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La Siria, lo Stato Islamico e la “guerra all’Europa”/seconda parte

di Militant

Qui la prima parte

erdogan isisIII. Lo Stato Islamico, il pensiero strategico del nuovo jihadismo

Intervistato dal Corriere della Sera Vali Nasr, rettore della Scuola di studi politici internazionali della John Hopkins University di Washington, ha recentemente dichiarato:

Se andiamo a cercare spiegazioni per tutti i rivoli rischiamo di perdere il quadro d’insieme. Il nodo centrale è la Siria. Se non ci fosse stata la guerra civile siriana oggi l’Isis non esisterebbe.(…) Il fatto che esista un’organizzazione terrorista con una sua base territoriale è una cosa di enorme importanza. Sul piano operativo e anche su quello psicologico. Un ribelle reclutato dall’Isis, magari un criminale comune, all’improvviso si sente investito di una missione: ha non solo un’ideologia, ma anche una patria da difendere.

Il politologo di origine iraniana, già consigliere di Obama, coglie così, meglio di molti altri osservatori politici, gli elementi di novità strategici e tattici che stanno dietro l’ascesa dello Stato Islamico. La categoria del “terrorismo islamico”, con cui si è soliti inquadrare il tema, inchioda il nemico a due sole dimensioni: la violenza e la fede. Il problema è che lo stigma bipolare coglie alcuni aspetti epifenomenici della questione, ma ne nasconde altri, meno visibili ma indispensabili per comprenderne la natura.

Su tutti quella volontà di “farsi Stato” del movimento di al-Baghdādī che ne costituisce il cuore del “pensiero strategico”, nonché il tratto peculiare e distintivo rispetto alle precedenti generazioni di jihadisti. Un elemento che raramente viene colto, tanto che lo Stato Islamico raramente è citato con il suo nome, semmai virgolettato, mentre gli si preferisce in genere l’acronimo Isis o, in arabo, Daesh (ad-Dawla al-Islāmiyya fī al-ʿIrāq wa l-Shām). Sopprimendo o edulcorando l’evocazione della statualità si perde però di vista il carattere innovativo della movimento e delle analoghe strutture attive nella “fascia salafita”, tra Sahel, Sahara e Golfo. Non a caso Boko Haram si richiama al Califfato di Sokoto, uno dei più vasti imperi africani che prima di essere sgominato dai britannici nel 1903 si estendeva dal bacino del Niger al lago Ciad. E anche in questo caso l’obiettivo è (ri)farsi Stato Islamico nella Nigeria settentrionale, ricongiungendosi ai territori contigui ed etnicamente affini in Niger, Ciad e Camerun. Per certi versi lo Stato islamico può essere considerato come una specie di avatar delle petromonarchie del Golfo poiché ha come fondamento ideologico il wahhabismo, propagato con la violenza, e si appoggia alle risorse petrolifere conquistate in Iraq e Siria, per assicurarsi fonti di finanziamento e accrescere la propria influenza. E’ noto inoltre come i libri di Abd al-Wahhāb, fondatore della dottrina wahhabita, siano distribuiti in Iraq ed in Siria proprio dall’IS. Esiste dunque un forte legame ideologico e di solidarietà materiale fra il regime saudita e l’organizzazione jihadista. E’ necessario tuttavia prendere in considerazione anche le profonde mutazioni che ha assunto il wahhabismo nella sua trasposizione in un contesto diverso rispetto a quello della penisola arabica. La sua trasformazione cioè da ideologia di riferimento di un movimento conservatore e legittimista a base dottrinale in un movimento “rivoluzionario”. Ed è proprio questa trasformazione (che pone in imbarazzo gli stessi sauditi sempre più in difficoltà nel giustificare i propri legami economici e politici con gli Stati Uniti) che sta alla base della comprensione del fenomeno dello Stato Islamico. Questa forma di salafismo-jihadista emerge con la guerra in Afghanistan ed ha fin qui prodotto tre generazioni di combattenti. La prima generazione è stata quella che ha fondato il movimento, conferendogli un carattere globale nel contesto della “guerra di liberazione”  afghana degli anni Ottanta del secolo scorso. Il suo principale teorico era lo sceicco palestinese Abd Allāh Yūsuf al-’Azzām. La seconda generazione è quella che ha dato origine ad al-Qāʿida, il movimento di Osama bin Laden e di al-Ẓawāhirī. Anch’essa ha origine nell’esperienza dell’Afghanistan, declinata però in contesti nuovi (Egitto, Bosnia, Algeria, Cecenia). Si può dire che l’impronta ideologica di questa seconda generazione di combattenti sia stata quella di dare alla guerra santa una dimensione globale, individuando negli Usa il proprio principale nemico. La terza generazione è invece quella di Abou Moussab al-Zarqaoui e di Abou Moussab al-Souri che hanno, seppur in modo diverso, sottoposto a critica gli obiettivi e il modus operandi dei predecessori teorizzando un jihad “glocale” che si concentrasse prioritariamente sulle zone liberate da usare come base per una espansione futura. Con al-Zarqaoui si procede quindi ad una “irachenizzazione” di al-Qāʿida.  Lo Stato Islamico si radica nelle riflessioni di questa terza generazione jihadista. Letta in questa prospettiva la guerra in Afghanistan, lungi dall’essere l’ultimo conflitto per procura combattuto dalle due superpotenze del Novecento nel contesto della Guerra Fredda, diviene piuttosto l’incubatrice degli accadimenti che si dipanano dal primo attentato al World Trade Center del 1994 fino alla proclamazione del califfato nel 2014. Vale allora la pena ricordare, seppure brevemente, quanto ebbe a sostenere il consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, Zbigniew Brzezinski, in merito al sostegno fornito da Washington ai mujāhidīn afghani, all’epoca considerati dall’occidente combattenti per la libertà: Cos’è più importante? I talebani o il crollo dell’impero sovietico? Qualche musulmano riottoso o la liberazione dell’Europa centrale e la fine della Guerra Fredda?

Queste riflessioni ci riportano a prendere in considerazione  nel dettaglio il luogo dove l’idea stessa di Stato Islamico è nata: la fascia sunnita dell’Iraq. Avendo ben chiaro, però, che prima dell’intervento statunitense del 2003 in questo paese non esisteva ancora una branca di al-Qāʿida, e che essa è nata solo nel 2004, approfittando del clima di caos politico generato dalla caduta di Saddam Hussein e dopo la fuga dei principali capi jihadisti dall’Afghanistan. Le radici dello Stato Islamico risalgono dunque all’arrivo in Iraq di al-Zarqaoui e all’inizio delle operazioni del suo gruppo,  Jama’at al-Tawhid wal-Jihad, affiliatosi al network di al-Qāʿida nel 2004 e rinominatosi al-Qāʿida in Iraq. E’ sempre qui che avviene la mutazione di al-Qāʿida in Iraq in Isi (poi Isis nel 2013 e Is nel 2014), dopo la morte nel giugno del 2006 dello stesso al-Zarqaoui (ormai “dissidente” da al-Qāʿida stessa) e la fusione nell’ottobre dello stesso con una federazione di gruppi jihadisti locali, la Maglia Shura al-Mujahidin fi al-Iraq. Ed è sempre nel teatro iracheno che l’odierno IS matura il nuovo pensiero strategico (la fondazione di uno Stato) e anche una tattica politica volta a cercare appoggi in fazioni e gruppi ideologicamente molto lontani dallo jihadismo. L’organizzazione si struttura in un territorio dove hanno trovato rifugio molti orfani di Saddam Hussein, un’area dove da anni cova il risentimento per l’invasione americana e dove la repressione sciita nei confronti della minoranza sunnita era più marcata. Ed è proprio tra ex ufficiali della Guardia Repubblicana, come l’ex colonnello al-Turkmānī, o alti ufficiali dei servizi segreti, come Abdul Hadi al Iraqi, o generali dell’Esercito come Abū ʿAlī al–Anbārī, tutti radicalizzati in carcere, che lo Stato Islamico recluta i suoi leader più abili. Tra la fine del 2006-2007 l’organizzazione aveva subito battute di arresto critiche quando le milizie tribali arabo-sunnite del Movimento del risveglio (Sahwa) le si erano rivoltate contro, mentre il gruppo dei volontari stranieri e il denaro iniziavano a scarseggiare. Le cellule jihadiste subirono così un processo di disintegrazione producendo criminali locali dediti a rapimenti ed estorsioni utili a pagare i salari degli affiliati più che a finanziare l’insurrezione. In uno studio su al-Qāʿida in Iraq del dicembre del 2013 Michael Knights spiegava: a partire dalla metà del 2010 l’Isi era “un morto che cammina”.

Il cambiamento avviene nell’estate del 2010 quando la leadership dell’Isi passa nelle mani di Abu Bakr al-Baghdādī, un ex prigioniero del carcere americano di Camp Bucca. Nell’aprile del 2011 si assiste ad un rilancio dell’organizzazione che si garantisce un significativo spazio operativo all’interno delle comunità arabo-sunnite con una serie di clamorosi attacchi contro le carceri irachene. Il punto di svolta vero e proprio però è la progressiva disintegrazione della Siria a partire dall’inizio del 2012. Il paese, che per anni era stato solo una stazione di passaggio per i foreign fighters diretti in Iraq, diventa prima il rifugio sicuro dei jihadisti che operavano in Iraq, e poi la culla dell’Isis. L’intuizione tattica alla base dei successi militari è la fusione, in un unico campo di battaglia, delle aree sunnite di Iraq e Siria. Proprio per questo il conflitto siriano ha costituito un trampolino di lancio ideale per le ambizioni transnazionali di al-Baghdādī e la sua ideologia “antimperialista”. Si trattava di un occasione storica per abbattere la frontiera siro-irachena creata in maniera artificiale dai francesi facendo leva sulla ribellione della maggioranza sunnita in Siria e della minoranza sunnita in Iraq. Per i salafiti infatti la Siria non esiste. Questo nome sarebbe come quello dell’Iraq una fabbricazione degli atei e nel loro gergo ispirato al corano l’Iraq si chiama Bilad al-rafidayn (terra dei due fiumi) mentre la Siria sarebbe Bilad al-Sham (terra del Levante). Al-Baghdādī cominciò con il creare una branca ufficiale di al-Qāʿida in Siria, che prese il nome di Jabhat al-Nuṣra, dotandola di uomini, mezzi e armi. Abou Mohammed al-Jolani, un quadro siriano dell’organizzazione, venne incaricato di supervisionare e dirigere l’operazione. Rapidamente al-Nuṣra si impose come una forza disciplinata, ben equipaggiata e influente nelle zone liberate dall’esercito siriano. Malgrado ciò i rapporti tra al-Jolani e al-Baghdādī si deteriorano. Sebbene i due leader condividessero l’obiettivo dell’instaurazione del califfato, Jabhat al-Nuṣra adottava un atteggiamento più pragmatico nell’applicazione della legge islamica allo scopo di non alienarsi il sostegno della popolazione locale e degli altri gruppi ribelli siriani con cui cooperava. Nell’aprile del 2013 al-Baghdādī annunciò la fusione del suo movimento (Stato Islamico in Iraq) con al-Nuṣra, per dare vita allo Stato Islamico in Iraq e Sham (ISIS). I partigiani di al-Jolani non gradirono però l’operazione e rinnovarono la propria fedeltà ad al-Qāʿida, il cui capo, al-Ẓawāhirī, nel giugno del 2013 decise che le due organizzazioni dovessero rimanere distinte, seppure in un rapporto di reciproca collaborazione. Questa presa di posizione indusse al-Baghdādī a ripudiare la propria organizzazione promuovendo una scissione: i partigiani di al-Jolani mantennero il nome di Jabhat al-Nuṣra mentre quelli di al-Baghdādī utilizzarono la nuova denominazione di Stato Islamico in Iraq e Sham, il cui portavoce in Siria divenne Abu ali al-Anbari. A partire da questo momento l’Isis conobbe un rafforzamento progressivo che lo portò dalla precedente politica di alleanza con altre forze ribelli ad una progressiva autosufficienza. La disciplina dei suoi miliziani, la competenza tecnica dei suoi quadri, la coerenza ideologica e il buon equipaggiamento delle truppe provocarono due tipi di reazione negli altri gruppi “ribelli” siriani: alcuni rimasero soggiogati dal suo prestigio e confluirono nella nuova organizzazione, spinti anche dall’impotenza dimostrata dal FSA, altri allarmati dalla sua forza iniziarono a combatterlo. Si tratta in particolare delle brigate islamiste e salafite del Fronte Islamico, create nel novembre del 2013, di alcune brigate nazionaliste o islamico nazionaliste e del Fronte Rivoluzionario Siriano.

Nel gennaio del 2014 il movimento di al-Baghdādī  riuscì ad assumere il pieno controllo di Raqqa, cacciando i miliziani di al-Nuṣra che l’avevano “liberata” il 6 marzo del 2013 ed eleggendola a “capitale” del Califfato. Si tratta di una città di poco più di 200mila abitanti che ha però una storia densa di significato per i musulmani poiché per 13 anni, dal 796 al 809, fu la capitale del Califfato di Harun al-Rashid. Il 10 giugno, dopo una folgorante offensiva durata pochi giorni, al-Baghdādī condusse le sue truppe ad occupare la citta irachena di Mosul, la seconda citta del paese con oltre 2 milioni di abitanti, da dove il 29 giugno annunciò al mondo la nascita del Califfato. Un abbozzo di Stato che ora occupa un’area più vasta della Gran Bretagna abitata da circa 10 milioni di persone e che si è formato nel suo territorio di elezione, lo spazio tribale sunnita a cavallo della linea Sykes-Picot, fra l’Iraq occidentale e la Siria orientale. Appare chiaro dunque come lo Stato islamico sia figlio delle guerre imperialiste e delle avventure neocoloniali. La combinazione letale, ma efficace, di estremismo religioso ed esperienza militare è frutto innanzitutto della destabilizzazione dell’Iraq, iniziata nel 2003 con l’invasione degli Stati Uniti, e poi del confronto bellico scoppiato in Siria nel 2011. Appare altrettanto evidente come siano stati gli Usa e l’Unione Europa, insieme ai loro alleati turchi, sauditi, qatarioti, kuwaitiani e degli Emirato Arabi ad aver creato le condizioni per la nascita dell’Isis. Le guerre irregolari o la guerriglia sono sempre profondamente politiche, e i conflitti scoppiati con la “guerra al terrore” lo sono in modo particolare. Questo non significa che ciò che accade sul campo di battaglia sia insignificante, ma che dev’essere opportunamente e politicamente contestualizzato. Altrimenti non si spiegherebbe come nella presa di Mosul 1300 miliziani jihadisti siano riusciti in soli quattro giorni a sbaragliare un contingente avversario che poteva contare, almeno sulla carta, su oltre 60.000 effettivi ben equipaggiati. Il nodo della questione era che per la maggioranza degli abitanti di Mosul i combattenti dell’Isis, per quanto brutali, erano comunque preferibili alle forze di al-Mālikī controllate dagli sciiti. Così se è vero che nella situazione attuale è facile immaginare che gli attacchi aerei avranno un’efficacia relativa, dato che l’IS agisce come un esercito di guerriglia e non vi sono movimenti di truppe o di materiali facilmente individuabili e bombardabili dall’alto, mentre i suoi dirigenti sono abituati a nascondersi. E’ ancor più vero che annientare l’impianto militare dello Stato Islamico senza sanare davvero e in tutti i suoi aspetti la grande ferita dell’Iraq porterà inevitabilmente l’IS a reincarnarsi in un nuovo e più sofisticato “mostro provvidenziale” da utilizzare come pretesto per ulteriori operazioni militari.

La “territorializzazione” del jihad risponde però anche ad altre esigenze oltre a quella ideologica, su tutte la legittimazione sociale e le necessità logistica-finanziarie. Secondo il capo del consiglio provinciale di quell’area lo Stato Islamico impadronendosi di Mosul, il 10 giugno 2014, avrebbe messo le mani su qualcosa come 400 o 500 milioni di dollari custoditi nella banca centrale della città. Tuttavia le risorse finanziarie derivanti dalle conquiste territoriali non spiegano da sole la potenza finanziaria del movimento che secondo recenti stime potrebbe contare su assets per 2 miliardi di dollari. Una parte consistente del Pil dello Stato islamico deriva dal petrolio. Secondo stime del governo USA l’IS guadagna almeno 50 milioni di dollari al mese dall’estrazione e la vendita illegale di petrolio commercializzato a prezzo di saldo: dai 35 ai 10 dollari al barile. Come vuole la legge del mercato ogni scambio suppone un venditore e un compratore. Alla prima figura corrisponde in questo caso il “terrorista islamico”. Alla seconda, il consumatore globale, soprattutto occidentale. La strategia di espansione di IS in Iraq e Siria non ha fatto altro che puntare al controllo degli impianti petroliferi. L’ultimo pozzo siriano è stato conquistato lo scorso luglio, i jihadisti controllano ora 253 pozzi petroliferi di cui 161 ancora operativi. Secondo il comitato parlamentare per l’energia di Baghdad l’IS estrae ogni giorno 30-40 mila barili in Siria e 20 mila barili in Iraq. Secondo altre fonti la produzione non arriverebbe invece ai 10 mila barili giornalieri, anche a causa dell’intensificazione dei bombardamenti aerei. Comunque sia la gestione dei pozzi richiede competenze specifiche e per ovviare ai problemi tecnici i jihadisti hanno potuto contare sull’invio di macchinari e personale esperto da parti degli Stati sostenitori. Oltre alle donazioni da una miriade di controverse organizzazioni di carità, il contrabbando di greggio e di prodotti raffinati resta dunque la maggiore entrata su cui punta il califfo al-Baghdādī. La strategia dell’IS poggia anche sul controllo delle risorse naturali, cosa che gli ha permesso di retribuire i propri miliziani e sostenere le popolazioni amministrate attraverso la confisca, ad esempio, dei depositi di grano e i mulini della Siria dell’est e nelle province di Ninive in Iraq. In questo l’IS è riuscito la dove gli altri gruppi anti al-Asad hanno fallito: i forni, le fabbriche, i mulini e i silos sono stati rimessi in grado di funzionare e i loro prodotti sono stati offerti a prezzi calmierati alle popolazioni povere. Fintanto che la sua condizione finanziaria glielo permette l’IS può così praticare una politica sociale attiva ottenendo in cambio l’accettazione delle sue politiche draconiane in materia di costumi e ordine pubblico. L’auto sufficienza in termini di risorse finanziarie, umane, energetiche o alimentari ha anche permesso di avviare un’amministrazione efficace sui territori controllati. Come descrive Emanuela C. Del Re in un recente numero della rivista Limes questo proto Stato ha ormai una “capitale”, globalmente riconosciuta nella città siriana di Raqqa ed è stato suddiviso in province, i wilāyāt, seguendo un concetto storico dell’islam. Al vertice della macchina statale c’è il “califfo” , il “vicario di Dio” (khalīfat rasūl Allāh), e immediatamente sotto di lui due vice provenienti dal Consiglio della šūrā, l’organo più importante dello Stato Islamico. Questi sono responsabili dei wilāyāt iracheni e di quelli siriani. Il vice di al-Baghdādī in Siria è Abu ali al-Anbari, mentre in Iraq questo ruolo era ricoperto fino all’agosto scorso, quando è rimasto ucciso in un attacco di droni, da Abū Muslim al-Turkmānī. L’apparato statale fa perno su otto consigli: il “Consiglio della sharīʿa”, che ha natura teologica e amministra la giustizia; il “Consiglio della šūrā”, che definisce le politiche statali; il dipartimento delle finanze; l’Ahl al-Hall wa’l-Aqd (coloro che sciolgono e legano), con finalità legislative; il consiglio militare, il consiglio di sicurezza, il consiglio dei media e l’organizzazione amministrativa vera e propria. Tale organizzazione come abbiamo visto sopra fa perno sui wilāyāt  affidati ad un “governatore”, il Wālī, i cui immediati sottoposti sono gli emiri che controllano le zone in cui è divisa la provincia. La macchina burocratica può contare su circa un migliaio di quadri intermedi, forniti di esperienza militare o di polizia, per amministrare territori in cui vivono milioni di persone. La formazione di questo migliaio di quadri sta a testimoniare l’ambizione dello Stato Islamico di far durare a lungo la propria amministrazione. Il Califfato ha portato avanti, fin da subito, una strategia di omogeneizzazione dei territori controllati che ha visto nella distruzione dei santuari, delle moschee sciite e nella furia iconoclasta il suo tratto più “spettacolare”, ma che si è concretizzata per i cristiani dei Mosul nella proposta di accettazione dello status di dhimmi (status di suddito non musulmano), in quella di conversione all’Islam oppure nell’esilio. Lo Stato Islamico promuove inoltre la hijra (emigrazione) attraverso l’esaltazione della figura del mujāhidīn muhāǧir (combattente migrante) e l’insediamento di veri e propri coloni stranieri per sostituire quelle popolazioni locali poco disposte ad accettare le leggi draconiane imposte dai jihadisti. Di fatto si tratta di un’importazione di sostenitori che soddisfano determinati criteri ideologico-religiosi per schiacciare le forme del dissenso, un tratto che nemmeno troppo paradossalmente evoca il sionismo. Un aiuto propagandistico in questo senso lo hanno indubbiamente fornito le conquiste territoriali ottenute dall’IS che gli hanno procurato un grande prestigio verso i jihadisti del Medio oriente e più in generale di tutti i paesi del mondo. In un rapporto del giugno dello scorso anno si stima che attualmente ci siano elementi di 81 paesi differenti, fra cui molti paesi occidentali. Un fenomeno inedito per la sua ampiezza. Intervistato dal Sole 24 Ore Gilles de Kerchove, coordinatore europeo dell’antiterrorismo, ha recentemente dichiarato: Stimo che i cittadini europei che stiano combattendo o abbiano combattuto in Siria siano circa 5 mila. Ipotizziamo che il 5-10% di loro sia molto violento. Il numero è enorme.

 

IV. Lo Stato Islamico: il mostro provvidenziale nel grande gioco mediorientale

Peter Harling su “Le Monde Diplomatique” ha definito lo Stato Islamico come un “mostro provvidenziale”. Un’entità che non vale tanto per quello che è, ma per come viene percepita e usata dalle potenze locali, regionali e globali. Una definizione particolarmente calzante in un contesto mediorientale che registra, sotto il dominio di Obama, il progressivo “disimpegno” degli Stati Uniti. Lungi dal pensarlo come una minaccia strategica, la Casa Bianca ritiene infatti lo Stato Islamico un soggetto utile ad attirare nella contesa le nazioni limitrofe, ed indurle ad impantanarsi in una riedizione della “strategia del contenimento” allargata a nuovi attori. Al di la delle dichiarazioni di circostanza per Washington il califfato va contenuto, non eliminato. E’ innegabile infatti che l’IS sia stato adoperato, e venga ancora oggi utilizzato, come uno strumento geopolitico: le monarchie arabe sunnite lo utilizzano per fare una guerra per procura contro Teheran, gli iraniani per consolidare il controllo di uno spazio geografico ininterrotto che dal mare Arabico raggiunge il Mediterraneo (la cosiddetta mezzaluna sciita) e i turchi per la loro “profondità strategica” contro i curdi e per le loro mire egemoniche. Un moderno “great game” caratterizzato dall’impossibilità per ogni singolo contendente (o coalizione di forze) di prevalere in maniera decisiva sui rivali, ma che sta divorando gli Stati postcoloniali del Novecento. Nel gioco delle alleanze, fino allo scoppio delle rivolte arabe in Medio Oriente, si era assistito essenzialmente alla lotta fra il cosiddetto “asse della resistenza” guidato dall’Iran e un variegato fronte costituito da Stati Uniti, da Israele e dai cosiddetti regimi arabi “moderati”. Quest’ultimi rappresentavano essenzialmente uno schieramento sunnita guidato dall’Arabia Saudita e dall’Egitto. Le “primavere arabe”, unitamente alla nuova dottrina obamiana e all’accordo con l’Iran sul nucleare, hanno però notevolmente complicato questo quadro. L’asse della resistenza ha subito un ridimensionamento con la spaccatura di Hamas. Il movimento islamico-palestinese si è schierato dalla parte dei ribelli siriani, a maggioranza sunniti e sostenuti dai Fratelli Musulmani, organizzazione di cui Hamas stesso è una ramificazione. A causa di questo la leadership del gruppo ha lasciato Damasco, dov’era ospitata dal 2001 e si è trasferita in Qatar. Significativamente nel 2013, quando Hamas ha deciso di riaprire un quartier generale distaccato all’estero, lo ha fatto a Istanbul, dove è stato accolto a braccia aperte dal vertice dell’Akp, l’attuale partito governativo del presidente Recep Tayyip Erdoğan. Sarà forse utile a questo punto ricapitolare in maniera sintetica le motivazioni delle principali potenze regionali e internazionali, che, in misura diversa, sono state risucchiate nel gorgo della crisi siriana.

Turchia
Nel 2011 il governo turco è stato fra i primi stati a reagire alla rivolta scoppiata in Siria, voltando le spalle Bashar al-Asad, che fino a quel punto era considerato un prezioso alleato, anzi un “fratellino”, come Erdoğan amava definire il presidente siriano. Solo nel 2010 Ankara aveva infatti presentato un progetto per la costruzione di un’area di libero scambio che comprendesse, oltre alla Turchia, anche la Siria, la Giordania, il Libano e l’Iraq. L’idea era quella di garantire, oltre a quella delle merci, anche la libera circolazione dei rispettivi cittadini, abolendo il regime dei visti sulla falsa riga del trattato europeo di Shengen. Il progetto avrebbe dovuto rappresentare la concretizzazione del concetto di Ottoman Nations Gathering proposto dall’allora ministro degli esteri e attuale primo ministro turco Ahmet Davutoğlu, una strategia nota anche come neo-ottomanesimo. Il Şamgen, questo doveva essere il nome dell’area di libero scambio (da Şam, toponimo turco di Damasco), venne però spazzato via dalle “primavere arabe” in coincidenza delle quali Ankara aggiustò la propria strategia mediorientale sostenendo l’ascesa dei fratelli musulmani. La posizione assunta dalla Turchia durante la guerra del Golfo del 1991 e l’invasione statunitense del 2003 avevano alienato al governo di Ankara la possibilità di influire sull’evoluzione irachena, costringendola a fare i conti con la nascita di un Kurdistan iracheno semi-indipendente. Per queste ragioni il governo turco ha deciso fin da subito di adottare nei confronti della Siria una strategia differente, accogliendo la leadership dei Fratelli Musulmani, ospitando le conferenze del “Consiglio nazionale Siriano” (Cns) e della “Coalizione dell’Opposizione Siriana” (Cos) e permettendo ai vertici militari del “Esercito Siriano Libero” (Fsa) di operare nel proprio territorio. fornendo loro sostegno logistico ed economico. La resilienza del presidente al-Asad ed il colpo di stato egiziano del 3 luglio 2013, hanno però fatto collassare anche la seconda fase della strategia neo-ottomana della Turchia, volta a favorire l’installazione di governi amici a Damasco e al Cairo. Secondo l’ex ambasciatore turco a Baghdad, Murat Özçelik, il sostegno offerto da Erdoğan allo Stato islamico e alle altri gruppi jihadisti fa parte di una nuova fase di questa strategia volta a favorire l’implosione delle entità statali di Siria e Iraq e ad integrare gli stati sunniti, che dovrebbero sorgere a sud della Turchia, in una struttura federale governata da un sistema presidenziale. La “politica dell’occhio chiuso” adottata da Erdoğan nei confronti del Califfato vede dunque al-Baghdādī soprattutto come un attore sunnita nel contesto del “Siraq” sciita, piuttosto che come un jihadista sanguinario. In questo momento la Turchia sta quindi combattendo almeno tre battaglie: una del mondo sunnita contro al-Asad e gli sciiti, un’altra per la leadership tra i musulmani nel Levante e una, forse in questo momento la più importante, per evitare la nascita di un proto stato curdo lungo i suoi confini con la Siria. Per queste ragioni Ankara è stata più che compiacente nei confronti del Califfato e per gli stessi motivi la Turchia vorrebbe coinvolgere la Nato in un’operazione di terra nel nord della Siria, rivolta formalmente contro lo Stato Islamico ma indirizzata concretamente contro le milizie curdo-siriane dell’YPG e contro i militanti del PKK.

Nel marzo scorso a Riyāḍ, durante un vertice tra Erdoğan ed il re saudita Salman, è stato raggiunto un accordo per il sostegno congiunto ad una coalizione di ribelli formata da al-Nuṣra, Aḥrār al-Shām e gruppi minori. Stando a quanto riporta un articolo uscito il 13 aprile sull’Huffington Post, in quell’occasione Turchia e Arabia Saudita avrebbero raggiunto anche un’intesa per una possibile operazione militare in Siria volta a rovesciare direttamente il regime di al-Asad. Questa intesa prevedeva l’invasione di terra da parte dell’esercito turco e la copertura aerea dell’aviazione saudita. Sempre secondo quanto riportato dall’articolo l’emiro del Qatar, paese con cui Ankara ha da poco stipulato un accordo militare che prevede la possibilità di schierare truppe congiunte in paesi terzi, avrebbe discusso del piano con Obama ottenendo un tacito assenso. Nei mesi seguenti, per diverse ragioni, Ankara non diede seguito immediato a questa operazione militare. In primo luogo perché l’accordo con Riyāḍ sul sostegno congiunto ai “ribelli”, aveva già permesso di ribaltare, almeno in parte, gli equilibri del conflitto, come dimostravano la conquista di Idlib e Jisr ash-Shugur. C’erano poi da superare le resistenze dell’esercito turco di fronte all’interventismo di Erdoğan. Ed infine pesava l’approccio diverso di Turchia e Arabia Saudita rispetto all’Iran. Ankara, infatti, coltiva l’ambizione di trasformare il proprio paese un hub geoenergetico fondamentale per l’Europa attraverso lo sviluppo del cosiddetto corridoio meridionale in cui, già dal 2019, dovrebbe confluire il gas azero diretto nel vecchio continente e in cui, sempre nei progetti di Ankara, dovrebbero confluire anche il gas iraniano e turkmeno. Questo permetterebbe al paese, in un futuro non troppo lontano, di rappresentare agli occhi degli europei un’importante alternativa all’approvvigionamento russo. L’Iran rappresenta inoltre un importante mercato di sbocco per le merci turche. Il volume delle esportazioni ammonta attualmente a 10 miliardi di dollari e sarebbe destinato a triplicarsi già entro il 2017. Nel medio periodo, secondo analisti turchi, i volumi dell’interscambio potrebbero salire addirittura a 90 miliardi di dollari. L’intervento diretto dei russi nel settembre scorso ha però anticipato e disinnescato, probabilmente in maniera definitiva, la realizzazione dei progetti di Ankara e Riyāḍ, e questo spiegherebbe almeno in parte l’azzardo compiuto da Erdoğan con l’abbattimento del bombardiere russo. Un tentativo (fallito) di provocare una reazione militareda parte di Mosca, cosi da poter forzare la mano ai propri alleati invocando l’articolo 5 del Patto Atlantico, quello che prevede l’obbligo d’intervento al finco di un paese alleato attaccato.

Recentemente il Sole 24 Ore ha dedicato due pagine ad un’illuminate inchiesta sul ruolo svolto dalla Turchia e dal Qatar nel traffico di armi a sostegno dei gruppi jihadisti. Il quotidiano della Confindustria, a cui certamente non possono essere rimproverate simpatie antimperialiste, ha reso note alcune delle conclusioni a cui è giunto il “Gruppo di esperti” del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Ne viene fuori un quadro interessante che vede nella Libia, nella Turchia e nel Qatar i vertici di una triangolazione di armi diretta in Siria. Tra le spedizioni dettagliatamente descritte nel rapporto Onu è particolarmente significativa quella di alcuni C-17 partiti dalla Libia ed arrivati in Turchia dopo aver fatto scalo in Qatar. Gli aerei da trasporto militare, di proprietà del Qatar, sono infatti volati da Tripoli e Bengasi fino a Doha usufruendo di uno speciale nullaosta diplomatico-militare che solitamente viene utilizzato per il trasporto di armi o equipaggiamento bellico. Gli incaricati dell’Onu hanno chiesto chiarimenti e dettagli ai Paesi i cui spazi aerei erano lungo la rotta percorsa (Grecia, Egitto, Arabia Saudita) ottenendo scarsissimi risultati. Ancora più reticente si è dimostrata, però, la società responsabile dei piani di volo, la Jeepsen. Un’azienda che, ad un più approfondito controllo, è risultata essere molto vicina alla Cia, tanto da esserne stata indicata come “l’agenzia di viaggio”. La Jeepsen infatti non è una società qualsiasi, ma è un’ azienda controllata dalla Boeing, un colosso che deve il 30% del suo fatturato al Pentagono, ed è anche l’agenzia che è stata adoperata dalla Cia per la campagna di extraordinary rendition dopo gli attentati dell’11 settembre 2001. Ovvero il rapimento al di fuori degli Stati Uniti di persone sospettate di avere rapporti con al-Qāʿida e il loro trasferimento in stati terzi, dove i “sospetti” venivano torturati da agenti locali per conto dell’intelligence statunitense. Un’ulteriore ragione di interesse è data però dall’aeroporto in cui i C-17 hanno fatto scalo. Non si tratta diuna pista qualsiasi, ma di quella della base di Al Udeid, dove ha sede il “quartier generale avanzato” del comando mediorientale delle Forze Armate statunitensi, il Central Command, e che oltre a ospitare il 379° stormo dell’Usaf è sede anche dell’83° stormo della Raf, l’aeronautica militare britannica. Insomma a tutti gli effetti una base anglo-americana. Risulta davvero difficile credere che i vertici militari occidentali potessero non essere al corrente della natura del carico e della sua destinazione. Questo a dimostrazione, ancora una volta, che tra il “bianco” della civiltà moderna occidentale e il “nero” dell’oscurantismo jihadista esiste tutta una gradazione di grigi in cui i confini tra il bene e il male diventano meno netti. Ankara, dal canto suo, ha sempre negato di essere a conoscenza dei trasferimenti di armi verso i ribelli anti al-Asad, eppure lo scorso maggio il giornale turco Cumhuriyet ha rivelato, foto comprese, che tir stipati di armi partivano dalla Turchia per rifornire i ribelli turkmeni. Le immagini scattate nel gennaio del 2014 documentavano l’intervento del Mit (i servizi segreti turchi) per fermare una perquisizione della polizia alla frontiera. Erdoğan aveva giurato al direttore di “fargliela pagare” e così è stato. Per quello scoop, il 26 novembre scorso il direttore di Cumhuriyet, Can Dündar, e il capo della redazione di Ankara, Erdem Gül, sono stati arrestati su richiesta del Tribunale di Istanbul. A innescare la reazione giudiziaria era stato lo stesso presidente Erdoğan, il quale ha prima promesso che i due avrebbero “pagato un duro prezzo” e poi presentato di persona una denuncia per tradimento e divulgazione di segreti di Stato. Se in quelle casse ci fossero davvero stati beni umanitari, come ha provato a sostenere la Turchia, quelle accuse però non si spiegherebbero. E adesso i due giornalisti non rischierebbero l’ergastolo. Al di là dell’origine di quello specifico convoglio è certamente impensabile che la cosiddetta “autostrada del Jihad”, la rotta che il Califfato di Abū Bakr al-Baghdādī ha usato per anni per portare jihadisti stranieri e rifornimenti dalla Turchia in Siria, non fosse monitorata dalle forze di sicurezza di Ankara. Come è difficile credere che tutte queste iniziative turco-qatariote in Libia e Siria siano passate inosservate agli statunitensi e agli altri paladini della “guerra al terrorismo”.

Russia
Per certi versi anche l’intervento russo sembrerebbe confermare la funzione di “mostro provvidenziale” svolta dello Stato islamico. Un proto Stato da cui nessuno, tranne al-Asad, si sente realmente minacciato, e contro il quale si possono dichiarare grandi coalizioni salvo poi tollerarne e addirittura eccitarne le scorrerie quando colpiscono interessi rivali. Nel cercare di analizzare il sostegno diplomatico e militare dei russi nei confronti della Siria occorre però tenere conto di quello che abbiamo già definito il “precedente libico”. In quel caso l’astensione russa e cinese in sede Onu aveva permesso di approvare una risoluzione che autorizzava l’uso della forza per imporre una no-fly zone a “difesa dei civili”. L’intervento della Nato si era però subito trasformato in un aperto sostegno ai ribelli libici, finalizzato ad imporre un “regime change” che, almeno formalmente, non rientrava negli scopi della missione e che, oltre che a una violazione del diritto internazionale, rappresentò anche uno schiaffo diplomatico che Mosca e Pechino difficilmente dimenticheranno. Oltre alla volontà che si potesse ripetere uno scenario libico ci sono pero almeno altri due fattori che vanno considerati:

1) Dopo il tracollo delle relazioni con l’Egitto di Sadat e lo smantellamento delle basi navali di Alessandria e Marsā Maṭrūḥ, la base navale di Tartus, in Siria, rappresenta l’unico ed irrinunciabile punto d’appoggio navale russo nel Mediterraneo. Nel gennaio del 2005 Vladimir Putin ha cancellato il 75% del debito accumulato dalla Siria nei confronti della Russia per spese militari, un segno più che tangibile dell’importanza che il trattato di amicizia fra i due paesi, firmato nel 1980, riveste tuttora per Mosca.

2) Un paese come la Russia, che all’inizio del 2015 dipendeva ancora per il 50% del proprio Pil dal settore idrocarburi, non può non avere un piede in Medio Oriente, l’area che ospita il 40% delle riserve accertate di petrolio ed il 41% di quelle di gas naturale. La stessa regione che attraverso lo stretto di Hormuz e del Canale di Suez controlla la movimentazione di una parte notevole delle risorse energetiche mondiali e in cui viene influenzato, in misura decisiva, il mercato mondiale dell’energia. Basti pensare all’impatto avuto dalla sovrapproduzione saudita nella guerra del prezzo del petrolio, passato in un anno da 113 a 38 dollari al barile, e alle enormi ricadute che questo ha avuto sulle economie dei paesi produttori.

Lo scorso settembre Putin ha così compiuto sullo scacchiere mediorientale quello che qualcuno ha definito acutamente la mossa del cavallo, cosa che gli ha permesso di uscire dall’arrocco ucraino, dove l’Occidente sperava di averlo confinato con le sanzioni per l’annessione della Crimea. Ordinando di schierare un robusto contingente militare nel Nord-Ovest della Siria e rafforzando la storica presenza russa imperniata sulla base di Tartus, Mosca ha dimostrato di saper sfruttare i vuoti prodotti dalla strategia statunitense per segnalare agli stessi Stati Uniti e al mondo che non è disposta a mollare al-Asad e che non è possibile escluderla dai giochi in cui si determineranno i destini della Siria ed i futuri assetti mediorientali. Come dimostra il recente vertice di Antalya Putin ha saputo volgere a proprio vantaggio un problema che resta comunque irrisolto: la divisione dell’Occidente tra Europa e Stati Uniti e anche dentro l’Unione Europea. Divisioni che non riguardano solo l’uso della forza militare, ma anche la cosiddetta soluzione politica. Ovvero l’atteggiamento da tenere nei confronti dell’Arabia Saudita, della Turchia e dell’Iran per spingerli ad attenuare il loro scontro per l’egemonia del Levante da cui la guerra civile siriana è stata alimentata. Se l’occidente vorrà davvero allearsi con Putin nella guerra contro l’IS il prezzo da pagare sarà salato. Lo si è capito quando nelle settimane scorse il premier francese Manuel Valls ha pubblicamene chiesto la revoca delle sanzioni internazionali che dovrebbero essere rinnovate il prossimo 31 gennaio. E se ne è avuta un’ulteriore riprova con l’annuncio da parte dell’ambasciatore iraniano a Mosca dell’avvio delle procedure per la fornitura a Teheran dei sistemi antimissile russi S-300. Il contratto era stato stipulato nel 2007 e poi annullato nel 2010, a causa delle sanzioni internazionali che impedivano all’Iran di acquistare questi sistemi militari. Appare evidente che sul destino di Bashar al-Asad le divergenze delle cancellerie occidentali con Mosca e Teheran siano difficilmente aggirabili e vadano ben oltre la sorte del presidente siriano. Come dimostra l’ambiguità della risoluzione approvata dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu lo scorso 19 dicembre.

La presenza aereonavale di Mosca ha però una pluralità di significati che in questa sede non è possibile ignorare. Oltre a fornire appoggio aereo alle operazioni di terra, l’intervento russo ha anticipato e nei fatti ribaltato la possibilità avanzata dalle potenze regionali sunnite (e appoggiata dagli Usa) di creare una no-fly zone. I cruise (Kalibr SS-N-30) sparati a più riprese dalle acque del Mar Caspio, a 1500 km di distanza, contro obiettivi in mano alle forze ribelli, sono stati evidentemente un “parlare a nuora perché suocera intendesse”. Questi missili, con gittata di 2500 km e capacità nucleare, rappresentano infatti il fiore all’occhiello dell’arsenale russo, al pari delle corvette Buyan da cui sono partiti. Attraversando i cieli iraniani e iracheni, prima di giungere in Siria, queste salve di missili hanno segnalato l’estensione dell’influenza russa anche al teatro iracheno. Proprio a Baghdad i servizi militari di Mosca hanno costituito un centro di coordinamento di intelligence con gli omologhi iracheni, iraniani e siriani, formalmente ai fini della guerra all’IS. Mentre un secondo comando, secondo fonti del Cremlino, potrebbe essere costituito a breve in un altro paese della regione. Un riferimento non troppo velato all’Egitto del generale al-Sisi che in una recente occasione ha espresso chiaramente il sostegno all’operazione militare di Putin. L’abbattimento del bombardiere russo da parte della contraerea turca non ha fatto altro che accelerare il processo già in corso. Per tutta risposta, secondo quanto riportato dal quotidiano kuwaitiano “Al-Rai”, Mosca starebbe schierando truppe speciali lungo la frontiera siro-turca allo scopo di sigillare i corridoi terrestri che attraverso i posti di controllo di Aazaz e Bab al-Salamah consentono ai camion provenienti dalla Turchia di portare in Siria armi, munizioni e rifornimenti ai gruppi ribelli che si battono contro il governo di al-Asad. L’intelligence russa avrebbe infatti individuato in questo passaggio una delle più importanti rotte di consegna dei missili anti-tank “Tow”. Altre truppe speciali russe sarebbero invece per essere dislocate nei pressi della base aerea di Al-Shayrat, segno, secondo il quotidiano kuwaitiano, della volontà di rafforzare la presenza dell’aviazione russa che al momento dispone di circa 75 aerei nella base di Hmeimim, adiacente all’aeroporto di Latakia. La realizzazione di una nuova base aerea a circa 25 chilometri da Homs sembrerebbe essere la premessa di un’offensiva di terra verso est dopo l’accordo raggiunto con i ribelli che abbandoneranno la città sede dell’omonimo governatorato. E tutto questo mentre dalla fine di novembre gli aerei russi vengono fatti volare con missili aria-aria di corta e media gittata rafforzando la “bolla aerea” sopra la Siria.

Si tratta di segnali importanti sull’irreversibile internazionalizzazione del conflitto che già da tempo avevano provocato ripercussioni sui progetti energetici condivisi tra i Turchia e Russia. A farne le spese per primo è stato il progetto del Turkish Stream, un gasdotto che avrebbe dovuto collegare la Russia con la Turchia passando per il Mar Nero e che era stato annunciato a sorpresa da Putin nel 2014, durante una visita in Turchia. I lavori avrebbero dovuto iniziare a partire dal giugno di quest’anno, ma Ankara non ha mai approvato neppure gli accordi intergovernativi necessari per l’opera e l’italiana Saipem, che aveva già iniziato la posa dei tubi nella tratta sottomarina del gasdotto, si è vista rescindere da un giorno all’altro il contratto da Gazprom. A tale proposito occorre tener presente che la Russia è il secondo partner commerciale di Ankara, con un interscambio pari a 31 miliardi di dollari nel 2014 e a 18,1 miliardi di dollari per i primi nove mesi del 2015. Considerando anche il settore dei servizi la cifra sale a 44 miliardi di dollari. Solo due mesi fa le ambizioni erano ben altre: in visita a Mosca il 23 settembre scorso, pochi giorni prima dell’avvio della campagna di bombardamenti russa, il presidente turco Erdoğan auspicava che entro il 2023 il commercio bilaterale raggiungesse i 100 miliardi di dollari. Queste ambizioni sono ora vittime della guerra in Siria, anche se le sanzioni russe, almeno in questa prima fase, sono meno rigide di quanto ci si aspettasse. Dal 1° gennaio le aziende russe non potranno più assumere lavoratori turchi e molte imprese di Ankara subiranno limitazioni. Inoltre, dall’inizio del 2016, le agenzie di viaggio russe dovranno smettere di vendere viaggi in Turchia e saranno vietati i voli charter. Anche qui il Cremlino ha infierito duramente perché il Paese è una delle mete preferite dai russi e l’anno scorso i visitatori sono stati oltre tre milioni. Nell’elenco delle sanzioni c’è anche la sospensione degli effetti del trattato bilaterale che aboliva il regime dei visti. Limitazioni sono in arrivo anche per i servizi, in particolare per i trasporti, che verranno sottoposti a controlli approfonditi per ragioni di “sicurezza”. Nessuna sanzione invece sul fronte energetico dove Ankara e Mosca sono legate a doppio filo. Mosca è il principale fornitore di gas della Turchia che importa dai russi il 60% del fabbisogno annuo. E la Turchia, dopo la Germania, è il secondo cliente di Mosca. Senza contare il passaggio al nucleare che Ankara ha affidato in buona parte ai russi: nel 2013 la Turchia ha commissionato alla russa Rosatom la sua prima centrale (ad Akkuyu), quattro reattori e un progetto da 20 miliardi di dollari.

Arabia Saudita e Qatar
Il 2 ottobre del 2014, intervenendo al John F. Kennedy Jr Forum presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Harvard, il vicepresidente americano Joe Biden espose con inusuale franchezza l’opinione del governo americano sugli alleati nella regione e in Siria, sostenendo che l’Arabia Saudita, la Turchia e gli Emirati Arabi:

erano decisi a liberarsi di al-Asad e a far esplodere una guerra per procura tra sunniti e sciiti. Cos’hanno fatto allora? Hanno elargito centinaia di milioni di dollari e decine di migliaia di tonnellate di armi a chiunque sostenesse di voler combattere contro al-Asad. Peccato però che tra questi ci fossero anche al-Nuṣra, al-Qāʿida e gli estremisti jihadisti giunti da altri paesi.

Considerazioni condivise anche dal ministro tedesco per la Cooperazione e lo Sviluppo, Gerd Müller, che nell’agosto dello stesso anno aveva dichiarato: dovete domandarvi chi sta armando e finanziando le truppe dell’Isis. La parola chiave è Qatar. Del resto era stato lo stesso principe Saud Feisal a chiarire il concetto al segretario di Stato Usa John Kerry: Daesh è la nostra risposta sunnita al vostro appoggio agli sciiti dopo la caduta di Saddam.

Qatar
Questo piccolo ma ricchissimo emirato del Golfo si è contraddistinto per un crescente attivismo politico-regionale a partire dal 1995, quando salì al potere l’emiro Hamad bin Khalifa al-Thani. Schiacciato tra due vicini ingombranti (l’Iran e l’Arabia Saudita) nei primi anni Duemila il Qatar aveva mostrato una notevole scaltrezza politica associata alla capacità di bilanciare le proprie alleanze, grazie anche alla liquidità derivatagli dallo sfruttamento del giacimento di gas condensato chiamato South Pars/North Dome. Uno dei più grandi nodi energetici ed economici del pianeta con riserve stimate di 51 trilioni di metri cubi di gas. Il patrimonio colossale degli al-Thani è segnato però da un vulnus preciso che si chiama Iran. Questo perché più di un terzo del giacimento sottomarino si trova in acque territoriali iraniane. La South Pars (così si chiama il lato persiano del giacimento) a differenza della controparte qatariota non è ancora del tutto sviluppato. L’ambizione del Qatar è quella di realizzare una serie di gasdotti verso l’Europa con sbocco in Turchia alternativi a quello che dovrebbe attraversare Iran, Iraq e Siria. In questa veste il Qatar appare in concorrenza diretta sia con l’Iran (in quanto produttore), che con la Siria (in quanto destinazione), e a un grado inferiore con l’Iraq (in quanto paese di transito). Dopo lo scoppio delle primavere araba Doha ha tuttavia puntato sempre più apertamente sull’ascesa dei movimenti islamici, e soprattutto sui Fratelli Musulmani, rompendo il proprio rapporto con Damasco e incrinando quello con le alte petromonarchie del Golfo che tradizionalmente nutrono una profonda diffidenza nei confronti di questo movimento. Dopo la vittoria dei Fratelli Musulmani in Egitto e del partito al-Nahda in Tunisia, il Qatar ha visto nell’alleanza con la Fratellanza e più in generale coi movimenti islamici la possibilità di accrescere la propria influenza politica ed economica in Medio Oriente. Doha ha dunque deciso di appoggiare economicamente l’Egitto di Morsi, attraverso una vigorosa politica di prestiti, e militarmente la ribellione libica contro Gheddafi prima, e quella siriana contro al-Asad dopo. Così come per la Turchia, la deposizione di Morsi in Egitto e le disfatte subite dai “ribelli siriani” hanno ridimensionato la proiezione regionale dell’Emirato che però non ha rinunciato ad avere un peso nei futuri assetti dell’area. Nel 2009, in un messaggio classificato “segreto” ma reso pubblico da Wikileaks, il dipartimento di Stato statunitense definiva il grado di collaborazione del Qatar nell’anti-terrorismo “il più basso della regione”. Nell’ottobre dell’anno scorso, l’allora sottosegretario al Tesoro Usa David Cohen indicò il Qatar come uno stato “permissivo” in materia di finanziamento al terrorismo. Nell’elenco dei “agevolatori finanziari del terrorismo” redatto da Washington si trovano ben 16 qatarioti, e cinque cittadini di altri Paesi arabi che operano in Qatar. Tra questi ultimi spicca il tunisino Tariq Al-Awni Al-Harzi, che il Tesoro americano definisce

un funzionario di alto livello di Isis (…) responsabile del reclutamento di cittadini nordafricani ed europei (…) il quale, nel settembre del 2013, ha fatto in modo che lo Stato islamico ricevesse due milioni di dollari da un finanziatore di base in Qatar con istruzioni specifiche di usare quella somma in operazioni militari”.

Arabia Saudita
La politica adottata dall’Arabia Saudita nei confronti della guerra civile siriana merita anch’essa un’attenzione particolare. Per Riyāḍ, tradizionalmente ostile al cambiamento e favorevole al mantenimento dello status quo, le “primavere arabe” hanno rappresentato un trauma. Soprattutto quando l’instabilità cominciò a lambire i propri confini con le rivolte in Bahrein e nello Yemen. Inoltre la monarchia saudita è sempre stata legata a doppio filo con gli Stati Uniti  ed ha sempre guardato con timore all’emergere di qualsiasi alternativa regionale potesse mettere in secondo piano l’alleanza di Washington con Riyāḍ. La prospettiva di un nuovo fronte “moderato” guidato dalla Turchia e l’accordo sul nucleare conl’Iran ha sempre spaventato la casa saudita. Lo scoppio della rivolta siriana ha dunque permesso alla famiglia saudita di passare al contrattacco. Dopo aver assistito nel 2005 alla nascita in Iraq del primo governo sciita in un paese arabo dal XII secolo, e dopo aver dovuto subire l’ascesa di Hezbollah in Libano, l’Arabia Saudita ha visto nella ribellione siriana l’opportunità di rovesciare il regime alauita di al-Asad infliggendo un duro colpo all’Iran e guadagnando influenza in Libano. A partire dall’estate del 2013 i sauditi hanno sostituito il Qatar in cima all’elenco dei finanziatori dei ribelli siriani grazie anche all’intermediazione di istituti finanziari come l’Al Rajhi Bank. Tuttavia il sostegno è andato ben oltre al semplice incremento degli stanziamenti: il numero di combattenti provenienti dall’Arabia Saudita ha infatti superato quello di ogni altro paese. Un fenomeno, questo, che alla lunga potrebbe rivelarsi un boomerang per la stabilità del regno, ma che si lega a uno degli sviluppi più pericolosi della nostra epoca, ovvero la “wahabbizzazione” dell’islam sunnita tradizionale. Come ha denunciato Ali Allawi, storico ed esperto del settarismo, in un paese dopo l’altro le comunità sunnite “hanno adottato elementi del wahhabismo che in origine non facevano parte del loro canone”. Il prevalere del wahhabismo dipende ovviamente dal peso politico ed economico dell’Arabia Saudita. Riyāḍ sfrutta l’intenso proselitismo delle sue opere di carità wahhabite che negli ultimi trent’anni hanno costruito ai quattro angoli del pianeta più di 1500 moschee, 210 centri musulmani, 202 collegi islamici e 2 mila madrase, spedendovi oltre 4 mila missionari. Arrivati a questo punto ci si potrebbe chiedere con un pizzico di ingenuità perché questa complicità diretta con il “terrorismo islamico” da parte delle petromonarchie viene accettata dagli occidentali.

Nel 2009, a otto anni dall’attentato del 11 settembre, l’allora Segretario si Stato Usa, Hillary Clinton, in un cablogramma rivelato da Wikileaks, lamentava il fatto che la fonte di finanziamento principale dei gruppo terroristi sunniti fosse costituita da donatori sauditi. La risposta al quesito sta nei miliardi di petrodollari che le monarchie del Golfo hanno dirottato fin dalla crisi petrolifera dei primi anni Settanta verso i mercati finanziari statunitensi e nella centralità che in questo modo è stata conferita al dollaro del sistema monetario internazionale dopo la rottura unilaterale degli accordi di Bretton Woods e il tramonto del “gold dollar standard”. Alla luce di queste cifre si spiega l’atteggiamento americano nei confronti del Califfato e dei jihadisti siriani sponsorizzati dalle monarchie del Golfo. La Saudi Connection, come la definisce Alberto Negri:

è soprattutto il rapporto ombelicale che da 70 anni lega Washington a Riad. L’Arabia saudita, il più oscurantista degli stati  islamici è la roccaforte del sunnismo, ma anche la nazione musulmana con il più antico patto con gli Stati Uniti firmato tra Ibn Saud e Roosevelt nel 1945 pochi giorni dopo Yalta. Mentre Obama e re Salman si stringevano la mano al G-20 di Antalya veniva firmato l’ennesimo contratto militare: 1,2 miliardi di dollari per 10mila sofisticate bombe made in Usa da scaricare in Yemen sulla testa dei ribelli sciiti Houti.

Negli ultimi 5 anni o sauditi hanno acquistato sistemi d’arma da Washington  per 100 miliardi di dollari. Mentre il Qatar il 14 luglio dell’anno scorso ha acquistato elicotteri Apache per 11 miliardi di dollari con un’intesa siglata a Washington dal Segretario alla Difesa Chuck Hagel. In quell’occasione Hagel definì “di importanza critica” la relazione tra Usa e Qatar e dichiarò di essere “felice che continui a diventare sempre più stretta”. In verità Riyad, dietro pressioni statunitensi, ha ufficialmente inserito l’IS nella lista delle organizzazioni terroristiche e ha recentemente annunciato la costituzione di un’alleanza di 34 stati musulmani per la lotta al Califfato. Ma sia la Russia che le cancellerie occidentali hanno dimostrato di nutrire più di qualche perplessità sulle reali intenzioni di questo “fronte” e sulle sue modalità d’azione.

Qui la terza parte

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