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Isis e Jihadismo: dopo il 13 novembre

di Pier Francesco Zarcone

islamic state female fighters with kalashnikovLa tragicità del presente momento storico

Dopo i recenti attentati jihadisti a Parigi - un ulteriore episodio (e nemmeno dei più rilevanti in termini quantitativi) di una lunghissima catena di orrori di cui non si vede la fine - è difficile restare in silenzio. Ma c'è il problema di cosa dire, tanto più che commentatori di professione e tuttologi di varia tendenza stanno intervenendo in massa, in una profusione di banalità e di pseudoricette sul cosa fare.

L'Isis appare ormai come il nemico numero uno non solo per gli occidentali o i non musulmani, ma anche e soprattutto per gli stessi musulmani che, in definitiva, ne sono le prime vittime: non si dimentichi che a combattere sul campo i jihadisti ci sono proprio dei musulmani di ben diverso orientamento. E qui sta un primo problema.

Non da oggi va registrata l'assenza di protagonisti del passato da cui - in qualche modo, e pur con tutti i noti limiti - ci si poteva aspettare una produzione di anticorpi rispetto al radicalismo omicida degli islamisti. Ci si riferisce alle sinistre dei paesi islamici, al "progressismo" laico - per quanto militar-borghese - al nazionalismo arabo e al ruolo teoricamente esercitabile da élite musulmane non reazionarie. Tutto questo non c'è più, e nemmeno ci si può illudere che vi siano elementi "in sonno", nascosti da qualche parte per motivi tattici. Al riguardo è sintomatica la situazione turca, in fase pesantemente involutiva rispetto al periodo del repubblicanesimo kemalista, laicizzante alla sua maniera. Molti sono gli osservatori che indicano, tra i principali fattori che favoriscono la crescita dell'Isis, l'assenza di una vera sinistra: si tratta di una mera e irrilevante constatazione, non potendo indicare alcun effettivo rimedio terapeutico a breve termine che non sia l'ipotetica ricostruzione di una tale sinistra.

L'assenza dei protagonisti del passato fa sì che la partita oggi si giochi (sulla pelle delle vittime) tra imperialismi e jihadismo, peraltro a sua volta e a modo suo intenzionato a svolgere un ruolo imperialistico o subimperialistico. E quindi (riprendendo una considerazione di Roberto Massari che condivido pienamente) la necessaria azione militare capace di portare alla massiccia eliminazione fisica dei militanti dell'Isis può essere realizzata solo da eserciti e polizie dei principali paesi imperialistici (Russia inclusa, ovviamente). E questo rivela l'impotenza storica a cui l'umanità è approdata, poiché gli assassini (dell'Isis) possono essere eliminati solo da altri assassini (imperialisti), sicuramente in grado di farlo, qualora lo volessero realmente. La tragedia della realtà attuale è anche questa.

Un intervento militare più deciso è mancato almeno fino all'ingresso a gamba tesa nel conflitto siriano da parte della Russia, che opera però quale diretta concorrente degli Stati Uniti (e dell'Occidente che a loro si accoda) per proprie ragioni di politica estera e interna. Non ci sarà da stupirsi se in seguito ognuno continuerà a perseguire interessi e finalità particolari e contrastanti con quelli altrui. Per il momento, sulla spinta dei fatti parigini, sembra che si stia realizzando un maggiore coordinamento fra l'azione russa e la scombiccherata coalizione di Obama & Co. (a cui si devono fino a oggi ben 7.500 dispendiose incursioni aeree contro l'Isis dai risultati alquanto scarsi).


Combattere l'Isis: facile militarmente, non politicamente

Tra i presunti avversari dell'Isis ci sono noti fomentatori, finanziatori e complici del jihadismo, seppure con gradazioni diverse: l'Arabia Saudita, il Qatar, certi emirati del Golfo e la Turchia "islamica moderata" di Erdoğan; e tutti costoro dispongono di reti di collegamento e d'influenza fuori dalla specifica area del Levante. Quando si parla di effettiva volontà di condurre questa lotta emerge subito un tema finora oggetto solo di sterili dibattiti: l'esigenza di colpire le fonti di finanziamento dell'Isis. A quel che si sa, esse consistono in estorsioni, vendita di schiave, donazioni private islamiche, vendita di materiale archeologico e contrabbando di petrolio. Se si volesse davvero agire qualcosa si potrebbe fare, benché alcune di quelle fonti non sembrino eliminabili con facilità.

Riguardo al contrabbando di petrolio - fonte tra le più produttive di cospicui introiti - l'intervento non dovrebbe essere dei più ardui. Infatti il petrolio estratto dall'Isis dai territori occupati è allo stato greggio, cioè inutilizzabile se non raffinato, e non risulta che lì ci siano raffinerie. È quindi palese che questo greggio venga raffinato altrove dagli acquirenti. Dove e da chi? Proprio qui dovrebbero e potrebbero intervenire i nemici dell'Isis, se lo volessero. Per il momento si registrano solo bombardamenti russi sui depositi di greggio dell'Isis.

In base alla loro potenza militare i soli Stati Uniti potrebbero disintegrare l'Isis in qualsiasi momento, ma la loro potenza rimane virtuale, dovendo fare i conti (al di là dell'impatto sulla propria opinione pubblica al rientro dei cadaveri dei soldati) anche con i divergenti interessi di Israele: terreno delicato a causa del concreto rischio per ogni amministrazione in carica di alienarsi un bel pacchetto di voti alle successive elezioni. E Israele non favorisce certo interventi suscettibili di distruggere l'Isis. I governanti israeliani sanno benissimo che la cosiddetta opposizione "moderata" a Bashar al-Assad è in pratica inesistente sul campo di battaglia. Essi temono quindi che sconfiggere l'Isis significhi favorire la vittoria di Assad e - quale immediata conseguenza - aumentare nel Levante il prestigio e il potere di Iran, Hezbollah e Russia: tutti avversari - chi più chi meno - degli Usa e d'Israele.

Il governo israeliano si rende conto che attualmente l'Isis non costituisce ancora una minaccia diretta per lo Stato sionista, e in più distrae da Israele gli sciiti libanesi (Hezbollah) costringendoli a concentrare il proprio impegno in Siria, onde evitare il massacro dei loro confratelli locali. Quindi per la realpolitik di Israele conta il fatto che oggi i musulmani suoi vicini sono troppo impegnati a uccidersi reciprocamente per poter pensare anche al nemico israeliano. Finché dura…

E poi c'è il problema curdo. Dei curdi gli Usa hanno bisogno, ma devono muoversi con cautela per non intaccare troppo gli interessi turchi. Si tratta quindi di una carta da usare cum grano salis: cioè nei limiti dello stretto necessario. Da qualche tempo i media occidentali manifestano un certo innamoramento per i curdi siriani e iracheni, addirittura presentandoli come il "vero" baluardo anti-Isis. Ora, nessuno mette in discussione il loro tenace apporto in questa lotta, anche perché sono di fronte a una scelta tra la vita e la morte. Tuttavia, è evidente che da soli non costituiscono un elemento risolutivo; inoltre, nemmeno loro rappresentano un'eccezione nel desolante panorama politico in precedenza delineato: a parte che il loro unico obiettivo finale è la realizzazione di uno Stato curdo, non costituiscono una forza antimperialista, ma sono una realtà appoggiata dagli Stati Uniti (non certo per cristiana compassione) e a essi subordinata.


Si sa di che si parla quando ci si riferisce all'Isis e al Jihadismo?

L'Isis è diventato repentinamente l'entità più virulenta e pericolosa nel quadro dell'Islam radicale e del jihadismo, ma per vari versi resta uno sconosciuto. E invece per poter essere meglio combattuto dovrebbe essere davvero inteso nella sua effettività, che non si riduce all'aspetto omicida di massa. Definirlo sbrigativamente come "fascismo islamico" non aiuta a capire e rischia di essere una mera invettiva. L'efferata barbarie dell'Isis esiste, al pari della congerie di psicopatici criminali da esso aggregati, ma non ne spiega il successo del messaggio ideologico.

Innanzitutto l'Isis non va confuso con al-Qaida. Inoltre non si può tacciarlo di non essere islamico (come una volta ha fatto Obama), perché non si spiegherebbe il suo successo nel proselitismo in cui la religione è componente essenziale. Innegabilmente il jihadismo in genere e l'Isis in particolare suscitano forti divergenze interpretative anche tra gli osservatori più attenti e disposti alla comprensione: esprime uno forza di regresso a un passato inesistente ma mitizzato, oppure si tratta di un fenomeno intriso di modernità suo malgrado? Di certo esso sarebbe causa di orrore per i primi tre Califfi, che pure fecero espandere l'Islam con la conquista militare (ad esempio il califfo Omar, conquistata Gerusalemme, non solo non dette luogo ad alcun massacro di cristiani, ma fece ritornare gli ebrei in città e rifiutò di pregare nella chiesa del Patriarca ortodosso, perché altrimenti l'avrebbe fatta diventare luogo di preghiera islamico).

La pratica del massacro va intesa come strumento dell'ideologia religiosa millenaristica di cui l'Isis è portatore; ideologia ben più estrema di quella di al-Qaida, che oltretutto pone il califfato come punto di arrivo e non di partenza. L'Isis invece ha effettuato l'inversione delle priorità, giacché vede il califfato come mezzo per aprire la via a quella che in termini cristiani potremmo definire Apocalisse. I feroci scontri armati in Siria fra l'Isis e la locale appendice di al-Qaida - cioè an-Nusra - lo attestano, e altresì il fatto che il successore di Bin Ladin, Ayman al-Zawahiri, non abbia affatto riconosciuto al-Baghdadi come califfo. D'altro canto, questa rivalità è cosa vecchia, per quanto assai poco nota ai più.

I prodromi della nascita dell'Isis risalgono al 2006, quando Bin Ladin ruppe con il feroce sodale giordano operante in Iraq, Abu Musa Abd al-Zarqawi, anche per motivi di metodo; e non si esclude che al-Qaida abbia fornito informazioni agli statunitensi per trovarlo e ucciderlo. Da questa branca irachena sarebbe poi venuto - nel 2014 - l'Isis, consumandosi così una rottura apparentemente definitiva. Ciò non vuol dire che le due organizzazioni appartengano a mondi diversi: entrambe fanno parte del settore islamico dei cosiddetti takfiri (da takfir, «scomunica»; quindi sono coloro che tacciano di apostasia i musulmani che la pensano diversamente): solo che l'Isis è assai più takfira di al-Qaida. E poiché gli apostati vanno uccisi, su circa 200 milioni di musulmani sciiti pende automaticamente la condanna a morte dei takfiri di ogni tendenza.

Abbiamo definito millenaristica l'ideologia dell'Isis in quanto vi opera la credenza che il califfato - a prescindere dalle sue vittorie attuali - in una penultima fase della storia sarà sconfitto da un'armata guidata da un anti-Messia, rimarranno solo poche migliaia di jihadisti e verranno quindi la finale Apocalisse per il mondo e il Giudizio Universale. Nel frattempo, il massacro è strumento di preparazione e assume un significato religioso in termini escatologici. In conclusione, nell'ottica dell'Isis la guerra condotta all'interno del mondo islamico è contro finti musulmani, cioè apostati, in preparazione degli Ultimi Giorni. Il califfato possiede così una valenza travalicante il suo aspetto di entità politica, in quanto è soprattutto un mezzo di salvezza per il "vero" musulmano, che attraverso l'essergli fedele corona la propria vita religiosa.

Mentre al-Qaida può essere considerato un movimento politico-militare dalla fortissima matrice religiosa con finalità soprattutto politiche - come la cacciata degli infedeli dalla sacra Penisola araba, la distruzione d'Israele, l'abbattimento delle dittature filo-occidentali nel mondo musulmano - l'Isis invece, al di là dei suoi obiettivi mondani, è essenzialmente uno strumento per la realizzazione degli asseriti piani di Dio. Armato di questa ideologia, il militante takfiro può tranquillamente affrontare la morte (visto che andrà in Paradiso) e non preoccuparsi delle sconfitte, che per lui perdono di significato facendo parte dei piani di Dio, il quale ha previsto anche la distruzione della maggior parte dei suoi fedeli prima - e in preparazione - della fine del mondo.

Va tuttavia osservato che il salto di qualità compiuto dall'Isis rispetto ad al-Qaida contiene elementi di azzardo, poiché proprio per la sua configurazione statuale è suscettibile di venir eliminato da un serio attacco militare (a differenza della ben più sfuggente al-Qaida) prima che possa realizzarsi la sua prospettiva escatologica. In questa ipotesi, infatti, se venissero liberate dall'occupazione takfira tutti i territori di Siria e Iraq, il califfato morirebbe, perché non potrebbe vivere in clandestinità restando tale. Per conseguenza, i giuramenti di fedeltà fattigli perderebbero il carattere vincolante e, anche se non ne deriverebbe la cessazione completa delle attività terroristiche, si ridurrebbe estremamente l'attuale capacità di attrazione per i proseliti. Ma per capire appieno l'importanza della distruzione militare del califfato bisogna capirne l'ideologia e calcolare che, anche se ridotto ai minimi termini territoriali, nulla cambierebbe, giacché continuerebbe ad esistere come polo di attrazione e di reclutamento.

In base a quanto sopra detto possiamo assimilare l'Isis a una piccola matrioska in cui l'aspetto religioso (ecatologico-apocalittico) contiene quello politico. A medio termine i suoi obiettivi sono politici, ma in una prospettiva di maggior durata sono subordinati a quelli religiosi. Circa il dibattito tra gli studiosi se la violenza dell'Isis abbia carattere strumentale oppure espressivo, è meglio sostenere la complementarietà di questi due aspetti. Il suo sanguinoso attivismo rivela l'esigenza della trasformazione immediata dell'ideologia in prassi da parte degli aderenti. Questa prassi corrisponde a una concezione ideologica del sacro come dimensione violenta, e da qui il corollario della sacralizzazione della violenza e della pratica della violenza in termini di rituale religioso pubblico. In questa concezione vi è certamente spazio per discorsi politici sulle grandi sofferenze causate ad alcuni popoli dall'imperialismo occidentale, ma tali discorsi si trasformano in metapolitica di carattere religioso.


Emarginazione sociale e fanatismo religioso

Anche in merito alla posizione dell'Isis verso i mali sociali causati da capitalismo e imperialismo circolano opinioni assai divergenti: alcuni lo presentano portatore di un messaggio di riscatto anche sociale per i musulmani, altri invece lo considerano un arretramento anche sotto questo aspetto. Di recente Slavoj Žižek, per esempio, ha sostenuto che ormai è diventato luogo comune vedere nell'ascesa dell'Isis l'ultimo capitolo del risveglio anticoloniale nel mondo islamico e della lotta contro il capitalismo globale; tuttavia le stesse autorità dell'Isis dichiarano ufficialmente che compito principale del califfato non è occuparsi del welfare del popolo, bensì della vita religiosa (per quanto intesa formalisticamente e senza prospettiva spirituale) e della subordinazione-conformità dell'intera vita pubblica alle leggi coraniche.

Non sembra che al di fuori dell'ambiente del radicalismo islamico l'Isis possa impugnare con successo la bandiera dell'antimperialismo, pur tentando di far leva sulla marginalità sociale di molti giovani musulmani. Non è ancora chiaro fino a che punto si tratti di un aspetto primario, poiché - alla fin fine - anche se in vari casi l'adesione al califfato parte soggettivamente da situazioni di marginalità sociale, l'aspetto essenziale dell'attrazione da esso esercitata è essenzialmente di natura religiosa.

Problema maggiore è quello di natura culturale. Infatti, se in ragione della sua ideologia l'Isis è un fenomeno radicalmente non assimilabile da parte di un qualsiasi contesto mondiale pluralistico, per un altro verso c'è da interrogarsi sul grado di integrabilità dell'Islam tradizionale in un contesto laico come lo è l'Occidente odierno. A prescindere dai forti e sanguinosi contrasti del Medioevo, all'epoca non si trattava di due mondi davvero diversi culturalmente, anche se l'intolleranza religiosa reciproca rendeva le cose complicate. Oggi si tratta invece di due mondi diversi. Si badi che qui non stiamo parlando di Islam radicale, ma di Islam tradizionale. Guardandosi intorno, un musulmano tradizionale non ci si ritrova; e in più può avere conferma alla diffusa tesi sull'impossibilità di condurre una vita veramente islamica in una società non solo culturalmente non islamica, ma profondamente secolarizzata.

Non si dimentichi che, mentre l'odierno Occidente in sostanza ha portato la religione essenzialmente alla sfera del privato, e anche i credenti in genere si sono attrezzati a viverla in questo modo, per la cultura musulmana la religione ha una ineliminabile proiezione nel sociale: non è mero fatto individuale, ma richiede l'integrazione nel circuito sociale della umma, della comunità islamica di cui il musulmano fa immediatamente parte in quanto tale. Non a caso umma proviene da umm, «madre», e questo implica una relazione intima paragonabile (con una certa analogia) al concetto della Chiesa cristiana come corpo mistico di Cristo (estremamente diluitosi nella percezione dei cristiani occidentali).

Per un giovane, magari figlio di immigrati (cioè, come si dice, di seconda o terza generazione), inevitabilmente si pone anche la questione della propria identità in una società del genere. In entrambi i casi ci vuole una forte dose di intelligenza, profondità e duttilità culturale, ovviamente escludendo i casi di sostanziale laicizzazione di taluni soggetti. Al verificarsi di situazioni di emarginazione o razzismo (solo gli ultraricchi, forse, ne sono immuni, perché il denaro sbianca tutto), se a un certo punto il soggetto comincia a chiedersi «chi sono io davvero», allora è possibile l'avviarsi del classico cortocircuito psicologico capace di portare a ricerche e approdi identitari di tipo anche estremamente radicale, come accade al classico neofita diventato estremista. A questo punto i reclutatori takfiri trovano terreno fertile, suscettibile di esiti devastanti (soprattutto per gli altri) a causa di un fattore psicologico difficilmente sradicabile, per il quale molti esseri umani diventano capaci delle maggiori atrocità di massa una volta che un'ideologia (religiosa e non) "garantisca" loro la liceità meritoria - o addirittura la santificazione - della pratica dell'omicidio e della crudeltà senza limiti. Nel passato abbiamo gli esempi dell'Inquisizione, del nazismo e dello stalinismo, per citare solo gli esempi principali dei livelli cui può giungere la ferocia umana.


Integrazione e ostacoli culturali

L'integrazione resta problematica. Non si può dire che tra i vari modelli di integrazione realizzati in Europa ve ne sia qualcuno sicuramente efficace, ma c'è da chiedersi fino a che punto essi siano stati veramente favoriti dall'interno delle locali comunità islamiche. Un'autocritica da parte di quest'ultime potrebbe rivelarsi utile e aprire prospettive future.

Lo specifico ambiente musulmano in cui si forma il jihadismo è quello sunnita. Aspetto in genere non considerato, poiché predominano l'ignoranza dei media e dei politici, la banalizzazione del fare di ogni erba un fascio riguardo al mondo islamico (molto più plurale e meno monolitico di quanto si pensi) e considerazioni in astratto magari giuste ma non contestualizzate. Come quando si predica l'astrattamente giusta esigenza di lottare contro l'ideologia jihadista anche sul piano culturale senza sapere quali siano le caratteristiche del contesto cui ci si riferisce.

Cominciamo (perché in qualche modo attinente) dalla ricorrente richiesta di presa di posizione dei cosiddetti islamici "moderati". In apparenza tra essi si riscontra un'assordante silenzio, da cui è facile - soprattutto per chi abbia già deciso di farlo - formulare una chiamata di correità o connivenza. Varie considerazioni, tuttavia, sono possibili.

In primo luogo, mentre da un lato dai musulmani in Occidente ci si attende prova della loro lealtà, integrazione o integrabilità, dall'altro poi si chiede loro di protestare o agire come gruppo specifico a parte (e nel caso minoritario) in seno alla cittadinanza in generale. Si fa notare, inoltre, la mancanza di autorevoli fatwa contro il jihadismo, oppure quanto pochi siano gli imam impegnati in questa lotta. Costoro saranno pochi, ma comunque esistono, e da noi l'ultimo in ordine di tempo ad essersi espresso in modo netto è Abd al-Majid Kinani, della comunità islamica di Monfalcone. Peraltro, chi lamenta il numero esiguo di prese di posizione analoghe non si domanda chi proteggerebbe l'audace e magari coerente imam e la sua famiglia contro l'immancabile e sanguinosa rappresaglia jihadista.

E torniamo alle difficoltà di natura culturale. Il carattere sunnita dell'ambito di riferimento del jihadismo ha conseguenze molteplici e tutt'altro che facilitanti. Si tratta di un ambiente in cui non esistono (a differenza di quello sciita) autorità religiose ufficiali e centrali, di modo che vi possono proliferare varie ideologie, moschee di formazione spontanea e imam "fai da te", spesso e volentieri radicali e non controllabili se non dalle autorità politiche e di polizia locali, perché fonte di una notevole carica sociale di violenza e di ricatto, esercitabile innanzitutto in seno alle comunità musulmane.

Si parla della necessità di aiutare e/o formare imam portatori di interpretazioni coraniche non jihadiste, e in proposito sembra che in Italia si vada optando per facilitare loro l'accesso alle carceri, notori luoghi di radicalizzazione islamista. Ora, c'è da considerare basilarmente come non sia del tutto facile per un imam non radicale (o, se si preferisce, moderato e ragionevole) contrastare un predicatore jihadista sul suo stesso terreno, cioè con le armi dell'ermeneutica coranica. Non che ciò sia impossibile, tuttavia le caratteristiche culturali del Sunnismo non lo rendono facile (naturalmente qui non consideriamo la capacita di imporre con violenza la loro ideologia da parte dei takfiri, ma ci limitiamo solo al confronto sul piano dialettico). Una delle grandi differenze tra l'Islam sciita e quello sunnita consiste nell'essere prevalse nel Sunnismo, da molti secoli, interpretazioni letteralistiche del Corano. In termini semplici ciò vuol dire che non si è verificato nulla di similare a quanto avvenuto in Occidente nel campo dell'esegesi biblica, e che la svolta effettuata da Hans Gadamer nel campo dell'ermeneutica è rimasta senza effetti tra i commentatori del Corano.

Questo per dire che fino a quando non si formerà una vasta rete di imam orientati verso un'ermeneutica coranica diversa da quella tradizionale, il contrasto culturale all'ideologia jihadista rimarrà un pio desiderio. La questione è della massima importanza, poiché (a prescindere dall'aver pilotato da Raqqa l'onda di attentati a Parigi) l'esigenza di bonificare culturalmente le comunità islamiche in Occidente va correlata al fatto che il pericolo maggiore deriva dalla formazione "spontanea" di cellule terroriste locali non necessariamente collegate all'Isis o ad al-Qaida, e quindi più sfuggenti. Ma si tratta di un'impresa tutt'altro che semplice; oltretutto perché in buona sostanza vorrebbe dire costituire un'alternativa culturalmente valida alla rete di moschee e predicatori radicali costituita in vari decenni dal denaro saudita e qatariota nell'indifferenza più o meno generale, e particolarmente di quei governi europei che oggi si stracciano le metaforiche vesti a causa della violenza islamista, la cui incubazione è avvenuta sotto i loro occhi.

Nell'Islam sunnita si è verificato un lunghissimo periodo di avvitamento culturale che ha reso molto debole la produzione di veri anticorpi contro l'ideologia jihadista, situazione per molti versi aggravata dalle malefatte dell'imperialismo negli ultimi due secoli. Non c'è da illudersi: fino a quando tutto ciò continuerà sarà illusorio pensare alla possibilità di evitare che all'interno di questo ambiente si riducano ai minimi termini, o alla residualità, i brodi di coltura del radicalismo omicida. Con questo non si vuole invocare o attendere un ipotetico illuminismo islamico, per il quale mancano del tutto le premesse; tuttavia - e la storia dei secoli d'oro dell'Islam lo attesta - un autentico ritorno alle fonti, soprattutto spirituali, potrebbe essere un valido punto di partenza. Ma questo è un moto che può nascere solo dall'interno dell'Islam sunnita, libero da confessionalismi statuali e da fanatismi religiosi.

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