Print
Hits: 3838
Print Friendly, PDF & Email
illatocattivo

Punk Islam

Dopo gli attentati di Parigi del 13 novembre

Il lato cattivo

«Homo sum, humani nihil a me alienum puto»1

218Il «minimo sindacale» e... il resto

Difficile, in queste ore, sfuggire alle banalità e alle petizioni di principio. Molte cose, dal giorno degli attentati di Parigi del 13 novembre, sono state dette e scritte. Per fortuna non sono mancati coloro che, con parole forti, sisono sollevati contro l'asfissiante cantilena del clash of civilisations. E non solo fra i «radicali». Con buona pace tanto di Hollande che di Al-Baghdādī, nessuno scontro fra civiltà eterogenee e irriducibili l'una all'altra è in corso, ma nient'altro che uno scontro intestino, che mostra una volta di più la plasticità di un modo di produzione – quello capitalistico – che sebbene trovi nella democrazia parlamentare la sua traduzione politica più adeguata, è capace di adagiarsi, almeno in via contingente, su quasi tutte le forme di governo, di organizzazione politica e di ideologia, masticando, digerendo e rimettendo in circolazione ogni tipo di materiale o sedimentazione storico-sociali. La brutalità dello Stato Islamico (Daesh) è il segreto il Pulcinella di tutte le avanguardie della nostra «grandiosa, non commestibile civiltà» (Bordiga), di cui esso mette in spettacolo un buon compendio fatto di scheletri nell'armadio: fa cadere le teste sulla pubblica piazza come il Terrore giacobino del 1794; distrugge monumenti storico-artistici come la Gran Bretagna, nel febbraio 1945, devastò Dresda2, capitale del barocco mitteleuropeo; cerca di piegare nemici e detrattori colpendo sul loro suolo patrio la popolazione civile (gli esempi analoghi sarebbero infiniti, ma per farne uno poco citato, si pensi ai numerosi attentati realizzati dall'Irgun Zvai Leumi3). Con lo Stato Islamico siamo – è vero – di fronte a una tensione estrema, forse mai stata così acuta in epoca moderna, tra essere sociale e coscienza, tra orpelli antichi e compiti nuovi, tra «condizioni economiche della produzione» e «forme ideologiche che permettono agli uomini di concepire il conflitto e di combatterlo» (Karl Marx, Prefazione del 1859 a Per la critica dell'economia politica): non che Al-Raqqa sia un'avveniristica Silicon Valley mediorientale, ma – come illustra, del resto, la scelta stessa degli obiettivi dei bombardamenti francesi e russi (raffinerie, centrali elettriche etc.) – nemmeno si tratta di un'enclave precapitalistica.

Come abbiamo già avuto modo di scrivere4, la genesi e il divenire dello Stato Islamico – che è certo una conseguenza dell'intervento militare della Coalition of the Willing in Iraq nel 2003, ma non un suo effetto meccanico o voluto da chissà quale odierno Machiavelli – pone, fra l'altro, il problema dell'obsolescenza oramai conclamata dei confini tracciati dopo la Prima Guerra mondiale in Medio Oriente. L'afflusso massivo di profughi iracheni in Siria (oggi stimati in quasi 1 milione e mezzo) fra il 2003 e il 2010, è stato l'innesco di una reazione a catena in cui si collocano, in successione, la guerra civile in Siria e l'odierna «crisi dei rifugiati». Lo Stato Islamico è intervenuto ad un tempo come acceleratore e come freno di questo effetto-domino, scacciando manu militari curdi e yazidi dai suoi territori, ma allo stesso tempo proponendosi come focolare nazionale per tutti i sunniti, arabi e non5.

La violenza è un agente economico, un catalizzatore, ma per quanto sanguinaria, non si esercita mai in modo del tutto indiscriminato: gli attentati di Parigi hanno fatto seguito a quello di Beirut e all'esplosione di un aereo russo, tutti rivendicati da Daesh. Al di là delle modalità più o meno efferate, la logica che governa questi atti è in fin dei conti semplice e non particolarmente innovativa: una ritorsione sui civili, volta a sanzionare e sottrarre consenso all'impegno militare dei governi dei rispettivi paesi in guerra contro Daesh. Senza dimenticare un precedente importante, il cui ricordo è senz'altro più vivo in Mesopotamia che in Europa: gli attentati di Madrid del 2004 (200morti circa) realizzati da Al-Qaeda – dopo il maldestro tentativo del governo-Aznar di imputarne la responsabilità a Euskadi Ta Askatasuna – furono decisivi per l'elezione di Zapatero e per il ritiro della Spagna dal suo impegno in Iraq.Si può leggere in filigrana il ragionamento dei mandanti degli attentati di Parigi: se la Francia ingranerà la marcia indietro, sarà per noi una vittoria; se infilerà una marcia in più senza inviare truppe di terra, non sarà comunque una sconfitta. Lo spartiacque della crisi del 2008, anche in materia di «sensibilità» pacifista nel Vecchio Continente6, ha spostato l'ago della bilancia in favore del secondo esito; e se da un lato va sottolineato che per lo Stato Islamico si tratta di un male relativo (molti nemici via aria, molto onore via terra), dall'altro, va registrata la posizione, tanto decisiva quanto rischiosa e contestata, della Turchia, refrattaria all'idea di mandare all'assalto i curdi siriani. Fino a quando? Nei più recenti screzi fra Turchia e Russia, nelle reciproche denunce di collusione col nemico, è in gioco anche questo7.

Si potrebbe continuare all'infinito, con considerazioni dello stesso tenore, ma il succo sarebbe in fin dei conti sempre il medesimo: i kalashnikov di Daesh sono la «follia» di un mondo la cui «ragione» è un F-16. Ora, ribadire simili verità è sacrosanto, ma è d'altronde il «minimo sindacale»: a questo stadio, non abbiamo – nel migliore dei casi – fatto che enunciare delle generalità, ancora al di qua di una vera analisi materialistica di ciò che si sta svolgendo sotto i nostri occhi, qui da noi come in Medio Oriente. Limitarsi a questo, servirà al massimo a scandire qualche scialbo slogan, utile, nel migliore dei casi, a épater la bourgeoisie. Per andare «dall'astratto al concreto» (dai rapporti di produzione al mercato mondiale), bisognerebbe, fral'altro, ripensare in maniera esauriente la funzione dello Stato nel modo di produzione capitalistico, il sistema degli Stati e tutto il catalogo dei loro reciproci conflitti, dalla diplomazia fino alla guerra guerreggiata (non guerra«primitiva», né antica, feudale, «asiatica» etc., ma, appunto, specificamente capitalistica8). Non saranno certo le note che seguono ad assicurare un simile lavoro di chiarificazione: ci riterremo soddisfatti se riusciremo a mettere qualche tassello al posto giusto, in vista di una ricerca che è ancora tutta da svolgere. Ogni contributo di altri/e compagni/e sarà, in questo senso, il benvenuto.

 

Perché la guerra?

Non hanno torto i «critici del valore», ad intravvedere all'orizzonte una grande devalorizzazione9: la soluzione capitalistica alla crisi consiste nel risolvere la divaricazione fra capitale accumulato e capacità di valorizzazione.Ma è del tutto erroneo credere, come fa la Wertkritik, che una tale devalorizzazione avrà luogo soltanto sulle piazze borsistiche. Certo, la guerra non è il solo modo per distruggere capitale eccedente, ed essa risulta adeguata allo scopo soltanto quando funge da acceleratore per la generalizzazione di una nuova composizione tecnica ed organica del capitale. Ma in date condizioni di crisi generale, di inasprimento competitivo fra poli di accumulazione, e infine di un potenziale di innovazione latente e non dispiegato, essa può rivelarsi il mezzo più sbrigativo.

Il bombardamento di Dresda come rapporto sociale («La Banquise», n.3, 1984, pp. 57-77)10 è, a nostra conoscenza, uno dei pochi tentativi da parte della teoria comunista, di trattare organicamente il problema della funzione della guerra capitalistica. Ne citiamo qui un breve passaggio:

«La guerra non è di per sé benefica per il capitale. [...] La sua logica [del capitale, NdA] non sta semplicemente nel produrre (altrimenti produrrebbe qualunque cosa) ma nel produrre per valorizzarsi. La guerra lo interessa soltanto nella misura in cui gli permette una riorganizzazione, da cui risulti una maggiore redditività. Ciò si sarebbe potuto verificare dopo il 1918, ma non accadde [...] Avvenne invece dopo il 1945. L'altro errore consiste nel credere che ogni guerra apra, con la forza, nuovi mercati. Giacché il bisogno primario del capitale è quello di valorizzarsi, le sue difficoltà nascono nella produzione, prima di manifestarsi sul mercato. [...] In che maniera una guerra generalizzata favorirebbe una soluzione capitalistica alla crisi? D'abitudine, ci facciamo idee sbagliate sul rapporto guerra-crisi economica (per non parlare delle spiegazioni che chiamano in causa i trafficanti d'armi). La prima di queste idee fa appello alle possibilità di ringiovanimento offerte al capitale dalle distruzioni. Ciò non è affatto automatico; le distruzioni sono utili soltanto quando il capitale ne beneficia – o può beneficiarne – per ricostruire in modo più moderno, ovvero operare un miglioramento dell'apparato produttivo o creare un apparato produttivo nuovo».

Una simile messa a punto, abbozzata oltre trent'anni fa, costituisce ancora una buona base di partenza; ma il testo in questione fu scritto in un contesto ben diverso da quello odierno, e concludeva qualificando come «mitica» la prospettiva di una Terza Guerra mondiale. Viceversa, ci si chiede oggi da più parti se non saremmo, proprio adesso, ai suoi inizi11. La risposta è, per ora, negativa. Ma è pur vero che, diversamente da quanto si sente ancora dire, un rilancio dell'accumulazione difficilmente vedrà la luce senza un aumento considerevole delle operazioni militari ad opera dei grandi centri capitalistici. D'altra parte, la guerra attuale in Siria non corrisponde nemmeno lontanamente al bisogno di distruzione che richiederebbe oggi una devalorizzazione massiva del capitale attraverso la guerra: non è bombardando anche tutte le industrie presenti sul territorio di Daesh, che la crisi potrà essere risolta. Ma questo non significa che la guerra attuale non ne stia preparando una più grande: definendo schieramenti e rapporti di forza, verificando sul campo le capacità di contingenti e infrastrutture militari talvolta sottoutilizzati e un po' arrugginiti, mettendo alla prova le reazioni della «opinione pubblica» di fronte alle pulsioni belliciste e alla restrizione delle libertà costituzionali (leggi: «stato d'emergenza», di cui in Francia già si profila un prolungamento oltre il limite dei tre mesi).

 

Uno stallo sociale e politico

Quanto alla possibilità di un nuova fase di prosperità economica, essa coinciderà prevedibilmente con un dispiegamento più completo della «rivoluzione digitale». Basta avventurarsi un po' nei meandri della stampa padronale specializzata, indirizzata alle imprese, per rendersi conto che vi è tutto un dibattito e una ricerca di soluzioni, in particolare per tagliare i costi di direzione e inquadramento del personale.

Per salvarsi – è bene essere chiari su questo punto – il modo di produzione capitalistico deve ancora attraversare la parte più dura e insidiosa del suo purgatorio, soprattutto nei suoi centri, realizzando cambiamenti radicali che nessuno Stato contemporaneo a capitalismo maturo ama, né è più abituato ad intraprendere. Un tempo si usava dire che ogni guerra capitalistica è una guerra contro il proletariato. Dati alla mano, si può affermare egualmente che le guerre contemporanee (Palestina, Bosnia, Iraq, Afghanistan etc.) producono proletariato, nella misura in cui frazioni consistenti di displaced people abbandonano in maniera pressoché irreversibile una situazione anteriore che, a seconda dei casi, poteva essere spuria (semi-proletaria) o legata alla detenzione di esigui capitali produttivi o improduttivi (commercio, piccole manifatture etc.). Ma nei centri storici dell'accumulazione, dopo quarant'anni di ristrutturazioni industriali, di compressione salariale, di precarizzazione del mercato del lavoro, di neutralizzazione della «contrattazione concertata», quale futuro si può delineare per la guerra contro i proletari? Certo, teoricamente non vi è alcun limite assoluto alla miseria e all'aumento dello sfruttamento12, ma nella pratica la faccenda è un poco più complicata: sarà possibile, per la classe dei capitalisti, fare del tutto astrazione da un certo volume, storicamente dato, di bisogni necessari? Bisogna inoltre chiedersi come l'attacco possa proseguire senza pestare i piedi alle classi medie salariate. Da almeno vent'anni, si sente parlare di «proletarizzazione delle classi medie», senza che la loro egemonia simbolica ne risulti minimamente scalfita (città come Parigi e New York sono paradigmatiche in questo senso); senza che la gentrification dei quartieri operai a beneficio di yuppies, hipsters e altri mangiatori di plusvalore, si sia fermata un solo istante; senza che la stratificazione sociale si sia semplificata in termini puramente duali – e pour cause: dato pressoché per perso il voto operaio, quale governo «responsabile»(di centro-destra o centro-sinistra) si azzarderebbe a falciare la propria base elettorale, ovvero a segare il ramo su cui sta seduto? In Francia, giornalisti, grafici, designer, artisti, architetti, manager, quadri di ogni tipo del settore privato e di quello pubblico, si raccolgono intorno alle vittime degli attentati di Parigi (anch'essi per la maggior parte giornalisti, grafici, designer, artisti, architetti, manager...) ignari del fatto che sono forse condannati a fare, quanto meno metaforicamente, la stessa fine – per mano di quello Stato che hanno omaggiato esponendo alle finestre il tricolore. 219In nome del medesimo tricolore, il Front National propone un programma economico che Pierre Gattaz, presidente del MEDEF (la Confindustria d'Oltralpe), ha definito, appena qualche giorno fa, di ispirazione «social-comunista», paragonandolo al Programma Comune della Sinistra (PS e PCF) del 1981: ritorno al Franco, aumento delle tasse sulle importazioni, ma soprattutto abbassamento dell'età pensionabile a 60 anni e aumento di 200 euro del salario minimo. Tutta la questione è di sapere chi è «dentro» e chi è «fuori», e sarebbe di un candore fin troppo beato non vedere che – non proprio fra gli ultimi, ma fra i penultimi e i terzultimi arrivati – c'è chi ha voglia di chiudere la porta dietro di sé.

In tutto questo, che fine ha fatto l'antifascismo culturale diffuso del 2002,quando Le Pen padre arrivò al ballottaggio alle elezioni presidenziali? La stessa fine dei movimenti pacifisti di inizio secolo. Ad alzare la voce contro il Front National, restano nientemeno che i discepoli dei Chicago Boys e... l'arte contemporanea13! Merry Christmas and a Happy New Year.

Quanto all'Islam, il vecchio problema di sapere se gli immigrati musulmani, o semplicemente presunti tali, amino realmente la Francia, è ormai superato: d'ora in poi – Front National o meno – saranno costretti ad amarla!

 

Monsters of the world

Che fare, allora? O, più basilarmente, che dire? Che la guerra attuale «non è la nostra»? Malgrado il suo cittadinismo ridicolo, Etienne Balibar ha azzeccato la formula giusta: non in guerra, ma nella guerra – volenti o nolenti – ci siamo (cfr. Dans la guerre, «Libération», 16-11-2015); dire che non è «la nostra» – visto e considerato che comunque non siamo noi a partire per il fronte – non può che assumere, hic et nunc, un senso assai diverso rispetto a quello dell'internazionalismo proletario dei bei tempi andati: un senso di ripiego sul proprio orticello nazionale, che ha più a che vedere con Herbert Hoover14 che con Rosa Luxemburg. Lanciare via facebook appelli al «disfattismo rivoluzionario» in Medio Oriente? Sia pure, ma per ragioni che sono grosso modo le stesse, come pretendere un simile slancio da altri, quando per noi non implica alcuna conseguenza sul piano pratico (della serie: «armiamoci e partite»)? A che pro, infine, prendersela con la religione? Come se la propaganda anticlericale di anarchici e repubblicani abbia mai spostato unavirgola nella storia italiana...

«La critica della religione [...] è, in germe, la critica della valle di lacrime, di cui la religione è l'aureola. La critica ha strappato dalla catena i fiori immaginari, non perché l'uomo porti la catena spoglia e sconfortante, ma affinché egli getti via la catena e colga i fiori vivi.» (Karl Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione15).

È significativo che in questo testo della giovinezza, Marx faccia appello al proletariato tedesco, non perché scateni la sua propria rivoluzione, ma perché porti a compimento quella di una borghesia pavida: «In Germania l'emancipazione dal Medioevo è possibile unicamente in quanto sia insieme l'emancipazione dai parziali superamenti del Medioevo. [...] La testa di questa emancipazione è la filosofia, il suo cuore è il proletariato»16. Due secoli di lotte di classe hanno ampiamente dimostrato non solo che, per i proletari, «i fiori immaginari» che abbelliscono le catene sono ben lungi dall'essere circoscritti alla religione – e che quelli della religione non sono necessariamente più mistificatori di altri – ma anche che quei «fiori» non possono essere strappati, senza prima avere spezzato la catena. Religione, «oppio dei popoli»? Sì, ma senza dimenticare che l'oppio è diventato a sua volta una religione. Tra il conforto della preghiera e tutte le altre «sostanze» più o meno legali con cui si drogano i proletari, la frontiera tra il meglio e il peggio è più che mai incerta.

Poste tutte queste riserve riguardo ai dibattiti che animano i «rivoluzionari» delle nostre latitudini, proviamo a individuare le crepe, i possibili punti di rottura sur place, nel contesto dell'attuale conflitto in Medio Oriente. A partire dal conflitto con l'Iran (1980-'88), la storia della lotta di classe in Iraq è profondamente segnata dalle vicissitudini della guerra e, specificamente, dal fenomeno della diserzione. Furono migliaia di disertori dell'esercito baathistaa scatenare l'insurrezione che, nel 1991, da Bassora, passando per Baghdad, Nassiriya, Al-Amara etc., si estese fino alle zone curde nel nord del paese. Attualmente, sono le truppe del governo di Baghdad a soffrire gli episodi di diserzione più importanti, di fronte a milizie dello Stato Islamico considerate feroci e apparentemente invincibili. Abbiamo già accennato al ruolo di inquadramento della proletarizzazione, di riassorbimento dell'esercito baathista in dissoluzione – incluse le milizie anti-Al-Qaeda create e rapidamente disciolte dal governo di Baghdad – giocato da Daesh in Iraq. Questo ruolo è oggi cementato dalle variegate risorse finanziarie del «Califfato» (salari dei miliziani relativamente elevati e pagati regolarmente). La questione è di sapere se una tale configurazione sia sostenibile sul lungo periodo. Quella di Daesh è una formazione sociale «mostruosa» non moralmente, ma socialmente, e non tanto per i mezzi che impiega, ma perl'eclettismo con cui li combina; ammettendo che sia in grado di perpetuarsi a dispetto dei numerosi nemici, una normalizzazione a medio termine è comunque inevitabile, e dovrà fornire una risposta alle sue debolezze interne: il carattere anomalo del suo sistema monetario, la fuga dei capitali stranieri e la scarsezza degli investimenti produttivi in loco, l'eccessiva tendenza ad appoggiarsi sulle vestigia tribali, il rischio di dover finanziare un welfare multiforme (calmiere dei prezzi e degli affitti, sussidi etc.) con l'imposta sul reddito (mediamente assai modesto), l'incerta formalizzazione giuridica dei rapporti sociali a tutti i livelli, la propensione all'emigrazione fra coloro che se lo possono permettere etc. Soprattutto dopo la presa della Banca di Mosul, si fa spesso riferimento alle mirabolanti risorse finanziarie dello Stato Islamico. Ciononostante, quest'ultimo non è il Lussemburgo, e sul suo territorio vivono più di 8 milioni di persone: se il suo warfare alla rovescia dovesse iniziare a incepparsi, Daesh si esporrà al rischio di defezioni, anche fra i suoi miliziani. Proletari e piccolo-borghesi di tutti i paesi sono affluiti al Califfato per combattere in nome di Allah. Che faranno se il Califfato dovesse abbandonarli? L'interrogativo ci pare legittimo. Salvo credere – come un altro ineffabile «critico del valore»17 – che il proletariato sunnita di Mesopotamia, lasciato alle sue proprie forze, non possa elevarsi a nient'altro che ad una coscienza da tagliagole. «Non di solo pane vive l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Matteo 4,4). Rimane che il pane riempie la pancia, la parola divina no.

Al diavolo, dunque, i dispensatori di attestati di moralità rivoluzionaria («la salvezza che viene dalle opere»)! Si crede forse che i soldati che parteciparono al movimento dei consigli in Germania, dopo la Prima Guerra mondiale, avessero le «mani pulite»? Avevano ucciso tanti poveri cristi come loro, e forse anche peggio. Nell'immensa rigenerazione sprigionata da un'insurrezione comunista, gli individui non sono più ciò che erano fino al giorno prima, e fanno tabula rasa – nella pratica, e non nei discorsi – di odi, inimicizie o diffidenze ataviche scolpite nelle menti e nei corpi, e legate a vicende (e torti) di lungo corso:

«Essi resterebbero “ciò che erano” soltanto se, insieme con san Sancio [Stirner, NdA] “cercassero la colpa in se stessi”; ma sanno troppo bene chesolo in circostanze mutate cesseranno di essere “ciò che erano”.» (Karl Marx &Friedrich Engels, L'ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 1993, p. 196, trad. modificata).

Coloro che vedono nell'aberrazione soltanto l'aberrazione, sono come coloro che vedono nella miseria nient'altro che la miseria.

_____________________________

Note
1 «Sono un essere umano, non ritengo a me estraneo nulla di ciò che è umano». Questa massima di Terenzio compare nel questionario che Marx compilò, su richiesta della figlia Laura, alla voce «Il tuo proverbio preferito». Cfr. David Rjazanov, Carlo Marx. Uomo, pensatore, rivoluzionario, Fasani, Milano 1946.
2 Nella notte fra il 13 e il 14 febbraio 1945, la città tedesca di Dresda venne completamenterasa al suolo dai bombardamenti dell'aviazione anglo-americana, che provocarono decine di migliaia di morti fra i «civili», concentratisi in gran numero (circa 200.000 profughi, secondo alcune stime, che andavano ad aggiungersi ad una popolazione di oltre 600.000 abitanti) in una città priva di obiettivi militari e quindi ritenuta «sicura».
«La tattica definita “area bombing” (o “terror bombing”) era stata messa a punto all'inizio del 1942, quando il fisico Frederick Lindemann, membro del Gabinetto di Guerra di Winston Churchill, presentò uno studio in cui si invocava una campagna di bombardamenti strategici delle città tedesche allo scopo non solo di colpire i centri industriali più importanti, ma di distruggere deliberatamente il maggior numero di abitazioni, per ridurre la forza lavoro disponibile. Le case popolari dei quartieri operai con la loro densità, sembravano un bersaglio adatto all'uso delle bombe incendiarie». (Dino Erba, Nascita e morte di un partito rivoluzionario. Il Partito Comunista Internazionalista. 1943-1952, All'Insegna del Gatto Rosso, Milano 2012, pp. 43-44).
3 In ebraico, «Organizzazione Militare Nazionale»: gruppo paramilitare sionista, noto anche come Etzel, attivo nel periodo del Mandato britannico sulla Palestina (1931-'48). Fu protagonista, tra l'altro, dell'attentato all'ambasciata britannica di Roma del 31 ottobre 1946.
4 Cfr. Il Lato Cattivo, «Questione curda», Stato Islamico, USA e dintorni; disponibile sul nostro blog.
5 Pare che in occasione della battaglia di Kobane, i combattenti curdi nelle file dello Stato Islamico fossero circa il 50% sul totale delle milizie impegnate. Su questo e su molti altri punti, inerenti soprattutto il funzionamento interno di Daesh, segnaliamo, in lingua francese, Tristan Leoni, Califat e barbarie. Première partie: de l’État, disponibile sul sito web http://ddt21.noblogs.org/ .
6 Nel 2003, la mobilitazione No War in Gran Bretagna superò, nei momenti di picco, il milione di partecipanti. Secondo Le Monde, sabato 29 novembre 2015, i manifestanti scesi in piazza contro la partecipazione britannica alla coalizione anti-Daesh, erano solo 5.000, e appena qualche migliaio il martedì seguente.
7 È bene ricordare che vi è un patto di non aggressione fra Bashar Al-Assad e il PYD, e chequest'ultimo – al di là dell'immagine idealizzata veicolata dai gauchistes d'Occidente – è ben lungi dall'essere estraneo a pratiche di pulizia etnica soft: i casi di arabi e turkmeni cacciati dai territori controllati dal PYD, sono ben documentati.
8 «A grandi linee, i modi di produzione asiatico, antico, feudale e borghese moderno possono essere designati come epoche che marcano il progresso della formazione economicadella società.» (Marx, Per la critica dell'economia politica, Editori Riuniti, Roma 1974, p.6).Non esiste alcuna storia autonoma della guerra; esiste una successione di modi di produzione,ciascuno dei quali conferisce a ciò che chiamiamo «guerra», delle funzioni di volta in voltaspecifiche.
9 Cfr. Ernst Lohoff e Norbert Trenkle, Die große Entwertung, Unrast Verlag 2012.
10 Una traduzione italiana di questa testo è pronta da diversi anni. Visto il contesto odierno,incitiamo i compagni che vi si dedicarono (il Centro d'Iniziativa Luca Rossi) a tirarla fuori dalcassetto e renderla disponibile.
11 Cfr., ad esempio, il sito www.terzaguerramondiale.net.
12 Il limite assoluto è v (capitale variabile) = 0, ovvero una situazione di irriproducibilità totale, tanto per il proletariato quanto per il capitale.
13 Una «giornata d'azione» è stata indetta a Marsiglia per sabato 28 novembre, da partedegli ambienti dell'arte contemporanea, per protestare contro le sprezzanti affermazioni diMarion Maréchal-Le Pen (candidata per il Front National alle elezioni regionali nel dipartimento Provenza-Alpi-Costa Azzurra, e risultata poi vincitrice con il 41,2% dei consensi),la quale si era recentemente dichiarata partigiana di una «cultura popolare», contro «un'arted'élite inaccessibile» ad uso di «qualche decina di bobos [bourgeois-bohème, NdA] che fannofinta di meravigliarsi di fronte a due punti rossi su una tela». Ovviamente, dietro alle paroledegli uni e dell'altra, ci sono i sordidi interessi materiali, nella fattispecie l'entità delle sovvenzioni destinate dagli enti locali all'arte e alla cultura.
14 Presidente degli Stati Uniti d'America dal 1929 al 1933; repubblicano, fu fautore, inpolitica estera, di una linea fortemente isolazionista.
15 In Karl Marx, La questione ebraica, Editori Riuniti, Roma 1996, p. 50.
16 Ivi, p. 69.
17 Tomasz Konicz, Barbarie globalizzata. Un tentativo di comprendere il fenomeno dello «Stato islamico», disponibile sul blog dell'autore ( http://www.konicz.info/?p=2863 ) e contenente un buon numero di cialtronerie, come la seguente: «La differenza principale tra lagrande impresa globale e lo Stato Islamico è che l’accumulazione di capitale è il fine in sé di tutte le attività delle grandi imprese multinazionali. [...] Per lo Stato Islamico, tuttavia, l’accumulazione di capitale rappresenta solo un mezzo per un altro fine irrazionale, che consiste in un lavoro di distruzione e annichilimento il più efficienti possibile». Daesh, di cuinon si capisce se sia uno Stato o un'impresa, sarebbe dunque un funambolo capace di piegarele leggi del capitale a suo piacimento. Wow! Altro che Keynes!
Web Analytics