dalla pur breve esposizione degli eventi che hanno fatto da incipit alla Seconda guerra mondiale? Una cosa: la sostanziale cecità delle “democrazie occidentali”. Dobbiamo chiederci da dove derivi simile palese dabbenaggine. La spiegazione, alla quale approdano anche storici di valore come Roberto Battaglia, che individuano, come si ricava dal testo che riportiamo di seguito, l'origine dell'arrendevolezza dei governi occidentali negli interessi comuni coltivati da alcuni circoli industriali-finanziari delle “democrazie occidentali” con il nazismo, appare piuttosto dubbia.

“Se Hitler ha tanta fiducia di poter risolvere la questione dell'Austria “pacificamente” non è certamente perché egli sia convinto sul serio dell'entusiasmo del popolo austriaco per tale soluzione, né perché egli si affidi esclusivamente all'opera dei suoi agenti oltre frontiera. Egli sa benissimo che le condizioni del successo in Austria sono già assicurate da un fatto preliminare e determinante: dal fatto che la grande borghesia austriaca ha già da tempo costituito il suo Anschluss economico con quella tedesca, che già s'è allineata fino a tal punto a fianco di quest'ultima da rendere pressoché impossibile distinguere dove finiscano gli interessi dell'una e dove cominciano quelli dell'altra”. [74]

Sicuramente i nazisti potevano vantare entrature non secondarie tra gli uomini politici e i circoli imperialisti di numerosi paesi europei ma, ed è questo il punto, occorre comprendere l'origine di tale entratura. Prendiamo l'Inghilterra, il paese che, con la sua linea di condotta negli anni tra le due guerre, ha facilitato non poco la politica nazista. Anche in questo caso la tesi della comunanza di intenti tra borghesia imperialista britannica e imperialismo germanico non è molto convincente:

“In realtà la posta in palio è più grossa poiché dietro alla crisi governativa (quella verificatasi tra il Primo ministro Chamberlain, favorevole a una politica di accomodamento con la Germania, e il suo ministro degli esteri Eden, fautore di una linea intransigente verso l'espansionismo nazista ndr.) premono gli interessi del “gruppo Cliveden”, il gruppo più reazionario della vita politica inglese che ha nello stesso Chamberlain uno dei maggiori esponenti. Il gruppo – che deriva il suo nome dalla residenza estiva dei magnati filonazisti Astor – cela sotto la maschera del “pacifismo” e del compromesso con la Germania la fitta rete d'interessi economici che lo collega all'industria tedesca, per il fatto preciso che molti dei suoi uomini siedono fianco a fianco con gli esponenti del III Reich nei consigli d'amministrazione.

Perciò la sua vittoria e il suo controllo incondizionato del governo, significa qualche cosa di più d'un semplice mutamento di politica interna inglese: significa che da quel momento in poi Hitler avrà anche oltre Manica dei fedeli alleati, che la classe dirigente in Europa avrà avuto un diverso “assestamento”, infinitamente più favorevole all'espansione del III Reich proprio nel paese in cui appaiono più forti e solide le istituzioni della democrazia parlamentare” [75]

Sicuramente il “gruppo Cliveden” ha influenzato pesantemente la morbidezza governativa nei confronti della Germania. Questo è un fatto. Ma all'origine di ciò vi era la comunanza di interessi del medesimo campo imperialista, il che avrebbe comportato un'alleanza strategica tra imperialismo britannico e imperialismo germanico, oppure, più realisticamente, gran parte della borghesia imperialista inglese favorì il nazismo, non diversamente da quella francese, belga e olandese perché consideravano come vero nemico l'URSS e individuavano nella Germania nazista uno strumento da usare contro il Paese dei Soviet e il movimento operaio e comunista internazionale? Le “democrazie occidentali” avevano concettualmente chiara l'idea del conflitto interimperialistico? Non pensavano, invece, di usare a loro vantaggio il nazifascismo e il militarismo giapponese spingendoli in direzione dell'URSS? Questa ipotesi, e non la comunanza di interessi, sta alla base della politica di appeasement coltivata dalle maggiori potenze europee verso il nazismo . Le “democrazie occidentali” avevano messo a fuoco il fatto che la posta in palio dei giovani imperialismi apparsi sulla scena internazionale non poteva che avere l'obiettivo di scalzare proprio le loro postazioni di forza e di dominio? No, di questo non avevano alcun sentore. In fondo per le “democrazie occidentali” Hitler e i nazismo erano elementi forse irrequieti ma pur sempre stabilizzatori e tranquillizzanti. Del resto, negli anni a ridosso dello scoppio del secondo conflitto mondiale, quale borghesia non avrebbe sottoscritto le parole di Hitler:

“La Germania ha fatto quanto era in suo potere per assicurare la pace nel mondo. Se l'Europa dovesse essere travolta da una guerra, ciò accadrà per colpa del caos comunista” (L. S. Diario pag. 13) [76]

o ancora:

“Soltanto i pigmei privi di cervello non riescono a capire che la Germania è stata la diga che ha contenuto la marea comunista, marea che avrebbe sommerso l'Europa e la sua cultura.” (idem) [77].

Nel corso degli anni '30 nessuna classe dirigente europea ipotizzò neppure alla lontana che, a breve, le armate naziste sarebbero sfilate tra le vie delle proprie città, si sarebbero impossessati di tutte le risorse economiche e finanziarie delle loro nazioni e, per farlo, come nel caso dell'Inghilterra gli avrebbero raso al suolo, attraverso i bombardamenti aerei, intere città. Nessuna classe dirigente europea allora paventò di arrivare al punto di potersi, nel caso migliore, ritagliarsi uno spazio come un “Quisling” qualunque, oppure diventare, nel caso Hitler avesse deciso di essere particolarmente magnanimo, un clone del governo Vichy. Nessuna di esse preventivò il rischio di cessare di esistere quale potenza imperialista autonoma a causa dell’attacco e della vittoria nazista. Questa incomprensione è alla base della loro disfatta.

Prima di proseguire fermiamoci a osservare ciò che avviene nel campo opposto all'imperialismo ovvero in Unione Sovietica e nell'Internazionale comunista. Per farlo riportiamo alcuni brani tratti dagli interventi dei principali rappresentanti del movimento comunista: Dimitrov, Togliatti e Stalin.

Partiamo dall'intervento di Stalin al XVIII Congresso del partito.

“Ecco gli avvenimenti più importanti del periodo considerato, che hanno segnato l'inizio della nuova guerra imperialista. Nel 1935 l'Italia ha aggredito l'Abissinia e l'ha conquistata. Nell'estate del 1936, la Germania e l'Italia hanno intrapreso un intervento militare in Spagna, durante il quale la Germania si è installata nel Nord della Spagna e nel Marocco spagnolo, e l'Italia nel sud della Spagna e nelle isole Baleari. Nel 1937, il Giappone, dopo essersi impadronito della Manciuria, ha invaso la Cina settentrionale e centrale, ha occupato Pechino, Tientsin, Shanghai e ha cominciato a cacciare dalle zone occupate i propri concorrenti stranieri. All'inizio del 1938, la Germania si è impadronita dell'Austria e, nell'autunno del 1938, della regione dei Sudeti in Cecoslovacchia. Alla fine del 1938, il Giappone si impadronì di Canton e, all'inizio del 1939, dell'isola di Hainan.

In tal modo la guerra, avvicinatasi ai popoli in modo così inosservato, ha coinvolto nella sua orbita oltre 500 milioni di uomini, estendendo la sfera della propria azione a un territorio immenso, da Tientsin, Shanghai e Canton, attraverso l'Abissinia, fino a Gibilterra. Dopo la prima guerra imperialista gli Stati vincitori, soprattutto l'Inghilterra, la Francia e gli Stati Uniti d'America, avevano creato un nuovo regime di rapporti tra i paesi, il regime di sicurezza del dopoguerra. Questo regime aveva per basi principali, in Estremo Oriente, il trattato delle nove potenze e, in Europa, il trattato di Versailles e un'intera serie di altri trattati. La Società delle Nazioni era chiamata a regolare le relazioni tra i paesi nel quadro di questo regime, sulla base di un fronte unico degli Stati, sulla base della difesa collettiva della sicurezza degli Stati. Tuttavia i tre Stati aggressori e la nuova guerra imperialista da essi scatenata hanno rovesciato da cima a fondo tutto questo sistema del regime di pace del dopoguerra. Il Giappone ha fatto a pezzi il trattato delle nove potenze; la Germania e l'Italia hanno fatto a pezzi il trattato di Versailles. Per avere le mani libere, tutti e tre questi Stati, sono usciti dalla Società delle Nazioni.” La nuova guerra imperialista è diventato un fatto". [78]

Siamo nel marzo del 1939, tutti i dati esposti da Stalin sono ampiamente noti. Questi stessi dati sono tra le mani di tutti gli uomini politici del mondo, dei loro generali e apparati diplomatici. Inoltre è lecito supporre che, accanto a questi dati di dominio pubblico, tutti i governi dispongano di un certo numero di informazioni riservate forniti loro dalle intelligence. Dati che, pare lecito sostenerlo, avrebbero dovuto colorare in maniera ancora più fosca il quadro politico internazionale. Ma, mentre in Stalin, la concatenazione degli eventi ricordati lo porta a sostenere senza tentennamenti che la nuova guerra mondiale è già iniziata, gli uomini politici delle “democrazie occidentali” li considerano episodi a sé ognuno dei quali ha una “particolare” origine e uno “specifico” fine e, soprattutto, privi di alcun legame tra loro. Ogni episodio è affrontato come una storia a sé. Nessuno è in grado di cogliere l'insieme di questi fatti. Costoro vedono i singoli conflitti localmente distribuiti, nessuno percepisce il conflitto nella sua complessità. Soprattutto nessun esponente politico delle “democrazie occidentali” sembra sentirsi direttamente coinvolto in ciò che si va, ogni giorno che passa, delineando all'orizzonte. Per questo diventa ancor più interessante e utile ascoltare Dimitrov e il suo discorso pronunciato nel marzo del 1936.

“Sarebbe inesatto pensare che la guerra che sta per scoppiare minacci soltanto l'Unione Sovietica o che in prima linea minacci l'Unione Sovietica. È un fatto che l'occupazione della Renania da parte dell'esercito hitleriano rappresenta un'immediata minaccia per la Francia, il Belgio e gli altri paesi europei. È pure un fatto che i prossimi piani di conquista di Hitler mirano ad asportare dei territori agli stati confinanti in cui si trovano dei gruppi etnici tedeschi. Se Hitler parla oggi di sovranità della Germania, egli parlerà domani della sovranità di tutti i Tedeschi. Sotto questa parola d'ordine egli cercherà di realizzare l'annessione dell'Austria, la distruzione della Cecoslovacchia come stato indipendente, la conquista dell'Alsazia-Lorena, di Danzica, della parte meridionale della Danimarca, di Memel, ecc. E tutto ciò è ben comprensibile: è infatti molto più facile per il fascismo tedesco mandare un esercito, in primo luogo, alla conquista di territori degli stati confinanti, sotto la parola d'ordine dell'unione nazionale di tutti i Tedeschi. Successivamente questo esercito marcerà contro il potente Stato sovietico. Il fascismo germanico, rafforzandosi sul Reno, minaccia anche l'indipendenza del popolo polacco, prescindendo dal fatto che gli attuali governanti della Polonia si trovano con esso in posizione di alleati. Per quel che riguarda l'Estremo Oriente, è cosa indiscutibile che l'attacco colpisce direttamente il popolo cinese, per quanto i guerrafondai fascisti del Giappone preparino la guerra anche contro l'Unione Sovietica ed abbiano stipulato all'uopo un accordo con Berlino. Il Giappone ha già occupato la Manciuria e ora va conquistando l'una dopo l'altra le provincie della Cina. L'imperialismo giapponese mira ad assoggettare tutti i popoli dell'Asia, l'India compresa, a conquistare le Filippine e l'Australia. Esso si prepara a una lotta decisiva contro gli Stati Uniti d'America e la Gran Bretagna. Perciò è evidente che i popoli occidentali commetterebbero un errore mortale se si cullassero nell'illusione che gli istigatori di guerra fascisti in Europa e nell'Estremo Oriente non costituiscono una minaccia anche per loro. Soprattutto i popoli confinanti con la Germania devono pensare seriamente a difendere la loro indipendenza e libertà.” [79]

Le parole di Dimitrov non hanno bisogno di un qualche commento. Siamo nel marzo del 1936 e, almeno per quanto riguarda la Germania, in concreto non vi è altro che l'azione in Renania al quale va sicuramente aggiunto, perché ha rappresentato l'incipit della politica internazionale nazista, il plebiscito della Saar del 1935. Da questi “semplici” episodi, che tutte le potenze occidentali considerano pari a un eccesso di esuberanza da parte del giovane regime tedesco, Dimitrov descrive con impressionante lucidità tutti i passi successivi del regime hitleriano. In particolare, mentre le “democrazie occidentali” considerano, con un certo grado di benevolenza, il nazismo per la sua obiettiva funzione antibolscevica, Dimitrov le avverte che, proprio in quanto potenza imperialista, la Germania nazista, insieme al Giappone, non potrà che entrare velocemente in conflitto con loro. Francia, Inghilterra e Stati Uniti sono già entrate nel mirino degli imperialismi emergenti. Quanto lucida e anticipatrice si mostrerà tale analisi pochi anni dopo sarà evidente a tutti. Di ciò ne abbiamo un'ulteriore riprova per bocca di Togliatti che già nel 1935, nel suo rapporto al VII Congresso dell'Internazionale comunista, evidenziava con estrema lucidità la ben poco tranquillizzante scena della situazione politica internazionale:

“Del sistema di Versailles non restano oggi in piedi altro che le frontiere europee del dopoguerra e la ripartizione delle colonie e dei mandati coloniali, vale a dire non resta in piedi se non ciò che può esser distrutto soltanto dalla forza delle armi, con i mezzi della violenza e della guerra. D'altra parte, non resta più nulla del trattato di Washington. Le clausole di questi trattati, che concernevano i rapporti di forza tra le grandi potenze marittime, sono state denunciate e hanno ceduto il posto a una corsa sfrenata agli armamenti navali. Per quanto concerne la Cina, gli eserciti degli imperialisti giapponesi, che hanno invaso e occupato la Manciuria e la Cina del nord senza preoccuparsi delle proteste di Ginevra e dei pacifisti e che continuano con la loro marcia verso l'occupazione di tutto il territorio cinese, hanno calpestato anche le ultime vestigia degli accordi di Washington.” [80]

A partire da questa visione d'insieme Togliatti giunge immediatamente al sodo osservando quali sono le potenze che stanno preparando la guerra e quali fini si propongono. L'imperialismo nipponico è immediatamente individuato come l'imperialismo che da più tempo si sta attrezzando a una guerra su scala internazionale:

“La potenza imperialista più aggressiva, che prepara febbrilmente la guerra, è il Giappone. Fin dal 1931 la cricca militare che governa il Giappone ha iniziato il rimaneggiamento della carta del mondo con la forza delle armi. Dopo aver occupato militarmente la Manciuria, l'imperialismo giapponese è passato all'occupazione della Cina del nord, e manifesta l'intenzione di istituire un suo protettorato su tutta la Cina. Oggi l'imperialismo giapponese si prepara a continuare la marcia verso il centro della Cina, aiutato dai suoi agenti del Kuomintang, traditori del popolo cinese e della sua lotta per l'indipendenza. Lo scopo che il Giappone imperialista persegue e che è confessato, apertamente confessato, dai suoi uomini di Stato è l'egemonia giapponese non soltanto in Estremo Oriente, ma in tutta l'Asia orientale e sulle coste occidentali dell'oceano Pacifico. Per raggiungere questo scopo, il Giappone ha bisogno innanzi tutto di crearsi una base di materie prime per l'industria pesante che ora gli manca e che pensa di procurarsi impadronendosi con la violenza dell'Estremo Oriente sovietico e delle più ricche province cinesi. La guerra contro l'Unione Sovietica si presenta dunque ai militaristi giapponesi come la prima tappa per l'egemonia giapponese nell'oceano Pacifico.” [81]

Non meno intrise di realismo sono le osservazioni relative alla Germania e all'avvento del fascismo in Europa:

“La vittoria del fascismo in Germania e in parecchi altri paesi d'Europa e l'avanzata generale del fascismo è il terzo fatto nuovo che contribuisce a determinare la situazione internazionale. L'avanzata del fascismo è la risposta brutale del capitalismo in putrefazione al trionfo del socialismo nel paese della dittatura del proletariato. Esso procede di pari passo con l'estremo acutizzarsi della lotta di classe e, per conseguenza, con l'estremo aggravarsi del pericolo di guerra. Il compagno Stalin ha richiamato più volte la nostra attenzione sul fatto che la dittatura fascista è una forma di organizzazione del retrofronte della borghesia per una nuova guerra. La dittatura fascista è direttamente legata alla preparazione della guerra. L'instaurazione della dittatura fascista dà alla preparazione della nuova guerra imperialista un'impronta e una direzione particolari. L'avanzata del fascismo è una delle forme più evidenti dello slittamento del mondo capitalistico verso una nuova guerra mondiale.” [82]

Ancora più interessante diventa la puntuale analisi della politica estera nazionalsocialista. In poche battute è colto il cuore strategico, che in gran parte di lì a poco i nazisti realizzeranno, del progetto imperialista germanico. Un progetto che, ed è ciò che sfugge per intero alle Cancellerie europee, le vedrà coinvolte in prima persona:

“L'accordo con la Polonia ha servito da trampolino al nazionalsocialismo tedesco per estendere la rete dei suoi intrighi. Questo accordo ha avuto come conseguenza diretta un aggravamento delle minacce contro la frontiera cecoslovacca e contro l'indipendenza della Cecoslovacchia, ha reso più aggressivo il nazionalsocialismo tedesco nella sua lotta per mettere fine all'indipendenza dei paesi baltici, ha inasprito all'estremo la questione austriaca. Dopo aver distrutto l'alleanza franco-polacca il nazionalsocialismo vuol giungere a disgregare la Piccola Intesa e a sostituirle nell'Europa centrale un nuovo blocco di potenze fasciste, l'asse del quale dovrebbe essere formato dalla Polonia, dalla Ungheria e dalla Bulgaria. I nazionalsocialisti tedeschi promettono alla Jugoslavia una parte dei territori austriaci e tentano in questo modo di attrarre anch'essa in questo blocco, così come si sforzano di modificare l'orientamento della politica estera della Romania” [83]

Sul momento nessuna “democrazia occidentale” però prese minimamente in considerazione il realismo e l'obiettività di queste argomentazioni. Tra lo “stato maggiore” comunista e gli stati maggiori delle democrazie borghesi imperialiste le valutazioni sulla Renania, e in seguito su tutti le altre “forzature” tedesche, italiane e giapponesi, si fecero sempre più distanti. Eppure, per il movimento comunista, il corso delle cose si era già ben delineato da tempo. Sotto tale aspetto l'ultimo brano che riportiamo è quanto mai esplicativo. A pronunciarlo è ancora Stalin, siamo nel 1934.

“Come risultato di questa prolungata crisi economica, si è avuto un aggravamento, finora senza precedenti, della situazione politica dei paesi capitalistici, tanto all'interno di questi paesi che nei rapporti fra l'uno e l'altro. Il rafforzamento della lotta per i mercati esteri, la distruzione degli ultimi residui del libero commercio, i dazi doganali, la guerra commerciale, la guerra monetaria, il dumping e molte altre misure analoghe che rivelano un nazionalismo estremo nella politica economica, hanno inasprito al massimo grado i rapporti fra i vari paesi, hanno creato la base dei conflitti militari e hanno posto all'ordine del giorno la guerra come mezzo per una nuova spartizione del mondo e delle sfere di influenza a profitto degli Stati più forti. La guerra del Giappone contro la Cina, l'occupazione della Manciuria, l'uscita del Giappone dalla Società delle Nazioni e la sua avanzata nella Cina del Nord hanno resa ancora più tesa la situazione. L'accentuarsi della lotta per il Pacifico e l'aumento degli armamenti militari e navali nel Giappone, negli Stati Uniti, nell'Inghilterra e nella Francia, sono il risultato di questo aggravamento. L'uscita della Germania dalla Società delle Nazioni e lo spettro della rivincita hanno dato un nuovo impulso all'inasprirsi della situazione e all'incremento degli armamenti in Europa. Non c'è da stupirsi se il pacifismo borghese vivacchia oggi miserevolmente e se alle chiacchiere sul disarmo vengono sostituite delle conversazioni “realistiche” in vista dell'armamento e del riarmo.

Di nuovo, come nel 1914, si presentano in primo piano i partiti dell'imperialismo guerrafondaio, i partiti della guerra e della rivincita. E’ chiaro che si va verso una nuova guerra” [84]

Ciò che, in poche battute, Stalin pone all'ordine del giorno è l'oggettiva tendenza alla guerra propria dell'imperialismo e della crisi a cui è pervenuto. Sullo sfondo vi è la grande crisi del 1929, crisi che, con dovizia di particolari, Stalin affronta per intero nel corso del suo intervento al XVII Congresso del partito sovietico. Stalin, passando dall'astratto al concreto, non si limita a delineare la relazione crisi-guerra ma, a partire da ciò, individua con precisione le forze e le potenze che non possono far altro che preparare la guerra. Senza indugi Germania e Giappone vengono identificate come il concreto entro il quale la tendenza oggettiva alla guerra è destinata a prendere forma. A conti fatti, cinque anni prima che il mondo deflagrasse, il movimento comunista ha correttamente ipotizzato il delinearsi del corso storico. Al contrario, nel mondo borghese, di tutto ciò non vi è traccia. Dobbiamo domandarcene il motivo. Dobbiamo domandarci cioè se Dimitrov , Stalin e Togliatti furono in grado di anticipare il corso degli eventi storici in virtù della loro genialità, mentre la distribuzione dei geni era stata particolarmente avara con la borghesia, oppure la loro “genialità” poggiava su qualche altra cosa e, in questo caso, di che cosa si trattasse. Senza troppi parole è possibile dire che il vantaggio che Dimitrov, Stalin e Togliatti potevano vantare sul personale politico della borghesia fosse “semplicemente” l'avere dalla loro la scienza marxista. Qua dobbiamo aprire un inciso. Dobbiamo, cioè, tornare al punto d'approdo della filosofia classica borghese della sua grandezza ma anche dei suoi limiti [85]. Dobbiamo “ricordarci” che, in quanto classe storica parziale, la borghesia non è in grado di appropriarsi della totalità [86]. Da questo limite non è in grado di emanciparsi indipendentemente dalla bravura intellettuale dei suoi teorici. Per di più, ed è un altro aspetto che non va mai ignorato, la borghesia non può che seguire un iter storico che la porta da classe progressiva a classe reazionaria. Di questo non può che risentirne anche l’ambito della filosofia e della teoria politica [87]. Nel momento in cui, all’incirca nella prima metà dell’800, la borghesia inizia a perdere il suo tratto progressivo fino ad esaurirlo del tutto con l’avvento dell’era imperialista, il suo pensiero non può che regredire. Alla scala della storia nessun uomo politico borghese è stato più in grado di elevarsi alle vette di Robespierre, nessun militare al genio di Napoleone, nessun filosofo ai livelli di Hegel. A imbrigliare il pensiero politico-teorico della borghesia è un limite storico, oggettivo non una incapacità soggettiva. La borghesia non manca di uomini intelligenti ma questa intelligenza non può rompere la “gabbia d’acciaio” nella quale la storia l’ha rinchiusa. È il marxismo a rompere questo limite ma, per l’appunto, il marxismo è la scienza del proletariato. Solo in ciò è racchiusa la genialità di Dimitrov, Stalin e Togliatti.

Tornando alle vicende degli anni '30 del secolo scorso, ridotte all'osso, la differenza sostanziale tra i dirigente del movimento comunista e gli uomini politici delle “democrazie occidentali” sta nel fatto che questi ultimi videro gli alberi senza scorgere la foresta. Gli mancò, cioè, quella visione di insieme che, al contrario, rappresentava il presupposto stesso della base analitica di Dimitrov, Stalin e Togliatti. Inoltre per le “democrazie occidentali”, come si è detto, il vero nemico, più che il nazifascismo, era l'URSS. Oggi, in qualche modo e con tutte le tare del caso, si sta riproponendo uno scenario non dissimile.

 

Il nemico alle porte

Le “democrazie occidentali” più che le forze fondamentaliste sembrano interessate a combattere contro la Russia. I “fatti ucraini”, sotto questo aspetto, non hanno bisogno di troppi commenti. L'alleanza coltivata dalle “democrazie occidentali” con i nazisti ucraini in funzione anti-russa sembra far riemergere l'incubo dello scenario spagnolo del 1936. Senza, per altro, dimenticare l'appoggio fornito, in un recente passato alla guerriglia cecena e ai suoi miliziani molti dei quali, una volta sconfitti in patria, sono finiti a ingrossare le fila del terrorismo islamista [88]. In Siria, inoltre, ogni giorno la possibilità che si giunga a un qualche “incidente” dalle conseguenze irreparabili tra le diverse forze militari occidentali e i soldati russi non è una semplice ipotesi di scuola. Ma perché la Russia, in maniera persino ossessiva, è diventata l'obiettivo principale di gran parte dei gruppi imperialisti? Contro di lei sono infatti schierati gli Stati Uniti e i suoi più stretti alleati, tutti i potentati arabo-sunniti, la UE, anche se con alcuni distinguo al suo interno. Perché tanta avversione verso la Russia? Perché, per i vari blocchi imperialisti, la Russia deve essere rimossa? Perché contro la Russia sono mobilitate tutte le forze possibili, basti pensare all'ultimo Nobel per la letteratura, la cui prima dichiarazione dopo il premio è stata una non celata accusa verso il governo russo [89] o a uno scrittore di fama internazionale come Daniel Silva, i cui libri vantano tirature da milioni di copie, il quale riesce a rendere corresponsabili lo “zar Putin” e il “macellaio di Damasco” (Assad) addirittura complici del furto di un Caravaggio [90]? Perché una propaganda anti-Russia costante e a trecentosessanta gradi fino ad arrivare, come riportano con non poco afflato tutte le testate giornalistiche internazionali, a ipotizzare l'esclusione della Russia alle prossime Olimpiadi poiché i suoi atleti sarebbero oggetto del “doping di stato” ? Che cos'è la Russia?

Partiamo con il rispondere a quest'ultima domanda. La Russia è un regime nazionale-borghese, fortemente autoritario, sicuramente più vicino a Termidoro e Bonaparte, piuttosto che a Marat o Robespierre. A pelle è difficile nutrire troppe simpatie per Putin e il gruppo dirigente che esercita il potere in Russia. Tuttavia non è questo il punto. Ciò che realmente conta è il ruolo oggettivo e la funzione che un determinato governo in una situazione storica determinata obiettivamente assolve. Churchill o De Gaulle, tanto per ricordare esempi non proprio irrilevanti, non erano certo, sotto l'aspetto soggettivo, personalità politiche progressiste, le simpatie di Churchill per Mussolini non erano, tra l'altro, neppure un mistero, eppure nessuno sano di mente potrebbe negare la funzione oggettivamente democratica e progressiva svolta da questi due conservatori. Ed è esattamente ciò che, sul piano storico-politico, deve essere esclusivamente preso in considerazione. Sotto tale profilo, allora, non si può che rilevare il ruolo progressivo che la Russia, forse suo malgrado, finisce attualmente con l'incarnare. Dobbiamo, cioè, osservare la funzione che la Russia attuale gioca in rapporto all'imperialismo. Questo è ciò che conta. Facciamo un passo indietro, ripensiamo al crollo dell'URSS e allo scenario che, immediatamente dopo, si è delineato per le nazioni che facevano parte del “blocco sovietico”. Ciò che immediatamente le forze imperialiste si prefigurarono era una colonizzazione di quei territori. Un progetto che sembrava potersi realizzare senza troppa fatica e che, in parte, è sicuramente riuscito. Sono stati soprattutto gli Stati Uniti ad avere buona sorte in tale progetto. Oggi, infatti, gran parte degli stati un tempo appartenenti al “Patto di Varsavia” sono ridotti a vassalli della potenza statunitense. Il fanatismo pro-Nato [91] dei governi instauratisi in molti paesi dell’Est Europa dopo la fine dei governi comunisti, è cosa sin troppo nota, così come, paradigmatico quanto sta accadendo in relazione alla “questione profughi”, dove il riaffiorare in molti di questi paesi di politiche apertamente naziste mostra come il dissolversi del “blocco sovietico” non sia stato altro che la vittoria sul piano internazionale delle forze più reazionarie e antidemocratiche presenti tra le consorterie imperialiste internazionali. Dall'Ungheria, alla Bulgaria, dalla Polonia all'Ucraina oggi a unificare le classi dominanti, più che il richiamo a una cultura e a una tradizione nazionale, sono le retoriche filonaziste coltivate tra gli anni '30 e '40 del secolo scorso. In questi paesi “democrazie occidentali” e “fascismi locali” marciano di comune accordo.

Anche in Russia, almeno all'inizio, le cose sembravano andare nella giusta direzione. Durante l'epoca Eltsin, una sorta di “Quisling all'americana”, la svendita e la colonizzazione dell'intera ricchezza dell'ex Unione Sovietica sembrava cosa fatta [92]. Con Eltsin la Russia, come nazione, stava cessando di esistere. È in tale scenario, che è bene tenere sempre a mente, che la borghesia nazionale (e nazionalista) russa, della quale Putin ne è la cristallizzazione politica, passa al contrattacco e vince. Sotto la guida di questa borghesia la Russia riacquista la sua dimensione nazionale e diventa uno stato sovrano a tutti gli effetti. Il processo di colonizzazione è prima bloccato, quindi arginato e liquidato. La borghesia russa non ha e non vuole padroni. Da animale morente pronto a essere trasformato in boccone piuttosto ghiotto, la Russia è ritornata a essere l'orso che, come per gran parte della sua storia, è stato il grande punto interrogativo per tutto l'occidente. E di questo punto interrogativo, l'attuale leadership russa, ne è l'emblema a tutti gli effetti. Rimandiamo a un altro momento una più accurata disamina della questione, limitandoci a riportare in nota alcune linee guida del problema [93], anche perché, ai fini dell’attuale testo pare sensato focalizzare l’attenzione su di un altro aspetto.

A nostro avviso ciò che va sottolineato nel contesto, il suo aspetto veramente centrale, è il fatto che la Russia sia il solo stato governato da una borghesia nazionale in grado di reggere botta, sul piano militare, alle potenze imperialiste. Ciò rischia di scompaginare per intero il punto d'approdo del pensiero strategico imperialista. Questa linea di pensiero, e la cosa sembrava quanto mai realistica osservando gli scenari di guerra delineatisi a partire dalla Prima guerra del Golfo del 1991, ha ipotizzato una guerra dove la dimensione industriale e di massa veniva posta definitivamente in archivio: venuto meno il conflitto tra i blocchi, la guerra, per le potenze imperialiste, sarebbe diventata qualcosa che riguardava solo gli specialisti [94]. Perciò, viste le modalità assunte dalla forma-guerra, le popolazioni dei paesi imperialisti non si sarebbero neppure più accorte che i loro governi fossero impegnati in un conflitto. A combattere, per gli eserciti statuali, sarebbero stati solo professionisti e volontari o soldati appartenenti a una qualche agenzia privata. I famigerati contractor o, più prosaicamente, i nuovi mercenari [95]. Questa prospettiva strategica escludeva il coinvolgimento diretto delle popolazioni dei paesi imperialisti nelle operazioni militari. Nessun cittadino occidentale, nel contesto della fase imperialista globale, ovvero qualcuno costretto attraverso la leva obbligatoria, avrebbe più corso il rischio di tornare a casa avvolto nel classico “sacco nero”. Nessuna madre, zia, fidanzata ecc. avrebbe più potuto chiedere conto di quella morte, non voluta, ai governi. Tra esercito e nazione, secondo questa prospettiva, non esisteva più alcuna relazione. I morti in guerra, tra l'altro abbastanza rari, d’ora in avanti sarebbero stati solo i professionisti, coloro che scelgono deliberatamente il mestiere del soldato e, con questo, tutti i rischi correlati. Nel caso dei mercenari gran parte dei quali, specialmente i meno professionalizzati (la fanteria del XXI secolo), non appartengono al mondo occidentale, il problema non si sarebbe neppure posto. Dunque, secondo la visione strategica affermatasi con la guerra fredda nelle potenze occidentali, la guerra era tornata, definitivamente, ad essere, come prima della Grande rivoluzione, un affare privato tra i governi [96]. Tutto ciò veniva reso possibile dalla sproporzione tecnica esistente tra le forze combattenti imperialiste e gli eserciti dei paesi aggrediti. Basti pensare alla potenza di fuoco degli Scud in dotazione alle forze armate irachene, 300 Km di gittata, di scarsa precisione e dotati di una testata di 1.000 Kg rispetto ai missili da crociera statunitensi i quali, oltre ad avere una precisione pressoché assoluta, una carica esplosiva incommensurabilmente più potente (possono essere armati anche con ordigni nucleari), hanno una gittata di circa 1.500 Km, per non dire dei missili intercontinentali il cui uso parsimonioso è dovuto unicamente ai costi. Tale prospettiva è stata confermata anche nel caso dell’aggressione alla Libia di Gheddafi. Nel momento in cui le forze occidentali sono entrate apertamente nel conflitto, l'apparato di difesa libico, neppure troppo arretrato, è stato polverizzato. In pochi giorni tutte le infrastrutture legate alla logistica, alle comunicazioni e alla difesa aerea dello stato libico sono andate in frantumi. Da qui, l’annientamento dell’apparato bellico è stato un gioco da ragazzi. Supportate dal cielo le “forze ribelli” potevano avanzare liquidando velocemente ogni resistenza filogovernativa per quanto strenua potesse rivelarsi. Lo strapotere della tecnica rendeva, inoltre, la guerra non solo facile ma del tutto impalpabile tra le popolazioni dei governi imperialisti. Nessuna ricaduta concreta si riversava su di loro. Nonostante dal 1991 a oggi sia persino difficile tenere il conto delle guerre intraprese dai governi delle potenze occidentali, nessuna di queste ha inciso significativamente sullo stile di vita delle nostre popolazioni. Questo non solo perché missili, aerei, carri armati e colpi di artiglieria non ci hanno sfiorato ma anche perché nessuna massiccia riconversione produttiva in funzione della guerra si è resa necessaria. Nel corso della Seconda guerra mondiale la gran massa della popolazione americana non è mai stata sfiorata dagli eventi bellici sul proprio territorio ma non per questo la guerra le è rimasta, nella vita di tutti i giorni, estranea. In parte perché i soldati erano al fronte ma, ancor più, perché l'insieme della macchina produttiva statunitense era stata riconvertita in funzione dello sforzo bellico. Basti pensare, solo perché si tratta del dato quantitativo più eclatante, alla “massa industriale” utilizzata per il D- Day. Gran parte delle circa 5.500 navi e degli 11.500 aerei, ai quali occorre aggiungere un numero imprecisato di mezzi da sbarco, carri armati, cannoni, munizioni ma anche vettovagliamento e tutto ciò che è utile a far vivere e combattere il soldato, apparso sulle coste della Normandia, proveniva dalla macchina produttiva americana [97]. La produzione di e per la guerra non poteva che coinvolgere gran parte della popolazione statunitense benché nessun aereo tedesco o giapponese potesse mai presentarsi minacciosamente sopra il loro cielo [98]. Scenari simili sono del tutto estranei alle vicende belliche consumatesi dal 1991 in poi tanto che, per il pensiero strategico occidentale la guerra nel suo significato “novecentesco”, come guerra di massa, ha cessato di esistere. Ciò trova una puntuale conferma nel modo stesso in cui i conflitti sono nominati. Operazione di polizia o operazione umanitaria, il modo con il quale sono state denominate le situazioni di conflitto recente, indicano esattamente la cornice concettuale che fa da sfondo all'impiego della forza nell'era contemporanea [99]. La questione fondamentali che si pone oggi è che la Russia sta facendo saltare tutto l’impianto del pensiero imperialista affermatosi con la fine della Guerra Fredda.

Quanto accaduto in Siria e subito dopo in Ucraina ne sono l'esemplificazione. L'intervento russo in Siria ha bloccato sul nascere l'intervento militare occidentale, così come in Ucraina, con la “operazione Crimea” e il sostegno alle Repubbliche popolari ha impedito che si consumasse il golpe ordito da Kiev su mandato europeo e statunitense. Perché le forze imperialiste hanno dovuto ripiegare? Per il semplice motivo che la Russia è in grado di controbilanciare la potenza tecnica da esse messa in campo. Palesemente diventa inutile lanciare un missile, se l'avversario è in grado di vederlo e attivare un conseguente mezzo di difesa tale da polverizzarlo. Inutile utilizzare gli aerei se l'avversario è in grado di abbatterli. In questo modo il risultato rimarrà sempre inchiodato sullo zero a zero. E questo, molto realisticamente, non in una singola partita ma per l'intero campionato. Il pareggio, però, non può essere la forma permanente in cui si ascrive il conflitto. Da quella situazione di stallo ad un certo punto occorrerà uscire. Ciò comporterà un'inevitabile crisi del modello concettuale elaborato dal pensiero strategico occidentale poiché, se la tecnologia si azzera, a combattere devono essere nuovamente gli uomini e questo da entrambi i lati del conflitto. Fino ad ora, dagli anni ’90 in poi, abbiamo assistito a conflitti declinati all'interno di un rapporto sostanzialmente asimmetrico. Da una parte pochi uomini con molti mezzi, dall'altra molti uomini con scarse risorse tecnologiche e logistiche. L'elemento umano ha continuato a contare solo da un lato, quello perdente. Tra i “materiali” e gli uomini, i primi mostravano di avere buon gioco. Ma se i “materiali” si riequilibrano tutto cambia. Proprio il gioco del calcio ci consente un felice paragone con quanto si sta profilando dentro gli scenari bellici.

Con ogni probabilità molti ricorderanno due grandi allenatori del recente passato: Arrigo Sacchi e Nevio Scala. Pur con qualche tenue differenza entrambi sostenevano la centralità del modulo, dello schema e dell'applicazione tattica sulle qualità del giocatore. Una volta appropriatisi dello schema e della tattica chi andava a ricoprire un ruolo diventava inessenziale. In un certo qual modo, possiamo dire che Sacchi e Scala non facevano che “riscoprire”, sul piano calcistico, il soldato automa proprio dell'esercito di Federico II [100]. Questo modello ha in effetti funzionato tanto che Milan e Parma hanno ottenuto, per anni, degli ottimi risultati. Ha funzionato ma non in eterno. Nel momento in cui tutte le altre squadre sono state in grado di elaborare un contro-schema, in grado di annullare i moduli di Sacchi e Scala, l'arguzia tattica ha cessato di farla da padrone. Poiché, in definitiva, il modulo contro modulo finiva col delineare una situazione di impasse senza fine si è dovuti ripiegare, per forza di cose, all'antico. Pur mantenendo uno schema tattico, il che per altro è sempre esistito, si è dovuto nuovamente contare su l'uno contro uno, sulla giocata, sull'inventiva ecc. In poche parole l'elemento umano è ritornato a essere centrale. Trasportato dal rettangolo di gioco allo scenario di guerra che significato assume tutto ciò? Con ogni probabilità che, anche in questo caso, l'elemento umano torna a ricoprire un ruolo determinante. Ma, a differenza che nel gioco del calcio, in guerra mutare paradigma non è particolarmente semplice anche perché, alla forma – guerra, corrisponde sempre una determinata forma-stato. Ripensare l'elemento umano nella forma guerra, ossia rimodellare la guerra sulla popolazione, significherebbe ribaltare per intero tutto quel modello politico, sociale ed economico - ciò che comunemente è definito neoliberismo - che è esattamente la “visione del mondo” di tutte le élite globali [101]. Nel modello statuale neoliberista non vi è più spazio per l'elemento umano: tradotto in termini politici, ciò significa che la popolazione (cioè le classi sociali subalterne) non è più oggetto di interesse per le élite governative. Se nel calcio è facile reinnestare il numero dieci, decisamente più complessa è l'operazione che dovrebbe riconsegnare alle masse un ruolo preminente nella vita politica e sociale dopo che proprio sulla loro esclusione si è costruito il modello politico e sociale delle nostre società. Per di più, di questo problema fondamentali, le attuali classi dominanti sembrano avere scarso sentore. Il loro “pensiero strategico”, come dimostrano le imminenti esercitazioni Nato nel nostro Paese, sembra continuare a puntare sulla guerra d’élite. Sulla formazione e il rafforzamento di corpi e strutture iperspecialistiche, in grado di colpire ovunque e in tempi celeri, ma dai ranghi assolutamente ridotti come la recente Trident Juncture. Il tutto accompagnato da un ipertecnologizzato apparato bellico. In poche parole l’imperialismo, in tutte le sue componenti appartenenti al mondo occidentale, sembra tendere a non modificare la linea di condotta politico-militare sino ad ora perseguita ma ad enfatizzarla ancora di più. E la Russia, dentro questa strategia, rappresenta il pericolo più grande e pertanto deve essere rimossa.

La Russia è l'unico stato in grado di opporsi alle logiche e alle mire delle potenze imperialiste. È a partire da ciò che, forse, diventa facilmente comprensibile la suicida linea di condotta perseguita dalle “democrazie occidentali” nei confronti delle forze imperialiste a matrice fondamentalista: una linea ambigua e sostanzialmente morbida, che va dalla dura condanna a parole, alla tolleranza e al finanziamento delle stesse nei contesti dove possono rivelarsi utili alleate tattiche. La Russia è, di fatto, il nemico principale di tutte le forze imperialiste, vecchie e giovani. Certo, anche numerosi altri governi sono nel mirino delle potenze imperialiste ma questi, in virtù della loro debolezza militare, possono essere rimossi, in prospettiva, senza troppi clamori attraverso quella pratica ormai ampiamente collaudata delle “rivoluzioni colorate”. Di fatto solo la Russia è in grado di essere “garante” anche dei governi e degli stati che mantengono la propria indipendenza e sovranità nazionale. Basti pensare alla differenza tra quanto accaduto in Libia e quanto si sta verificando in Siria. Nei confronti della Libia la Russia non ha preso parola e lo stato libico è stato annientato. La solidarietà che l'Unione africana e dei paesi dell'Alba hanno mostrato nei confronti della Libia, al saldo degli eventi politici e militari,è risultato pressoché nullo. A conti fatti, il peso che questi paesi possono vantare sulle dinamiche internazionali, è oggi, purtroppo, pari a quello che una qualunque organizzazione politica antagonista nostrana è in grado di esercitare sulle politiche governative. Non ci vuole molto a comprendere, allora, che la rimozione della Russia, oltre ad aprire le porte alle forze imperialiste di un paese dalle risorse energetiche, industriali e militari non poco appetibili, avrebbe un possibile effetto domino sul piano internazionale.

Debellata la Russia nessuna forza statuale sarebbe più in grado di arginare i piani di conquista delle forze imperialiste. Governi e stati indipendenti non potrebbero più coltivare un'alleanza politica-militare con nessuna forza in grado di contrastare militarmente l'imperialismo. A partire da questo dato di fatto è possibile spiegare la naturale convergenza tra vecchi e nuovi imperialismi. I nuovi imperialismi sono gli unici in grado di mettere in campo, grazie all'ideologia di massa che li accompagna, l'elemento umano necessario a combattere lo stato-nazione russo. Per quanto non omogenee e differenziate, e spesso anche in conflitto tra loro, tutte le forze imperialiste convergono nell'attaccare sia gli stati indipendenti governati da una borghesia nazionale, sia quelli decisamente indirizzati in chiave socialista. La Russia, di questo insieme di realtà, ne rappresenta il sistema nervoso centrale.

 

Che fare?

Al termine di questa sintetica esposizione è giunto il momento di domandarsi, in quanto comunisti, Che fare?. Per prima cosa dobbiamo riconoscere la nostra oggettiva debolezza. Oggi, in virtù di questa, noi possiamo solo prendere atto delle contraddizioni esplosive interne all'imperialismo e lavorare in divenire [102]. Una situazione che, fatte le tare del caso, ricorda quella in cui si ritrovarono Lenin e i bolscevichi nel 1914 [103]. Anche in quel contesto lo scenario per i comunisti non si mostrava particolarmente roseo. Con la sola eccezione dei bolscevichi e di piccoli e ininfluenti gruppi, nessuna forza politica “socialdemocratica” era in grado non solo di influenzare gli eventi ma neppure di comprenderli. Solo la lucidità teorica e analitica di Lenin rese possibile, attraverso un lavorio certosino, di piegare il macello imperialista a vantaggio del proletariato. Solo l'elaborazione di una teoria politica in grado di comprendere e anticipare il cuore del politico si mostrò in grado di stare sul filo del tempo [104].

In prima istanza dobbiamo domandarci in che modo possiamo essere internazionalisti. In che modo, cioè, possiamo pensare di essere una forza in grado di stare dentro alle cose. Su questo aspetto occorre essere estremamente franchi e concreti. Dobbiamo assumere per intero l'asserzione leniniana di tenere sempre a mente la condizione storica concreta, evitando di andare alla ricerca di un modello “ideale” che mai si darà. Analizzare gli attori politici reali e, sulla base di ciò, trarne tutte le conseguenze operative del caso. Il fatto che, questi attori politici, non rappresentino i nostri interlocutori ideali non ha e non può avere grande importanza. Ciò che in realtà conta, e ha valore alla scala della storia, non è la realtà in sé ma il suo divenire. In altre parole si tratta di cogliere le possibilità che, all'interno di una situazione storicamente determinata, si prefigurano per il proletariato. In tali scenari, come direbbe Ellroy [105], non è escluso che si possano avere strani compagni di letto. Questo non da oggi.

Prendiamo un episodio storico sul quale, ancora prima di Schmitt [106], non poco hanno ragionato Engels e Marx [107]: la guerra di guerriglia antinapoleonica messa in atto dal popolo spagnolo. Quella forma guerra ha rappresentato un vero e proprio modello per le classi sociali subalterne finendo con il diventare, nel tempo, l'incubo delle classi dominanti. Questo è un fatto. Eppure, senza il corposo aiuto inglese, quella guerriglia sarebbe velocemente tramontata. Cosa sta a significare tutto ciò? Forse che l'Inghilterra, che nella lotta contro la Francia napoleonica mirava all'egemonia politica ed economica sul Continente e al mantenimento del controllo dei mari, era al contempo la fucina della futura guerra rivoluzionaria? Evidentemente no. L'Inghilterra perseguiva i suoi obiettivi, ben più reazionari di quelli che governavano l'agire delle armate napoleoniche, eppure, suo malgrado, favorì il sorgere di un modello politico-militare divenuto velocemente il modello di combattimento per eccellenza dei subalterni. Questo cosa sta a significare? “Semplicemente” che le contraddizioni interne al mondo reale producono effetti che, il più delle volte, sfuggono ai suoi stessi artefici. In questo senso, allora, dobbiamo considerare la politica estera russa come un nostro alleato. Per questo dobbiamo appoggiare tutte le forze che, come in Siria e in Ucraina, si battono contro i molteplici volti dell'imperialismo. In politica occorre sempre riconoscere chi è il nemico principale, ossia dove si collochi il cuore del politico. Nel contesto attuale il nemico principale non è sicuramente Putin anzi, proprio in quanto esponente di una borghesia-nazionale in aperto conflitto, politico e militare, con tutte le forze imperialiste, il governo russo è oggettivamente amico di tutte le forze democratiche e progressiste. È così difficile pensare che, pur con tutte le tare del caso, Ucraina e Siria ricordino non poco il contesto spagnolo del 1936? Certo, rispetto ad allora, le forze che maggiormente si oppongono all'imperialismo sono di natura borghese ma non è forse questo l'effetto di una pressoché totale indifferenza verso quei fronti da parte delle cosiddette forze antagoniste e di sinistra? Non è forse l'accademismo e/o l'estremismo verbale, ovvero la ricerca del conflitto puro e incontaminato, all'origine della scarsa presenza di forze autenticamente comuniste all'interno di quei conflitti [108]? Si può forse immaginare che, una linea di classe e proletaria, si materializzi improvvisamente dal nulla quando non si smuove un dito perché ciò accada oppure, come è già accaduto, quando la sinistra e l'antagonismo europeo non trovano niente di meglio da fare che innamorarsi di ogni rivoltoso scoprendo solo tardivamente che, quelle rivolte, erano organizzate dai nazisti, come in Ucraina, o dai fondamentalisti come in Siria? Oggi, piaccia o no, le borghesie nazionali in conflitto con gli imperialismi sono nostre alleate e con loro occorre lavorare. Forse non si potrà essere alleati, ma sicuramente co-belligeranti. La lotta al nazifascismo qualcosa dovrebbe avere insegnato.

________________________________________

Note
[1] Per una buona discussione su questi aspetti nodali della teoria marxiana si veda in particolare, E. V. Il'enkov, La dialettica dell'astratto e del concreto nel Capitale di Marx, Feltrinelli, Milano 1961
[2] Cfr., F. Romero, Storia della guerra fredda. L'ultimo conflitto per l'Europa, Einaudi, Torino 2009
[3] Sul concetto di dominanza, cfr. N. Poulantzas, Potere politico e classi sociali, Editori Riuniti, Roma 1975
[4] Un declino che, come ben argomenta B. Cartosio, L'autunno degli Stati Uniti. Neoliberismo e declino sociale da Reagan a Clinton, ShaKe Edizioni, Milano 1998, si delinea a partire dagli anni '70 del Novecento.
[5] Per una discussione su questo tema si veda, Rete “Noi saremo tutto”, a cura di, Come rompere la gabbia dell'Unione Europea, bordeaux edizioni, Roma 2014; Contropiano Rivista, Rompere la gabbia dell'Unione Europea, Roma 2014
[6] In realtà la questione non si limita a Europa e Stati Uniti. Oltre all'Europa anche i BRICS tendono a emanciparsi dal dollaro come moneta di scambio universale. Ciò non fa che rendere sempre più incerto lo scenario politico internazionale a conferma dell'obiettivo declino della potenza statunitense.
[7] Cfr., Limes, Rivista di geopolitica, A che ci serve la Nato, , N. 4/1999
[8] Cfr. Rete dei Comunisti, Il vicolo cieco del capitale. A che punto è la crisi sistemica? Roma 2012
[9] Non poco significativo al proposito è l'incidente diplomatico tra Germania e USA in seguito alla scoperta dell'atto spionistico consumato dagli USA ai danni di Angela Merkel.
[10] Con ogni probabilità il testo che meglio coglie l'insieme di questo passaggio è M. Foucault, Nascita della biopolitica, Feltrinelli, Milano 2005.
[11] Nel contesto non entriamo nel merito della realtà latino-americana, dei paesi dell’Alba e le permanenti tensioni con il mondo imperialista. Su questo scenario si può vedere, G. Colotti, Talpe a Caracas. Cose viste in Venezuela, Jaka Book, Milano 2012.
[12] Cfr. Limes, Rivista di geopolitica, Le guerre islamiche, N. 9, Milano 2015.
[13] Come ricorda Winston Churchill: “In tempo di guerra la verità è così è preziosa che deve essere sempre accompagnata da un velo di menzogna”.
[14] Questo ci sembra essere uno dei nodi centrali, sempre attuale, della teoria politica leninina. Ciò è particolarmente e ampiamente argomentato in V. I. Lenin, Che fare?, in Id. Opere, Vol. 5, Editori Riuniti, Roma 1958.
[15] Su questo aspetto rimane centrale, F. Engels , K. Marx, L'ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 1967.
[16] K. Marx, Il capitale. Critica dell'economia politica, Editori Riuniti, Roma 1989.
[17] V. I. Lenin, L'imperialismo, in Id., Opere, Vol. 22, Editori Riuniti, Roma 1966.
[18] Cfr., G. Arrighi, Il lungo XX secolo, Il Saggiatore, Milano 1996
[19] Sugli scenari strategici della Prima guerra mondiale, cfr., B. H. Liddel Hart, La Prima guerra mondiale 1914-1918, Rizzoli, Milano 1968.
[20] La “guerra lampo” non fu un invenzione dei nazisti, si veda al proposito James C. Corum, Le origini del Blitzkrieg, Hans von Seeckt e la riforma militari tedesca 1919-1933, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2004. La novità che essi vi apportarono consistette nell'impiego, al posto dell'artiglieria, dei bombardieri in picchiata in supporto all'avanzata dei carri armati.
[21] Sulla strategia prima diplomatica e poi militare della Germania, la potenza che “pianificò” con maggiore lungimiranza la guerra, cfr., L. H. Shirer, Storia del Terzo Reich, Einuadi, Torino 1962.
[22] Una buona disamina dell'importanza assunta dalla “battaglia di Mosca” per le sorti complessive del Secondo conflitto mondiale si veda, D. M. Glantz, J. House, La grande guerra patriottica dell'Armata Rossa 1941-1945, Libreria Editrice Goriziana, Bologna 2010.
[23]Cfr., P. Herde, Pearl Harbour, Rizzoli, Milano 1986
[24] Come buona esemplificazione di ciò, F. Fukuyama, La fine della storia e l'ultimo uomo, Rizzoli, Milano 2003
[25] Una riprova di come, una volta rinunciato, per decifrare la realtà, al marxismo la caduta nel grottesco sia immediatamente dietro l'angolo. Rifondazione comunista, di fronte all'irrompere della crisi sistemica del modo di produzione capitalista, si mostrò non meno attonita e stupita delle altre forze politiche. Una volta entrati nel campo della borghesia si è costretti, per forza di cose, a condividerne anche i limiti concettuali.
[26] Il video dell'intervento di Putin è reperibile on linea sul sito La Repubblica del 28 settembre 2015.
[27] Sulla questione della decisione rimangono fondamentali i testi di C. Schmitt raccolti nel volume, Le categorie del “politico”, Il Mulino, Bologna 1972.
[28] L'Italia, sotto tale aspetto, ne rappresenta una buona esemplificazione, si veda al proposito l'importante lavoro di R. Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Einaudi, Torino 1974.
[29] Sulla complessità delle vicende relative alla Germania del secondo dopoguerra si veda, E. Collotti, Storia delle due Germanie 1945-1968, Einaudi, Torino 1968.
[30] Una buona ricostruzione di ciò rimane, H. Thomas, Storia della guerra civile spagnola, Einaudi, Torino, 1963.
[31] Cfr. H. Thomas, Storia della guerra civile spagnola, cit.
[32] Il conflitto del Vietnam è stato uno degli elementi di maggiore radicalizzazione della lotta politica negli Stati Uniti. Cfr., Weatherman, Praterie in fiamme, Collettivo Editoriale Libri Rossi, Milano 1977
[33] Sulle ricadute tra la popolazione francese della guerra d'Algeria cfr., E. Quadrelli, Algeria 1962-2012. Una storia del presente, La casa Usher, Firenze 2012
[34] Cfr., C. Schmitt, Teoria del partigiano, Adelphi, Milano 2005
[35] In realtà la brutalità della dominazione operata dalle forze coloniali e imperialiste democratiche non si presentò così diversa da quella fascista. Cfr., H. Arendt, “Razza e burocrazia” in Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Torino 1996.
[36] Samuel, P., Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale. Il futuro geopolitico del pianeta, Garzanti, Milano 2000
[37] Vale la pena, in questo contesto, “ricordare” il senso centrale che, per il movimento comunista, rivestono le questioni filosofiche le quali sono ben distanti dal rappresentare un puro vezzo intellettuale o una particolare propensione per l'accademismo. La battaglia di partito nell'ambito filosofico è stata centrale non solo nella elaborazione teorica di Marx (basti ricordare, a parte la produzione specificatamente filosofica, il famoso capitolo sul feticcio della merce del Primo libro del Capitale) ed Engels, ma è stata costantemente tenuta a mente da Lenin il quale, proprio alle ricadute pratiche della filosofia, ha dedicato non poche energie. Alla luce di ciò diventa pertanto necessario ricordare V. I. Lenin, Materialismo ed empiriocriticismo, in Id. Opere, Vol. 14, Editori Riuniti, Roma 1963; Quaderni filosofici, Vol. 38, Editori Riuniti, Roma 1969; Il significato del materialismo militante, Opere, Vol. 33, Editori Riuniti, Roma 1967. Per un ottimo approfondimento di queste tematiche si vedano i lavori di G. Lukács, Storia e coscienza di classe, Mondadori, Milano 1973; Il giovane Hegel e i problemi della società capitalista, Einaudi, Torino 1960.
[38] Paradigmatico e delucidante il ben documentato testo di G., Crile, Il nemico del mio nemico. Afghanistan 1979-1989, Il Saggiatore, Milano 2005. Proprio questo testo, dove il ruolo giocato dagli USA nel favorire con molteplici mezzi l'iniziativa fondamentalista del “Gruppo Bin Laden”, mostra come, le forze islamiste, coltivino un progetto di dominazione autonoma e indipendente e non siano semplicemente “carne da cannone” al servizio degli USA. Ciò che si palesa è un'alleanza tattica tra due forze imperialiste che coltivano progetti, in prospettiva, conflittuali.
[39] Cfr. Limes, La radice quadrata del caos, n.5 – 2015.
[40] Il riferimento è alla nota poesia di R. Kipling, The Man's White Burden del 1899 che può essere considerata, o almeno questo è stato il suo uso maggiormente noto e accreditato, come una sorta di manifesto del colonialismo e dell'imperialismo considerato in veste di missione civilizzatrice. Sullo sfondo vi è la naturale superiorità dell'uomo bianco e il conseguente onere civilizzatore a cui la “natura” lo obbliga. Forse il maggior antecedente letterario di questo filone narrativo è il noto Robinson Crusoe di Defoe. Per una discussione molto ben argomentata delle tematiche razziali che fanno da sfondo al colonialismo e all'imperialismo si veda, Edward, W., Said, Orientalismo, Feltrinelli, Milano 1999.
[41] Molto utile al proposito è la conferenza tenuta da F. Piccioni sul tema dell'imperialismo del XXI secolo a partire da una rilettura di V. I. Lenin, L'imperialismo fase suprema del capitalismo. La conferenza è reperibile su www.agorapisa.it
[42] Paradigmatico al proposito il modo in cui gli Stati Uniti ignorarono la minaccia giapponese. Loro convinzione era, infatti, che un popolo di colore non fosse in grado di sfidare sul terreno politico-militare una potenza bianca. Cfr. R. Cartier, La seconda guerra mondiale, Mondadori, Milano 2014.
[43] M. Hardt, A. Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano 2003. Questo testo, considerato per un certo periodo come la “nuova bibbia” del movimento antagonista, sosteneva la fine della fase imperialista e dei conflitti a essa coevi eludendo, perché considerata del tutto storicamente superata, la tendenza alla guerra la quale, al contrario, con l’irrompere prepotente della crisi si è fatta sempre più attuale. Oggettivamente, questa ipotesi, rientra appieno nell’opportunismo socialdemocratico. Per molti versi, infatti, questa teoria non fa altro che riprendere, in maniera certamente più dotta, ciò che, a fronte della Prima guerra mondiale, aveva sostenuto Karl Kautsky attraverso il conio della categoria “ultraimperialismo”. Kautsky sosteneva che, la guerra, non era nell’interesse dell’imperialismo poiché, per gli intrecci mondiali a cui l’economia era pervenuta, l’imperialismo aveva ormai raggiunto una forma sia solida che unitaria. Dalla guerra, secondo Kautsky, l’imperialismo non aveva nulla da guadagnare. Erano, semmai, le forze preimperialiste, storicamente superate, che coltivavano il culto della guerra. Per Kautsky, quindi, l’imperialismo finiva con l’avere un ruolo progressivo e non prono al militarismo mentre, le classi storicamente superate, vi rimanevano ancorate. Vale la pena di notare come, fatte le tare del caso, una tesi non dissimile compare anche in A. Negri quando, di fronte alla guerra in Iraq, che smentiva empiricamente tutto l’archetipo del suo discorso, parlò di un colpo di mano da parte di G. W. Bush, in virtù di una logica novecentesca ancora tutta incentrata sulle retoriche imperialiste, contro le logiche stesse dell’Impero.
[44] Per una critica a Kautsky e alla teoria del “superimperialismo”, cfr. V. I. Lenin, L’imperialismo fase suprema del capitalismo, in Id., Opere, Vol. 22, Editori Riuniti, Roma 1966.
[45] Per una panoramica a tutto tondo delle relazioni statuali nel primo dopoguerra, R. Overy, Crisi tra le due guerre. 1919–1939, Il Mulino, Bologna 2009.
[46] Tra gli effetti non secondari del secondo dopoguerra va evidenziato il crollo di tutti i sistemi imperiali e coloniali delle potenze europee. Per una buona panoramica di questo fenomeno, spesso contraddittorio, si veda, D. Bernard, Storia della decolonizzazione nel XX secolo, Bruno Mondadori, Milano 2010.
[47] Thomas, E., Lawrence, La rivolta nel deserto, Il Saggiatore, Milano 2010
[48] Su questo aspetto vale sicuramente la pena di leggere per intero l’opera di Thomas, E., Lawrence, I sette pilastri della saggezza, Bompiani, Milano 2000. Pagina dopo pagina diventa sempre più evidente come e quanto la guerriglia araba abbia logorato il mastodontico potere imperiale ottomano.
[49] Per un primo ragionamento su questi aspetti si può vedere, Noi saremo tutto, Chalie Hebdo. Dalle dune alla metropoli, www.noisaremotutto.org.
[50] Su questi aspetti rimane fondamentale George,. L. Mosse, La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimento di massa in Germania (1815-1933), Il Mulino, Bologna 2009.
[51] Un buona e ben documentata ricostruzione della questione è reperibile in Edward, H. Carr, Storia della Russia sovietica. Vol. III, La Politica estera, Einaudi, Torino 1969. Molto interessanti, per quanto riguarda il dibattito all’interno del movimento comunista con i movimenti della “destra radicale”, anche i testi raccolti in, V. Serge, Germania 1923: la mancata rivoluzione, Graphos, Genova 2003.
[52] Si vedano, al proposito, i testi raccolti in, G. Dimitrov, La Terza Internazionale, Edizioni del secolo, Roma 1945.
[53] Per quanto riguarda le caratteristiche militari del Giappone si veda, J-L., Margolin, L’esercito dell’Imperatore, Lindau, Torino 2009; sull’insieme delle vicende militari in oriente si veda il lavoro di, B. Millot, La guerra del Pacifico, Rizzoli, Milano 1967 infine utile, perché compendia e confronta i vari aspetti e le diversità strategiche affrontate dai raggruppamenti in lotta si veda, J. Keegan, La seconda guerra mondiale. Una storia militare, Rizzoli, Milano 2002.
[54] Esemplificativo, al proposito, è l’aiuto che ricevettero dalla popolazione birmana. Cfr. R. Cartier, La seconda guerra mondiale, cit.
[55] R. Battaglia, La seconda guerra mondiale, Editori Riuniti, Roma 1960, pag. 149.
[56] Cfr. A. Haley, Malcom X, Autobiografia di Malcom X, Rizzoli, Milano 2004.
[57] Particolarmente significativo, al proposito, il capitolo “Razza e burocrazia”, in H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Milano 1989
[58] William, L. Shirer, Diario di Berlino 1934-1947, Einaudi, Torino 1967.
[59] Per una buona ricostruzione di questo movimento si veda, R. Balducci, La bomba Hamas. Storia del radicalismo islamico in Palestina, Datanews, Roma 2006.
[60] Esemplificativo al proposito il conflitto sorto tra SA, fautrici della “seconda rivoluzione” che avrebbe dovuto portare alla realizzazione del programma “popolare” del nazionalsocialismo e le SS che, al contrario, si identificavano in toto con la borghesia imperialista tedesca. Tra il 29 e il 30 giugno del 1934 circa 200 dirigenti delle SA vennero uccise dalle SS diventate, nel frattempo, la guardia hitleriana e poste alle dirette dipendenze di Himmler. Per una ricostruzione di questi eventi si veda M. Gallo, La notte dei lunghi coltelli, Mondadori, Milano 1962, per una panoramica più generale sulle contraddizioni del movimento nazionalsocialista si veda, E. Collotti, Hitler e il nazismo, Einaudi, Torino, 1962.
[61] Una leggenda che non appartiene solo al fascismo ma è ben radicata dentro la sinistra riformista e socialdemocratica basti pensare a come, oggi, tutto il riformismo e l’opportunismo contrappongano il keynesismo, ossia il capitalismo buono, contro il neoliberismo il quale è presentato come capitalismo parassitario e improduttivo dimenticando che, le crisi, non sono l’effetto di un modello particolare di capitalismo ma affondano le loro radici nell’oggettività stessa del capitalismo e che, la dominanza del capitale finanziario intrecciato con il capitale industriale, è proprio della fase imperialista ovvero dell’epoca in cui presero le mosse le teorie keynesiane.
[62] Per una discussione molto stimolante di queste tematiche si veda, M., Augé, Non luoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, eléuthera edizioni, Milano 2009
[63] www.video.corriere.it/video. Amedy Coulibaly.
[64] Paradigmatico, al proposito, è il contesto delle banlieues le quali, in anni recenti, sono state protagoniste di rivolte particolarmente radicali. Ho provato a descrivere e analizzare il fenomeno in, E. Quadrelli, “Militanti politici di base. Banlieuesards e politica”, in M. Callari Galli (a cura di), Mappe urbane. Per un'etnografia della città, Guaraldi, Rimini 2007.
[65] Cfr., G. Jackson, La Repubblica spagnola e la guerra civile 1931-1939, Il Saggiatore, Milano 1967.
[66] Cfr., William, L. Shirer, Storia del Terzo Reich, Einaudi, Torino 1962.
[67] L. Longo, Le brigate internazionali in Spagna, Editori Riuniti, Roma 1956.
[68] In Spagna, in difesa della Repubblica, accorsero e scrissero tra le migliori figure intellettuali dell'epoca. Basti ricordare E. Hemingwey con il indimenticabile Per chi suona la campana o G. Orwell il quale, con Omaggio alla Catalogna, ha consegnato alla storia tutto il pathos che animava i combattenti antifascisti non solo in Spagna ma nel mondo.
[69] Cfr. William, L., Shirer, Storia del Terzo Reich, cit.
[70] Sul pangermanesimo e i panmovimenti, cfr., H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit.
[71] Su questo aspetto si vedano soprattutto le parti dedicate alle trasformazioni socio-culturali operate dal nazionalsocialismo nella vita delle masse presenti in William, L., Shirer, Storia del Terzo Reich, cit. e E. Collotti, La Germania nazista. Dalla Repubblica di Weimar al crollo del Reich hitleriano, cit.
[72] Cfr., E., Eyck, Storia della Repubblica di Weimar 1918-1933, Einaudi, Torino 1966.
[73] Per una accurata descrizione di questi eventi si veda, C. Bellamy, Guerra assoluta. La Russia sovietica nella seconda guerra mondiale, Einaudi, Torino 2010.
[74] R. Battaglia, La seconda guerra mondiale, cit. pagg. 15–16
[75] R. Battaglia, La seconda guerra mondiale, cit. pag. 14.
[76] In William, L., Shirer, Diario di Berlino 1934–1947, Einaudi, Torino 1967, pag. 13
[77] In William, L., Shirer, Diario di Berlino 1934–1947, In William, L., Shirer, Diario di Berlino 1934–1947, cit. pag. 13
[78] G. Stalin, “Rapporto al XVIII Congresso del partito”, in Id., Questioni del leninismo, Edizioni in lingue estere, Mosca 1948, pagg. 683 - 684
[79] G. Dimitrov, “Il fronte unico della lotta per la pace”, in Id., La terza internazionale, cit. pagg. 143–144.
[80] P. Togliatti, “La preparazione di una nuova guerra mondiale da parte degli imperialisti e i compiti dell'Internazionale comunista”, in Id., Opere, Tomo III, Vol. 2, Editori Riuniti, Roma 1973, pagg. 737–738.
[81] P. Togliatti, “La preparazione di una nuova guerra mondiale da parte degli imperialisti e i compiti dell'Internazionale comunista”, in Id., Opere, Tomo III, Vol. 2, cit., pag. 743
[82] P. Togliatti, “La preparazione di una nuova guerra mondiale da parte degli imperialisti e i compiti dell'Internazionale comunista”, in Id., Opere, Tomo III, Vol. 2, cit., pagg. 745–746
[83] P. Togliatti, “La preparazione di una nuova guerra mondiale da parte degli imperialisti e i compiti dell'Internazionale comunista”, in Id., Opere, Tomo III, Vol. 2, cit., pagg. 749 - 750
[84] G. Stalin, “Rapporto al XVII Congresso del partito”, In Id., Questioni del leninismo, cit. pagg. 520–521.
[85] Su questo aspetto rimangono decisivi, F. Engels, Ludwing Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca, La città del sole, Napoli 2009; Id., L'evoluzione del socialismo dall'utopia alla scienza, Laboratorio Politico, Napoli 1992
[86] Oltre allo scontato F., Engels, K. Marx, L'ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 1971, l'autore che, con ogni probabilità, ha offerto i maggiori stimoli e contributi teorici alla discussione e all'approfondimento di questo aspetto nodale della teoria marxiana è G. Lukács, si vedano al proposito i testi raccolti in Storia e coscienza di classe, cit. e Scritti politici giovanili 1919–1928, Editore Laterza, Bari 1972
[87] Al proposito è importante osservare come solo nel corso della Grande rivoluzione, che ha coinciso con l'ascesa rivoluzionaria della borghesia in quanto classe storica, la borghesia sia stata in grado di elaborare un pensiero politico, per quanto non privo di contraddizioni, prono all'universalismo. Già nella prima metà dell'Ottocento queste suggestioni sono oggetto di critica, ripensamento e attacco da parte della stessa borghesia la quale, abbastanza velocemente, abbandona il suo tratto progressivo. Una buona esemplificazione di ciò è il dibattito che si sviluppa nell'Ottocento in relazione alla cittadinanza e ai suoi diritti. Per una sua eccellente panoramica si veda, P. Costa, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa. 2. L'età delle rivoluzioni, Editori Laterza, Roma–Bari 2000. Sulle trasformazioni in chiave anti–'89 del pensiero filosofico–politica della borghesia rimane sicuramente importante, G. Lukács, La distruzione della ragione, Einaudi, Torino 1959. Non meno utile e interessante, soprattutto per il modo in cui analizza e descrive l'irrompere della rivolta anti-illuminista e razionalista nella teoria politica e i suoi effetti duraturi rimane, I. Berlin, Le radici del romanticismo, Adelphi, Milano 2001.
[88] Secondo i dati in possesso dell'intelligence russa sarebbero almeno quattromila i combattenti islamici trasmigrati dalla Cecenia in Siria per combattere il governo siriano e annettere la Siria al costituendo “Califfato” promosso dalle bandiere dell'Isis. Una guerra che questi combattenti fondamentalisti stanno conducendo in piena sintonia con le sedicenti forze democratiche anti Assad protette e finanziate dalle consorterie imperialiste occidentali. Vale inoltre la pena di notare come, la guerriglia islamica cecena, avesse trovato, mentre combatteva lo stato russo, non pochi sponsor e appoggi in Occidente. Per molti versi, quindi, la guerra, sotto diverse forme, alla Russia non sembra essere un fatto di questi ultimi giorni così come, l'alleanza con le forze fondamentaliste, sembra essere una costante continuamente reiteratasi dopo l'esperienza afghana. Non è secondario ricordare, al proposito, come lo stesso attacco alla Serbia sia stato il frutto di una presa di posizione di tutti i paesi interni alla Nato in supporto alle forze islamiche che si erano poste l'obiettivo, al fine raggiunto, di disintegrare l'unità territoriale dello stato serbo. Un progetto che, come scopo non secondario, aveva sicuramente il fine di, ridimensionando la Serbia, colpire la Russia la quale, nella Serbia, aveva il miglior alleato politico nell'area dei Balcani.
[89] Svetlana Aleksievic, la scrittrice russa che ha vinto il recente Nobel per la letteratura, ha salutato la vittoria con un'asserzione che non lascia molti dubbi all'immaginazione: “Amo la Russia, ma non quella di Stalin e Putin”, in www.repubblica.it/cultura/2015/10/08. Sintomatico il fatto che, tutta la sua produzione letteraria sia animata da un viscerale anticomunismo e un altrettanto non nascosto filoamericanismo.
[90] D.Silva, Il caso Caravaggio, Neri Pozza, Milano 2015.
[91] Sotto questo aspetto la Polonia ne rappresenta forse la migliore esemplificazione. La vittoria della destra alle ultime elezioni, il partito xenofobo e razzista Diritto e Giustizia è infatti in grado di formare un governo monocolore, mentre per un verso tende a prendere le distanze dalla UE, dall'altro rafforza i suoi legami con gli Stati Uniti e sta diventando una delle basi militari Nato più importanti della regione. Pienamente allineata alle politiche del Pentagono si caratterizza per la particolare propensione a innalzare il tiro nei confronti di Mosca. La guerra, sotto egida statunitense, è pienamente nelle corde del governo polacco.
[92] Su questo aspetto il bel lavoro di, G. Chiesa, Russia addio. Come si colonizza un impero, Editori internazionali Riuniti, Roma 2000.
[93] La Russia, non da oggi, si presenta come “questione” per l'Europa. Ci sembra particolarmente utile e stimolante osservare come, detta “questione”, sia , sotto il profilo concettuale, presentata storicamente. Particolarmente utile, a tal fine, è il prezioso lavoro di, D. Groh, La Russia e l'autocoscienza d'Europa, Einaudi, Torino 1980. Allo stesso tempo particolarmente stimolanti sono i saggi compresi in, I. Berlin, Il riccio e la volpe e altri saggi, Adelphi, Milano 1998. Di particolare interesse, in riferimento alla “particolarità” culturale russa, rimane l'importante lavoro di, A. Walicki, Una utopia conservatrice. Storia degli slavofoli. Sempre del medesimo autore è da segnalare, Marxisti e populisti: il dibattito sul capitalismo, Jaca Book, Milano 1973. In questo contesto, infine, non si può non ricordare la monumentale opera in tre volumi di F. Venturi, Il populismo russo, Einaudi, Torino 1972, proprio la storia del populismo russo consente di gettare uno sguardo in profondità dentro un mondo che, alla cultura occidentale, risulta non solo estraneo ma di difficile comprensione.
[94] Per un'ampia discussione di queste tematiche si veda, R. Smith, L'arte della guerra nel mondo contemporaneo, Il Mulino, Bologna 2009
[95] Cfr., M., Bulgarelli, U. Zona, Mercenari. Il business della guerra, Nda Press, Rimini 2004
[96] Sulla guerra come duello, cfr., C., Schmitt, Il nomos della terra, Adelphi, Milano 1991. Per una buona ricostruzione del dibattito intorno alla forma–guerra nel corso dell'Ottocento si veda, Gian, E., Rusconi, Clausewitz, il prussiano. La politica della guerra nell'equilibrio europeo, Einaudi, Torino 1999.
[97] Per avere un'idea della quantità di forza industriale presente in Normandia si può vedere, Stephen, E., Ambrose, D–Day. Storia dello sbarco in Normandia, Rizzoli, Milano 1998
[98] Gli Stati Uniti vennero colpiti sul proprio territorio, se si esclude Pearl Harbour che in ogni caso si trova nelle Hawaii, soltanto in alcuni suoi porti per mano della “guerra sottomarina” che, sul mare, rappresentava la linea di condotta essenziale della strategia bellica nazista sul mare. Al proposito si veda, L., Peillard, La battaglia dell'Atlantico, Mondadori, Milano 1992
[99] Su questi aspetti si veda sicuramente, D. Zolo, Chi dice umanità. Guerra e ordine globale, Einaudi, Torino 2000.
[100] Cfr. M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 1976.
[101] Il testo che, con ogni probabilità, è stato in grado di analizzare con maggiore lucidità il modello sociale, economico, politico e culturale del cosiddetto neoliberismo è, M. Foucault, Nascita della biopolitica, Feltrinelli, Milano 2005.
[102] Proprio in virtù di ciò il testo si è a lungo soffermato sulle vicende immediatamente a ridosso della Seconda Guerra mondiale. Richiamare alla mente, mettendole continuamente a confronto, il modo in cui l'Unione Sovietica, l'Internazionale comunista e le “democrazie occidentali” hanno affrontato gli eventi degli anni Trenta del secolo sorso ha avuto esattamente lo scopo di evidenziare come, solo il marxismo, sia la teoria filosofico–politica in grado di decifrare le tendenze oggettive della storia e intervenirvi in maniera cosciente.
[103] Nel 1914 la Seconda internazionale, nella quasi sua totalità, si schierò per la guerra votando i crediti di guerra e allineandosi con il “proprio” imperialismo. Sulla Seconda internazionale si vedano, G., D., H., Cole, Storia del pensiero socialista. La seconda internazionale 1889–1914, Editore Laterza, Bari 1968; G. Haupt, La Seconda internazionale, La Nuova Italia, Firenze 1973. Utile, per comprendere l'humus teorico che faceva da sfondo alla Seconda internazionale, rimane, AA. VV., Storia del marxismo. Il marxismo nell'età della Seconda Internazionale, Einaudi, Torino 1979
[104] Nel panorama politico dell'epoca solo Lenin fu in grado di coniare un progetto politico: Trasformare la guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria, in grado di cogliere il vero cuore della questione. Ciò fu reso possibile grazie a una precisa analisi politica, alla elaborazione di una teoria politica marxista in grado comprendere il senso storico dell'epoca e un'organizzazione politica che, incessantemente, lavorò alla sua attuazione pratica. Tra la molta pubblicistica leniniana dell'epoca i seguenti testi: V. I., Lenin, Sotto la bandiera altrui; Il fallimento della seconda internazionale; Il socialismo e la guerra, Opere, Vol. 21, Editori Riuniti, Roma 1966, sono coloro i quali rendono al meglio il senso dell'immenso lavoro compiuto da Lenin e i bolscevichi.
[105] In J. Ellroy, Sei pezzi da mille, Mondadori, Milano 2001
[106] C. Schmitt, Teoria del partigiano, cit.
[107] Si vedano, al proposito, la serie di testi raccolti in, F. Engels, K. Marx, Scritti febbraio 1854–febbraio 1855, edizioni Lotta Comunista, Milano 2011
[108] Per una discussione su questi temi rimandiamo a quanto abbiamo provato ad argomentare in, G. Bausano, E. Quadrelli, Classe. Partito. Guerra. Cen'est qu'un debut. Continuons le combat!, Gwynplaine, Camerano (AN) 2015.
Web Analytics