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La Siria, lo Stato Islamico e la “guerra all’Europa”/prima parte

di Militant

le radici del disordine mediorientaleSubito dopo gli attacchi del 13 novembre abbiamo pensato di prenderci un po’ di tempo per provare a scrivere qualcosa di più “ragionato” su quello che era accaduto a Parigi. Man mano che buttavamo giù gli appunti ci siamo accorti, però, che era impossibile provare a smontare il meccanismo bellico che si era attivato senza provare a spiegare la funzione di “mostro provvidenziale” che svolge oggi lo Stato Islamico in medioriente. Però non si possono comprendere le peculiarità del Califfato senza tener conto della guerra siriana, semplicemente perchè senza il conflitto in Siria l’IS non esisterebbe. E a sua volta non si possono individuare le ragioni profonde della guerra che dal 2011 ha mietuto più di 200 mila morti, senza aver chiare le mire e le ambizioni di potenze regionali e globali che in quella guerra giocano un ruolo decisivo. E poi c’è anche il fallimento dei processi di decolonizzazione, la globalizzazione liberista, la crisi… insomma quello che doveva essere un post è diventato una cosa troppo lunga per essere proposto tutto in una volta. Per cui abbiamo deciso di pubblicarlo a puntate e farlo diventare, alla fine del percorso, un “documentino” scaricabile che (speriamo) possa aiutare a contestualizzare i fatti.

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I. Le radici del disordine mediorientale

Nello spiegare un evento passato o presente le argomentazioni addotte dai media non seguono mai un filo logico o una ricostruzione fedele di quanto accaduto, ma preferiscono fornire versioni che fanno sempre più leva sull’emotività degli spettatori, seguendo lo schema di quello che Losurdo, in un suo recente lavoro, definisce giustamente “il terrorismo multimediale dell’indignazione”. L’opinione pubblica viene “bombardata” (nemmeno troppo metaforicamente) di immagini e informazioni che non forniscono alcun apporto nella comprensione dei fatti e il cui unico scopo risulta essere quello di incanalare questa indignazione nei confronti del nemico di turno, innalzato per l’occasione al rango di “male assoluto”.

I giorni successivi alla strage del 13 novembre e le roboanti dichiarazioni di guerra allo Stato islamico hanno dimostrato ancora una volta l’intima verità di queste considerazioni. Da settimane viviamo nel frame della “guerra all’Europa”, immersi in un flusso di informazioni e notizie che ha davvero pochi precedenti, e il cui unico tratto distintivo sembra essere quello della sistematica decontestualizzazione degli avvenimenti. Le poche voci che osano discostarsi da questa chiave di lettura, anche solo per un riflesso pacifista, vengono prontamente bastonate dai Maître à penser che gli rinfacciano di far parte della vecchia sinistra antioccidentale. In un mondo in cui è venuta a mancare la contrapposizione tra i due grandi campi ideologici riuscire ad orientarsi senza la bussola del materialismo diventa sempre più arduo, se non impossibile. Proviamo però a dirlo in estrema sintesi: con la cosiddetta globalizzazione il modo di produzione capitalistico ha preso possesso dell’intero pianeta coinvolgendo tutte le aree nella circolazione delle merci e dei capitali e ha determinato un sistema multipolare in cui grandissimi Stati o entità di stazza continentale entrano in competizione tra loro e con potenze regionali. Placche tettoniche in continuo movimento destinate inevitabilmente a scontrarsi. E dove questo accade si creano aree di crisi e linee di frattura che inevitabilmente si combinano con rivalità secolari, odi etnici e confessionali. L’elemento di novità non va dunque ricercato nella “tendenza alla guerra”, che fin da Lenin sappiamo caratterizzare il capitalismo nella sua fase imperialista, quanto piuttosto nel fatto che i nessi della globalizzazione collegano in modo sempre più stretto queste crisi alla metropoli. Così che conflitti generati in Medio Oriente si riverberano drammaticamente nelle città della vecchia Europa. In questa prospettiva gli attentati in Turchia e poi in Europa vanno letti come un messaggio dei jihadisti e dei loro complici a chi li ha usati e poi li ha lasciati soli in balia dei missili russi e iraniani. Proviamo dunque a riavvolgere, seppur velocemente, il filo rosso delle politiche coloniali e neocoloniali di quest’ultimo secolo per provare a inquadrare il contesto.

Il Medio Oriente contemporaneo è figlio dell’ultima opera di ingegneria coloniale dell’Europa. Nelle ex province arabe il crollo dell’impero ottomano e la spartizione europea delle sue spoglie hanno sostituito l’ordine imperiale con un sistema di Stati fortemente instabile, costellato da una sequenza di nodi irrisolti che hanno alimentato molti dei conflitti scoppiati in seguito. Nonostante l’assetto politico mediorientale definito dalla Conferenza di Sanremo (che nel 1920 ridisegnò i confini interni della regione) non abbia recepito integralmente i contenuti dell’accordo di Sykes-Picot del 1916, è comunemente a questi ultimi che si fa risalire la riconfigurazione del Medio Oriente sopravvissuta sino agli anni recenti. Tali accordi stabilirono le aree di influenza delle potenze vincitrici assegnando alla Francia: la Turchia sud orientale, l’Iraq settentrionale e il territorio corrispondente agli attuali Stati di Siria e Libano. Mentre alla Gran Bretagna andarono la Palestina, l’attuale Giordania e l’Iraq centromeridionale. Per quanto relativamente lontani nel tempo, eventi come gli accordi Sykes-Picot (1916), la promessa di Balfour (1917), la frantumazione dell’impero ottomano (1920-23) e la nascita di Israele (1948) rimangono scolpiti nella memoria arabo-islamica come altrettanti episodi chiave della dominazione coloniale europea. La spartizione delle province arabe della Sublime Porta comportò inoltre la trasposizione del modello westfaliano di Stato-Nazione secondo linee elaborate in Europa nel corso di secoli e i cui elementi costitutivi erano essenzialmente la delimitazione di un assetto territoriale e politico preciso, e la creazione di frontiere sulle quali un governo esercitava la propria sovranità in nome del popolo. In una regione in cui le frontiere politiche erano state sempre storicamente poco definite la creazione di confini stabili da parte delle potenze europee, senza tener conto della composizione etnica e della storia delle popolazioni locali, costituì una pesantissima ipoteca sul futuro. Per lungo tempo le potenze europee fecero leva su tali contraddizioni per perpetrare il proprio dominio secondo il principio del divide et impera. Il retaggio coloniale ha così permeato la storia della regione fino ad oggi, sia perché il colonialismo ha modellato gli Stati in cui attualmente è suddivisa l’area mediorientale, sia perché la fase della decolonizzazione non si è mai realmente conclusa. Anzi tale rapporto di subordinazione si è spesso rinnovato attraverso il consolidamento di una forma di egemonia coloniale incentrata sull’assoggettamento economico.

sykes picot

L’attuale sfaldamento dell’ordine regionale sotto i colpi delle “primavere arabe”, e sotto l’urto dei conflitti che hanno flagellato il mondo arabo islamico dal 1990 ad oggi, può dunque essere spiegato completamente solo tenendo conto di questa evoluzione storica. Negli anni Cinquanta e Sessanta l’ondata anticoloniale spazzò via le élite imposte dagli europei, ma il crollo o la mancata realizzazione delle aspettative suscitate hanno messo a nudo i regimi nazionalisti creando una voragine di legittimità sempre più spesso riempita dall’Islam poitico. I valori di unità e laicità del nazionalismo arabo avrebbero dovuto assicurare la coesione territoriale e politica dei nuovi Stati facendo dimenticare le divisioni interne di ordine etnico e confessionale. La riorganizzazione della società su basi politiche e sociali moderne avrebbe dovuto produrre come effetto l’indebolimento dell’influenza dei gruppi basati sui vincoli di lignaggio, appartenenza familiare, tribale e territoriale. Il fallimento di questo processi è quindi fondamentale per comprendere la crisi politica e di identità che ha sconvolto l’intero Medio Oriente. Quando le repubbliche arabe erano nate, intorno alla metà del secolo scorso, avevano adottato un contratto sociale d’ispirazione socialista imperniato sui diritti economici come il lavoro e l’assistenza sociale in cambio di un sistema politico rigido. Il processo di “liberalizzazione” cui sono andati incontro questi regimi nell’ultimo ventennio, sotto la spinta della globalizzazione neoliberista e secondo i piani di “aggiustamento strutturale” indicati dalle principali istituzioni economiche internazionali, è stato accompagnato da un progressivo smantellamento dello stato sociale e da un generale arretramento dell’intervento statale in economia. Questo non ha fatto altro che esacerbare le disuguaglianze, aumentando la disoccupazione e le sacche di povertà e che hanno reso sempre più intollerabile l’intera architettura politica. Fin dai primi anni Novanta, quando paesi come l’Egitto, la Tunisia, il Marocco e la Giordania cominciarono ad applicare in maniera massiccia questi programmi di riforma strutturale, apparve chiaramente che la formula era sbilanciata; la crescita economica fu accompagnata da un accesso sempre più diseguale all’istruzione e ai servizi essenziali, mentre l’esigenza di creare un “ambiente favorevole” agli investimenti stranieri si tradusse in politiche che riducevano i diritti dei lavoratori. In Egitto ad esempio i programmi di aggiustamento strutturale del Fmi determinarono la privatizzazione di gran parte dell’industria tessile egiziana mentre la manodopera del settore, che ammontava a mezzo milione di persone, venne falcidiata da un’ondata di licenziamenti che la ridusse della metà. Le primavere arabe, questa strana combinazione di rivoluzione, controrivoluzione e intervento straniero, hanno dunque rappresentato il tracollo di un sistema che si era forgiato politicamente nell’era della guerra fredda e della decolonizzazione, per poi riconvertirsi economicamente all’ombra del neoliberismo imposto dalla globalizzazione di matrice statunitense. Sullo sfondo, come detonatore, la crisi esplosa negli Stati Uniti nel 2007 e propagatasi rapidamente attraverso i mercati globali in tutto il pianeta.

 

II. Siria: la libanizzazione programmata

Il moderno stato siriano è frutto anch’esso degli accordi di Sykes-Picot. La Siria storica (Bilād al-Shām) che comprendeva gli attuali Stati di Siria, Libano, Giordania e Palestina/Israele venne infatti smembrata dalle potenze coloniali in base ai suddetti accordi. La Gran Bretagna divise la Palestina siria la libanizzazione programmatamandataria dalla Transgiordania (l’attuale Giordania), mentre la Francia ricavò dalla restante parte della ”Grande Siria” uno stato alauita, in aggiunta al Gebel druso e al Grande Libano, che sarebbe poi divenuto il Libano attuale. L’attuale Repubblica Araba Siriana è, insieme al Libano, anche il Paese meno omogeneo dell’area dal punto di vista comunitario. Prima dell’inizio del conflitto la sua popolazione di oltre ventidue milioni di abitanti era composta in maggioranza da arabi sunniti (60%), ma comprendeva anche un 13% di alauiti, un 10% di cristiani e un 3% di drusi, cui bisognava poi aggiungere ismailiti e sciiti. Tra le minoranze etniche spiccano poi i curdi, che rappresentano il 9% della popolazione, oltre a turkmeni e circassi e a un’importante comunità armena. A complicare questo mosaico confessionale ed etnico contribuivano poi circa mezzo milione di profughi palestinesi appartenenti a tutte le classi sociali e un milione e mezzo di profughi iracheni, riparati in Siria dopo l’invasione statunitense del 2003.

Gli alauiti, a cui appartengono gli al-Asad, sono stati per lungo tempo la parte più povera e arretrata della società siriana e poiché il loro corpus di credenze era molto lontano dall’islam, erano anche considerati e trattati come dei non musulmani. Fino agli anni Venti erano conosciuti con il nome di nosayri, termine che rimandava alla loro estraneità alla famiglia islamica e fu solo sotto la potenza mandataria francese che prese piede l’uso del termine alawi che rimanda ad Alì (il genero del profeta Maometto) accomunando in qualche modo gli alauiti agli sciiti. I francesi, dal canto loro, incoraggiarono il separatismo alauita per allontanare questa comunità dal movimento nazionalista siriano. Nel 1936 i nazionalisti arabi, nel tentativo di assicurarsi l’appoggio alauita alla creazione di uno stato siriano indipendente, ottennero però da una delle più alte autorità sunnite dell’epoca, il Gran Mufti di Gerusalemme, Muḥammad Amīn al-Ḥusaynī, una fatwa che dichiarava gli alauiti membri della nazione islamica.

siria etno religiosa

Dopo l’ascesa al potere di Hāfiz al-Asad nel 1970 molti alauiti lasciarono le loro roccaforti nelle montagne del nord-est della Siria per stabilirsi nelle città portuali di Tartus, Latakia, Banias e Jableh, dove tutt’oggi costituiscono la maggioranza della popolazione. La carriera militare e l’adesione al Ba’th, ispirato dai principi di socialismo e laicità, costituirono all’epoca un potente mezzo di ascesa sociale. Un fattore tutt’altro che secondario per cercare di spiegare quello “spirito di solidarietà” (ʻaṣabīya) che unisce indissolubilmente la comunità alauita alla famiglia al-Asad. Per governare il paese gli alauiti tentarono inoltre di uscire dal loro isolamento, cercando di ottenere il riconoscimento degli sciiti, grazie alla fatwa dell’imam Moussa al-Sadr, e al tempo stesso stringendo rapporti economici con le élite urbane sunnite. Per fare questo il Ba’th incluse nella propria piattaforma economico-politica alcune importanti concessioni a favore di questa classe sociale, attenuando la propria originaria ispirazione socialista. Il matrimonio tra Bashar al-Asad e Asma Akhras, proveniente da una famiglia sunnita, è per certi versi una dimostrazione plastica di questo continuo tentativo di allargare la propria base sociale. La natura laica dell’apparato statale rappresentò un elemento attrattivo e protettivo anche per le altre minoranze non musulmane. La Repubblica Araba Siriana non riuscì, però, a contenere il risentimento crescente che covava in alcuni segmenti della società e che veniva fomentato dall’estero. Tale risentimento sfociò nell’opposizione dura e a tratti violenta del movimento sunnita dei Fratelli Musulmani. Il governo, colpito da attentati ed attacchi armati, reagì con una repressione brutale culminata nel massacro del 1982 ad Ḥamā. Nel 1979 la rivoluzione iraniana e la deposizione dello Shāh gettarono le premesse per la storica alleanza tra la Siria e l’Iran, ormai fuori dall’orbita statunitense. Quell’alleanza, che dura ancora oggi, costò a Damasco pesanti ritorsioni economiche da parte dell’Arabia Saudita e delle altre petromonarchie, impegnate all’epoca a finanziare Saddam Hussein nella guerra contro l’Iran. Mantenendosi fedele a questa alleanza Bashar al-Asad ha respinto sia le pressioni di Erdoğan che quelle delle monarchie del Golfo che nel 2010 offrirono a Damasco l’equivalente di tre anni di bilancio dello stato affinché rompesse i rapporti con la repubblica degli ayatollah (Il Sole 24 ore del 28/12/2012).

Eppure, quando nel 2000 il trentacinquenne Bashar al-Asad subentrò al padre Hāfiz, erano davvero in pochi quelli che avrebbero scommesso sulla capacità del giovane presidente di raccogliere la pesante eredità paterna. Contrariamente ad ogni aspettativa, attraverso una scaltra azione diplomatica, negli anni precedenti allo scoppio delle rivolte arabe la Siria era tornata ad essere il fulcro degli equilibri regionali, controbilanciando la propria dipendenza da Teheran con il rapporto privilegiato stabilito con la Turchia. Nel frattempo Damasco aveva anche riallacciato un difficile dialogo con la nuova amministrazione americana di Barack Obama, pur continuando a far parte di quell’Asse della Resistenza (composto da Siria, Iran, Hamas e Hezbollah) che si opponeva all’egemonia israelo-americana nella regione. Gli anni della presidenza di Bashar al-Asad coincisero inoltre con l’avvio di un processo di liberalizzazione dell’economia e di una serie di riforme orientate al mercato, e se non si tiene conto dell’impatto della globalizzazione sulla Siria difficilmente si potrà comprendere lo scoppio della crisi. Il parziale inserimento del Paese nello spazio economico globale favorì l’arricchimento delle classi urbane, che poterono godere dell’aumento del volume degli scambi commerciali e dell’afflusso di turisti. Fra il 2004 e il 2009 il tasso di crescita dell’economia siriana si attestò intorno al 6% annuo. Un incremento che sbalordì statunitensi ed europei suscitando interessi ed appetiti stranieri. L’Unione Europea ad esempio, tirò fuori dal cassetto un progetto di “Accordo di associazione” con la Siria accantonato alcuni anni prima e anche l’Italia, da parte sua, non fu da meno. Nel marzo del 2010 l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano insignì il giovane presidente siriano della più alta onorificenza prevista dagli ordinamenti di benemerito internazionali. Il presidente della Repubblica Araba Siriana, che solo pochi mesi più tardi sarebbe stato accusato di essere uno dei dittatori più sanguinari in circolazione, venne infatti fregiato del titolo di “Cavaliere di gran croce decorato di gran cordone”. Dopo aver concesso l’alta onorificenza ad al-Asad il presidente Napolitano, accompagnato dall’allora ministro degli esteri Franco Frattini, compì la prima visita di un capo di stato italiano in Siria. Le immagini, facilmente recuperabili in rete, lo ritraggono al banchetto ufficiale di Damasco l’11 marzo del 2010 insieme a al-Asad, all’elegante moglie Asma e alla signora Clio, mentre un video ci restituisce le solenni parole pronunciate dal presidente della Repubblica Italiana: consideriamo essenziale il ruolo della Siria per la pace in Medio Oriente e per la stabilizzazione dell’intera regione. Mentre altre immagini, di appena due anni prima, ci mostrano il “sanguinario dittatore” ospite di Sarkozy sulla tribuna presidenziale durante la parata del 14 luglio in Francia (vedi).

giorgio napolitano assad

Il processo di liberalizzazione economica, elogiato dalle capitali straniere, stava però concentrando la ricchezza in poche mani, mentre parte della popolazione, soprattutto quella giovanile e scolarizzata, rimaneva disoccupata o sottoccupata. Gli stipendi della classe media non reggevano il passo con l’inflazione e le importazioni a basso costo, soprattutto dalla Turchia, spingevano fuori mercato i piccoli produttori contribuendo alla pauperizzazione della classe operaia urbana. Il ritiro dello Stato dall’economia ebbe inoltre effetti dolorosi per le popolazioni rurali fino ad allora inquadrate in un sistema di cooperative sovvenzionate. Ad aggravare la situazione intervenne anche una terribile siccità durata oltre quattro anni (dal 2006 al 2010) che spinse verso le città centinaia di migliaia di agricoltori impoveriti. Le Nazioni Unite rilevarono che nel giro di pochi anni fino a tre milioni di siriani erano caduti in una condizione di “povertà estrema” e avevano lasciato la campagna per accamparsi in baraccopoli alla periferia delle città. Il quadro socio-economico spiega dunque la “geografia” della sollevazione popolare che, a dispetto della narrazione manichea che la rappresentava come la ribellione di un intero popolo contro la dittatura, nacque essenzialmente come una rivolta rurale. Il mantra che veniva riproposto dal mainstream era “Ash-shaʻb yurīd isqāṭ an-niẓām” (ovvero “il popolo vuole la caduta del regime”), anche se le imponenti manifestazioni a sostegno del governo che in quel periodo si svolsero a Latakia e Damasco dimostravano chiaramente come la “ribellione” coinvolgesse solo una parte della popolazione. Esiste dunque un legame innegabile tra i processi di liberalizzazione dell’economia, la crisi delle campagne e la crisi di legittimità del Ba’th, e se non se ne tiene conto diventa difficile analizzare i successivi sviluppi della guerra civile siriana. L’altro elemento “geografico” di cui tenere conto è la natura transfrontaliera delle città dove la protesta si concentrò maggiormente. Se si considerano Homs e Darʿā, che furono l’epicentro della sollevazione, non è difficile ritrovare tra loro alcune analogie. La prima si trova a soli 20 chilometri dal confine con il Libano ed ha sempre rappresentato un crocevia di traffici illeciti, così come Darʿā si trova a soli 4 chilometri dal confine con la Giordania, uno stato tradizionalmente tollerante nei confronti dei Fratelli Musulmani. La sollevazione armata fu, per alcuni aspetti, anche il tentativo dei potentati locali di sbarazzarsi di un potere troppo ingombrante, quello di uno Stato “moderno” e unitario che avanzava pretese centralizzatrici. D’altro canto è ormai accertato il ruolo svolto fin dai primi giorni della rivolta dalla filiera del contrabbando nell’afflusso di armi ai ribelli. Anche la dimensione energetica gioca un ruolo nel conflitto siriano, sebbene costituisca solo una delle componenti del quadro. Il governo di Baghdad ha infatti dato il via libera a un progetto iraniano per la costruzione in territorio iracheno di un gasdotto diretto in Siria. Esso dovrebbe attingere al bacino iraniano offshore di Pars Sud, il più grande giacimento di gas del mondo, che in parte è posseduto anche dal Qatar. Il progetto ha fortemente irritato Doha che ambiva a costruire un analogo gasdotto diretto dal suo giacimento verso la Turchia (e quindi verso i mercati europei) passando per l’Arabia Saudita, la Giordania e la stessa Siria. La pipeline avrebbe rappresentato un canale di smistamento commerciale più sicuro dello stretto di Hormuz. Nel 2009 Damasco, su suggerimento russo, rifiutò l’offerta del Qatar di far passare sul proprio territorio tale gasdotto fornendo a Doha e ad Ankara un ulteriore motivo per appoggiare i ribelli siriani. Un cambio di regime a Damasco significherebbe infatti l’affossamento definitivo del progetto iraniano a tutto vantaggio di questi due paesi. A rendere ancora più incandescente la situazione c’è inoltre la questione del Leviathan, l’enorme giacimento di gas scoperto nel 2010 di fronte alle coste del Libano e di Israele, e su cui anche Cipro e Siria sembrerebbero poter accampare dei diritti.

Occorre infine considerare il fatto che la Siria, sebbene sia un Paese relativamente povero e poco importante da un punto di vista economico, riveste invece un’enorme rilevanza per gli equilibri e le fondazioni stesse dell’attuale ordine mediorientale. Per queste ragioni fin dalle prime proteste la “rivolta siriana” era fatalmente destinata a divenire ostaggio di fattori regionali e internazionali finendo per assomigliare sempre di più al conflitto libanese, dove per quindici anni fattori locali e internazionali interagirono fra di loro, intessendo un intricato tappeto di guerre le une contro le altre, combattute dalle superpotenze, dai loro alleati regionali e dai clienti interni in un caleidoscopio di alleanze e rivalità in continuo movimento. Tutto questo ha provocato, nel corso di questi quattro anni, una “cantonizzazione” di fatto del Paese in cui sono ormai chiaramente individuabili diverse aeree di influenza militare, economica, geopolitica e culturale. Ciascuna legata ad una potenza o ad un consorzio di forze più o meno potenti, tradizionali ed emergenti, protette dal sostegno diretto ed indiretto di attori regionali ed internazionali. Al nord la Turchia considera un proprio cortile di casa la cintura che da Idlib e Aleppo arriva alle zone di maggioranza curda confinanti con il Kurdistan iracheno. Ankara è appoggiata dal Qatar, dall’Arabia Saudita, dagli Stati Uniti e, politicamente, da Francia e Gran Bretagna. Al sud la Giordania riesce a mantenere le regioni di Darʿā e al-Qunayṭra  sotto il proprio indiretto controllo salvaguardando gli interessi sauditi, statunitensi e israeliani. A Damasco, nella Siria centrale e nella regione costiera il governo di al-Asad, insieme con l’Iran e il suo alleato Hezbollah, grazie anche al sostegno russo, mantengono il loro fortino lontano da minacce concrete in quella che è stata definita la “Siria utile”. Mentre al Nord e all’est, nel cosiddetto “Siraq”, lo Stato Islamico appare come la potenza con il maggior numero di propri uomini direttamente dispiegati sul territorio. L’analisi delle cartine fisiche e geopolitiche non è però sufficiente a comprendere la spartizione in corso della Siria. Il fattore comunitario e confessionale (ma anche etnico nel caso della contrapposizione tra arabi e curdi) ha assunto una valenza di primo piano del determinare le linee del fronte. Infatti se la contiguità geografica ha consentito agli attori esterni di penetrare con facilità nei quattro fianchi della Siria, per mantenere queste posizioni è stato necessario instaurare rapporti di fiducia e di mutuo interesse economico con gli attori interni, assicurandosi il consenso delle comunità locali. In questo senso la comune appartenenza ad un gruppo confessionale o etnico ha costituito fin da subito un elemento cruciale. E’ utile ricordare come la confessionalizzazione del conflitto si produsse a partire da tre aree calde, Darʿā, Homs e Idlib, dove le rivendicazioni islamiste divennero ben presto il catalizzatore del malcontento sociale trasformando la preghiera del venerdì nel detonatore della rivolta. In questo un ruolo fondamentale lo ebbero le tante moschee e madrase nate negli anni precedenti grazie alle cospicue donazioni dei Paesi del Golfo. Aprendosi agli scambi con l’Arabia saudita ed il Qatar la Siria aveva infatti finito con l’importare, oltre ai capitali, anche il salafismo, come testimoniava l’irrigidimento dei costumi cui era andata incontro una parte della comunità arabo-sunnita. A questa radicalizzazione non fu estraneo lo sviluppo delle televisioni satellitari arabe, e in particolare quello di al-Jazeera, un vero e proprio strumento del soft power del Qatar che nel giro di pochi anni aveva rotto il monopolio informativo del Ba’th, portando nelle case di milioni di siriani le prediche incendiarie di personaggi come Yūsuf al-Qaraḍāwī, esponente di spicco dei Fratelli Musulmani, che soffiavano sul fuoco del “sectarian divide” e sulla contrapposizione tra sunniti e sciiti in seno al mondo islamico.

manifestazioni pro assad

Nel 2011 lo scoppio della rivolta colse relativamente di sorpresa il governo di al-Asad che addebitò la ribellione esclusivamente ad una cospirazione straniera. Queste convinzioni poggiavano del resto su fatti incontrovertibili, come il sostegno prolungato fornito da Washington, in particolare dall’amministrazione Bush, all’opposizione siriana in esilio. O come il fatto che fin dai primi giorni della rivolta si registrarono episodi di violenza contro le istituzioni siriane. Al di la di questo è però innegabile che le proteste ebbero comunque una scintilla spontanea, e la città in cui tutto ebbe inizio, Darʿā, poteva essere tranquillamente portata ad esempio della durissima realtà che caratterizzava le aree rurali della Siria. L’opposizione siriana è però rapidamente andata incontro ad un processo di militarizzazione e già ad aprile furono diverse decine i soldati che vennero attaccati ed uccisi da gruppi ben armati a Bāniyās e Jisr al-Shughur. A tale processo contribuirono senza dubbio anche i crescenti appelli di alcuni paesi ad “armare i ribelli contro il sanguinario al-Asad”. Fra questi paesi spiccavano in particolare le monarchie del Golfo a cui ben presto si unì la Turchia. Il processo di militarizzazione venne inoltre incoraggiato dal cosiddetto “precedente libico”, che illuse i “ribelli” siriani sulla possibilità di ripercorrere la strada tracciata dagli insorti che da Bengasi erano partiti alla conquista dell’intera Libia con l’aiuto determinante della Nato. E come in quel caso il tentativo di creare una leadership dell’opposizione venne portato avanti grazie all’appoggio determinante di paesi come la Turchia, il Qatar, la Francia e gli Stati Uniti. Due incontri, ad Antalya e a Istanbul, nel giugno e nel luglio del 2011, furono determinanti per annunciare, il 23 agosto successivo, la nascita del Consiglio Nazionale Siriano (Cns), un’organizzazione ombrello che avrebbe dovuto raccogliere le varie componenti dell’opposizione e che prese definitivamente forma nell’ottobre dello stesso anno. Il Consiglio venne costituito sull’esempio del Consiglio Nazionale di Transizione libico e, come in quel caso, era formato essenzialmente da esuli residenti all’estero, in Francia, negli Usa e in Turchia, con uno scarso seguito in patria. Nonostante si fosse dotato fin da subito di una veste laica esso era essenzialmente dominato dai Fratelli Musulmani. Col passare del tempo, pur dimostrando di avere un ridotto ascendente sulla popolazione, la Fratellanza acquistò un ruolo sempre maggiore grazie ai contatti internazionali su cui poteva contare e soprattutto grazie alla capacità di canalizzare i finanziamenti. Nonostante lo scarso radicamento in Siria il Cns ottenne fin da subito il sostegno della Lega Araba oltre che quello dei paesi che ne avevano facilitato la nascita. Il Consiglio entrò ben presto in competizione con il Free Syrian Army (Fsa), un’organizzazione armata estremamente eterogenea in cui confluirono disertori dell’esercito, milizie di autodifesa e combattenti salafiti finanziati dalle petromonarchie. Anche il Fsa si dimostrò però poco rappresentativo e, soprattutto, incapace di coordinare la maggior parte dei diversi gruppi armati ostili al regime. Per una dettagliata panoramica delle organizzazioni militari e delle loro affiliazioni rimandiamo al quaderno prodotto dal Comitato del martire Ghassan Kanafani (leggi). L’opposizione era talmente frastagliata che non riuscì nemmeno ad elaborare una visione chiara e unitaria sul futuro assetto del Paese.

Nell’autunno del 2011, sebbene l’economia siriana fosse allo sbando, era chiaro che al-Asad non era affatto in bilico, ma la crisi aveva comunque messo in moto un meccanismo regionale e internazionale che si sarebbe rivelato inarrestabile. Turchia e Qatar avevano già voltato le spalle a Damasco e ad agosto anche Riyāḍ aveva deciso di rompere gli indugi, individuando nella caduta del presidente siriano un modo per indebolire il rivale iraniano. A novembre l’internazionalizzazione della crisi divenne manifesta con la sospensione della Siria dalla Lega Araba, preludio della presa di posizione da parte di altre potenze occidentali, con gli Stati Uniti in prima linea, che di li a pochi mesi daranno vita alla coalizione internazionale “Amici della Siria”. Il piano d’azione, rivelato successivamente da alcuni diplomatici arabi ed occidentali, era quello di realizzare “zone cuscinetto” in territorio siriano finalizzate alla “protezione dei civili”. Tali zone, ovviamente create attraverso un intervento militare, in realtà avrebbero dovuto fornire all’opposizione dei “santuari” dai quali poter organizzare e proseguire la battaglia contro il regime, anche grazie al sostegno diretto dei paesi occidentali. In quei giorni il sito web di intelligence israeliano “DEBKAfile” rivelò che forze speciali britanniche si da tempo erano infiltrate a Homs fornendo assistenza tecnica e militare agli insorti (il Sole 24 Ore del 8/2/2012). Tutto questo mentre a Iskenderun, in Turchia, nella provincia di Hatay, si era insediato un comando multinazionale ristretto formato da militari statunitensi, inglesi, francesi, canadesi, arabi degli Emirati, del Qatar e dell’Arabia Saudita. Un simile progetto necessitava però di una legittimazione internazionale, possibilmente da parte dell’Onu. Gli stessi paesi che avevano promosso la formazione del Cns e che avevano sollecitato la presa di posizione della Lega Araba si incaricarono dunque di promuovere un’azione all’interno del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, finendo però per scontrarsi con l’opposizione irremovibile di Russia e Cina (il 4 febbraio del 2012) che non volevano si ripetesse quanto avvenuto in Libia con la risoluzione 1973. Pochi giorni più tardi l’allora ministro degli esteri francese, Alain Juppé, stigmatizzò il voto di Mosca e Pechino definendolo testualmente una “vergogna morale”, e auspicando che il presidente siriano finisse davanti al Tribunale Penale Internazionale. Un concetto che verrà ribadito in maniera ancora più energica qualche mese più tardi dal suo successore, il socialista Laurent Fabius, il quale arrivò a sostenere che: bisogna abbattere Bashar al-Asad, non merita di stare al mondo.

Nel corso di tutto il 2012, esaurita la possibilità di ripercorrere la via libica al regime change, si assistette ad un afflusso senza precedenti di combattenti stranieri in Siria (i cosiddetti foreign fighters) soprattutto attraverso la frontiera turca. Si trattò di uno degli effetti della propaganda dei paesi arabi sunniti che stavano sempre di più confessionalizzando il conflitto siriano, creando nel mondo arabo un clima non dissimile da quello che negli anni Ottanta aveva portato alla mobilitazione islamica in Afghanistan contro la minaccia sovietica. Il tramonto di ogni possibilità di soluzione politica del conflitto venne del resto suggellato dal fallimento del cosiddetto “Piano Annan”, entrato ufficialmente in vigore il 12 aprile, ma boicottato fin da subito dai paesi occidentali e dalle petromonarchie. Nel novembre dello stesso anno in un incontro voluto dagli Stati Uniti a Doha, gli “Amici della Siria” cercarono di ridefinire la leadership dell’opposizione siriana dando vita ad una nuova organizzazione ombrello di cui il Cns sarebbe stato solo una parte. Il tentativo da parte statunitense era quello di riprendere il controllo su un’opposizione ormai sempre più dominata da islamisti e gruppi estremisti. La narrazione unilaterale degli eventi, che vedeva nei ribelli esclusivamente dei “combattenti per la democrazia”, si era infatti inceppata costringendo le cancellerie occidentali, che fino a quel momento avevano negato la presenza di gruppi qaedisti, ad ammettere la presenza di organizzazioni jihadiste in Siria. I moderati filo-occidentali si erano dimostrati fragili militarmente e inconsistenti politicamente, finendo per lasciare campo libero agli islamisti salafiti che invece non facevano difetto di determinazione e capacità operativa. La nuova Coalizione dell’Opposizione Siriana (Cos) presentava però gli stessi problemi del Cns: nella sua composizione rifletteva il confuso mosaico mediorientale impegnato nella destabilizzazione della Repubblica Araba Siriana e nei fatti dimostrava di avere uno scarso controllo sulle fazioni armate, nonché una limitata influenza sulle evoluzioni degli eventi in Siria. Alla sua guida venne posto lo sceicco Aḥmad Muʿādh al-Khaṭīb, un islamista vicino alla Fratellanza che viveva in esilio in Egitto, mentre nel programma fu esclusa ogni possibilità di trattativa con il regime, ponendo così fine alle residue speranze di soluzione diplomatica. Circa un mese dopo l’incontro di Doha si costituì in Turchia un nuovo “comando militare unificato”, dominato dai Fratelli Musulmani e da gruppi salafiti, in un incontro a cui partecipano anche esponenti di alcuni servizi segreti occidentali. Una serie di gruppi islamici armati disconobbero però la nuova leadership, una decisione su cui ebbe sicuramente un peso l’inserimento di Jabhat al-Nuṣra nella lista nera delle organizzazioni terroristiche da parte degli Stati Uniti. Ciò non impedì agli Usa e agli “Amici della Siria” di riconoscere il Cos come unico e legittimo rappresentante del popolo siriano in occasione di un vertice tenutosi a Marrakech il 12 dicembre del 2012. Si trattava di un implicito sostegno alla persecuzione della “soluzione” militare, un passaggio che venne significativamente accompagnato dalla decisione della Nato di schierare i missili Patriot in Turchia lungo il confine con la Siria.

Nei primi mesi del 2013 divenne però evidente agli occhi dell’opinione pubblica mondiale che il crollo del “regime siriano” non era poi così imminente come i media occidentali avevano fatto credere. Al fianco del governo di Damasco erano scesi direttamente in campo sia l’Iran, preoccupato dalla possibilità di vedere diminuita la propria influenza nell’area, sia le milizie di Hezbollah. Diventava dunque sempre più chiara l’incapacità dei “ribelli siriani” di rovesciare autonomamente al-Asad, e questo nonostante il gigantesco ponte aereo che, tra la fine del 2012 e l’inizio dell’anno, era stato organizzato per inviare armi ai ribelli da parte di Paesi come Qatar, Arabia Saudita, Turchia e Giordania. La dipendenza dell’opposizione siriana dai finanziatori stranieri verrà ampiamente dimostrata dalle confessioni di Saddam al-Jamal, capo della brigata Aḥfād ar-Rasūl ed ex comandante dell’Fsa nella Siria orientale. Al-Jamal parlerà esplicitamente delle riunioni del consiglio militare del Fsa come di incontri a cui partecipavano abitualmente rappresentanti dei servizi segreti sauditi, degli Emirati Arabi e del Qatar, come pure ufficiali dei servizi segreti statunitensi, britannici e francesi. Aggiungendo che durante una di queste riunioni, svoltasi ad Ankara, l’allora viceministro dell’Arabia Saudita, il principe Salman bin Sultan, fratellastro del capo dell’intelligence saudita Bandar bin Sultan, chiese esplicitamente ai leader siriani dell’opposizione armata: se avevano messo a punto dei piani di attacco contro le posizioni di al-Asad e di esporre le loro necessità in termini di armi, munizioni e denaro. Il raggruppamento “Amici della Siria”, che nel 2012 aveva portato oltre settanta Paesi a partecipare al vertice di Tunisi, era nel frattempo sceso a undici partecipanti (Qatar, Arabia Saudita, Turchia, Emirati Arabi Uniti, Giordania, Egitto, Stati uniti, Gran Bretagna, Francia, Germania e Italia) mentre Doha, Ankara e Riyadh lottavano aspramente tra loro per mettere i propri uomini di fiducia ai vertici della Coalizione dell’Opposizione Siriana. E’ dunque in questo contesto che vanno letti alcuni degli accadimenti dei mesi successivi che avrebbero potuto indirizzare in maniera diversa il corso degli eventi. A partire dal 2012 Obama aveva infatti indicato nell’utilizzo delle armi chimiche la “red line” per un possibile intervento statunitense, e il 21 agosto del 2013 il casus belli che avrebbe portato Washington a rompere gli indugi sembrò materializzarsi davvero. A Ghūṭa, nella periferia di Damasco, in un quartiere controllato dai ribelli, un attacco chimico fece strage di centinaia di persone, in gran parte civili. La stampa occidentale si affrettò a puntare il dito sul “sanguinario dittatore”, così come fecero tutti i governi che da tempo spingevano per un intervento militare. In realtà l’identità dei responsabili dell’attacco non venne mai ufficialmente chiarita e sull’interpretazione dell’accaduto emersero divergenze anche all’interno della comunità dell’intelligence nordamericana. Tanto che il documento della Casa Bianca che incriminava al-Asad non venne controfirmato dal direttore del National Intelligence, James Clapper. Il governo siriano e i russi, da parte loro, attribuirono l’uso dei gas al gruppo Jaysh al-Islam, sostenuto dall’Arabia Saudita, allo scopo di far ricadere la colpa sul “regime” e screditarlo definitivamente. La tesi di una montatura non era peraltro campata in aria, dal momento che l’attacco chimico avvenne proprio durante un’ispezione Onu (richiesta dallo stesso governo siriano) circa l’uso di tali armi. Qualche mese più tardi Seymour Hersh, un giornalista statunitense insignito del premio Pulitzer, addebitò la strage ai “ribelli siriani” che, a detta sua, si erano mossi nel tentativo di forzare la mano alla Casa Bianca. Tra la fine di agosto e l’inizio del settembre 2013 la tensione fra i due schieramenti internazionali crebbe enormemente e lo spostamento della flotta statunitense verso le coste siriane fece pensare all’imminenza di un intervento militare. In maniera del tutto inaspettata, però, il fronte occidentale inizio a sgretolarsi. In Gran Bretagna il parlamento negò al premier Cameron il nullaosta all’intervento bellico, ed anche Obama fu costretto a fare i conti con un’opinione pubblica fortemente contraria al coinvolgimento diretto degli Stati Uniti. Agli inizi del mese di settembre giunse quindi quasi inaspettata l’offerta diplomatica russa che, con l’appoggio di Damasco e Teheran, propose ed ottenne lo smantellamento controllato dell’arsenale chimico siriano in cambio della rinuncia statunitense all’intervento militare. Una mossa che riaffermò la centralità di Mosca come elemento chiave per la risoluzione della crisi.

La degenerazione della “rivoluzione” siriana è frutto dunque di profonde divisioni politiche, religiose ed economiche precedenti al 2011 e del modo con cui queste differenze sono state esacerbate e sfruttate dalle potenze straniere trasformando la Siria in una sorta di Jugoslavia araba. Assumono così un nuovo sapore le parole del politologo conservatore Edward Luttwak: a questo punto, uno stallo è il solo esito che non sarebbe dannoso per gli interessi americani (…) C’è solo uno sbocco che può essere favorito dagli Stati Uniti: un pareggio a tempo indeterminato. Inchiodando l’esercito di al-Asad e i suoi alleati in una guerra contro combattenti estremisti alleati con al-Qa’ida. I nemici di Washington saranno impegnati in una guerra gli uni contro gli altri e saranno quindi nell’impossibilità di attaccare gli americani e gli alleati dell’America. Il più grave errore di valutazione commesso in questi anni dalle potenze straniere e dalle opposizioni siriane è stato quello di credere che Bashar al-Asad potesse essere sconfitto così come lo era stato Gheddafi, dimenticando che la caduta del leader libico era stata in larga parte determinata dalla campagna della Nato. Senza la copertura aerea occidentale i cosiddetti ribelli non avrebbero resistito più di qualche settimana. All’inizio della crisi siriana le cancellerie occidentali si erano convinte che tutto si sarebbe risolto nel breve termine e fecero naufragare ogni soluzione politica. Ma Bashar al-Asad non era isolato come Saddam Hussein negli anni Novanta e Duemila, era in una posizione più forte di quella di Milosevic in Serbia e di Gheddafi in Libia e oltre che sul sostegno dell’Asse della Resistenza poteva contare sulla Russia che, dopo un ventennio di ritirate, non intendeva fare marcia indietro o accettare nuovi interventi militari “umanitari”.

Da questi errori di calcolo ne poi è derivato un altro: ovvero l’illusione che il Golem delle milizie islamiche sarebbero rimasto sotto il controllo di chi lo aveva evocato, Turchia e petromonarchie. Ma la guerra civile siriana ha rappresentato un’opportunità irrinunciabile per i jihadisti che a partire dal 2013 iniziarono a confluire nell’Isis. Si erano infatti materializzate le condizioni per il jihad contro il regime dei nusairy e, al tempo stesso, per la nascita di un emirato a cavallo di quella frontiera tracciata cento anni prima da Sykes e Picot. Una popolazione sunnita in rivolta, territori fuori controllo e un abbondante flusso di armi e dollari sono stati quindi gli ingredienti alla base dell’intuizione tattica jihadista: l’unione del campo di battaglia iracheno con quello siriano. Dopo quattro anni di ingerenze ed aggressioni la Repubblica Araba Siriana è oggi ridotta ad uno Stato premoderno, in cui domina l’economia di guerra e dove in molte zone del paese prevalgono reti di economia informale fatte di saccheggi, rapimenti e contrabbando. Le stime delle Nazioni Unite parlano di un indice di sviluppo umano regredito a quello di 37 anni fa e stimano che, anche con un tasso di crescita del 5%, saranno necessari più di 30 anni per tornare al Pil del 2010. Verrebbe da chiedersi se sia questo per il popolo arabo il costo da pagare per la “democrazia”.

Qui la seconda parte

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