Print Friendly, PDF & Email

orizzonte48

Colonialismo e cooperazione delle élites locali

A volt€ ritornano (i nuovi sepoy)

di Quarantotto

Antefatto

9d96a1a814edb044770eff9572adf884Tralasciando per il momento la "questione ambientale" (per il cui ulteriore approfondimento rinvio a questo commento di "Correttore di Bozzi"), per l'argomento in questione muoverei da quanto ricordatoci da Arturo nella sua lunga citazione di Losurdo (La sinistra assente di Losurdo (Roma, Carocci, 2014, pp. 261 e ss.):

"Ma diamo uno sguardo alla storia del colonialismo nel suo complesso. 

Il Terzo Mondo e la «grande divergenza» a danno di esso sono in larga parte il risultato della deindustrializzazione e della decrescita imposte dall’aggressione colonialista e dall’apertura subitanea e violenta del mercato nazionale alle merci più a buon mercato provenienti dalla metropoli imperialista; un’a­pertura subitanea e violenta anche perché finalizzata al mantenimento e al rafforzamento del dominio coloniale: ancora nel 1810 la Cina vantava un prodotto interno lordo che costituiva il 32,4% del prodotto interno lordo mondiale mentre « l ’ aspettativa di vita cinese (e quindi la nutrizione) era circa a livelli inglesi (e perciò sopra la media continentale) persino a fine Settecento». Non molto diversa è la storia dell’ India che, sempre nel 1810, contribuiva per il 15.7% al p i l mondiale (Davis, 1001, p. 299). Proprio in seguito all’aggressione coloniale i due grandi paesi asiatici sono stati investiti da un ciclo di progressiva decrescita e sono caduti in una miseria disperata e fatale per milioni e milioni di persone; ed è per porre rimedio a tale situazione che si è imposta una politica di sviluppo autonomo."

Il tema, e ormai lo dovremmo sapere, è stato ampiamente trattato da Chang ne "The Bad Samaritans", anche con riferimento ai dati del secondo dopoguerra, come trovate illustrato qui e qui (notare che, così come ai nostri giorni, col colonialismo del liberoscambio e del gold standard, nessuno cresceva in modo rilevante e, ovviamente, le industrie altamente inquinanti proliferavano eccome, mentre, più che mai, "le risorse erano scarse", tanto che ne derivarono ben due guerre mondiali).

 

1. Per entrare in tema, rammentiamo che abbiamo cercato di definire le caratteristiche che contraddistinguono il colonialismo, rispetto all'area etnico-politica che lo subisce, collegandolo, nei tempi moderni, ai mutamenti che il capitalismo impone al demos, identificabile per legami territoriali di "prossimità" nonchè linguistici; dunque ai cambiamenti "strutturali" insiti in un capitalismo inevitabilmente, liberoscambista, nella sua forma più libera dai freni delle democrazie sociali sovrane, ovvero "globale" di stampo anglo-sassone (quando non fosse stato direttamente evoluto, come in un passato non troppo lontano dell'Europa, da un sistema imperiale multietnico e a base feudale, forma politicamente diversa ma che presentava gli stessi caratteri fondamentali):

"Il "nuovo" (che si connette alla trasformazione generalmente derivante dall'instaurarsi del sistema capitalista), quindi, riflette l'affermazione di interessi prevalenti "oligarchici" e normalmente contrapposti a quelli della maggioranza, all'interno della comunità. E  ciò anche quando, come spesso, anzi per lo più, si verifica, nascano da un'azione "innovativa" che si produce dall'interno della comunità "linguistica" medesima.  

Da questa disomogeneità di interessi ed effetti, interni alla comunità "etnica" precedentemente identificabile, e promossa da forze espresse dalla stessa comunità, va naturalmente eccettuato il caso eclatante del mutamento indotto dalla guerra di conquista coloniale, in tutte le sue forme, "moderne" e più recenti.

Riservandoci un maggior approfondimento, la conquista coloniale è quella operata da un gruppo vivente su un distinto territorio, avente una distinta lingua e tradizione culturale, e tesa ad instaurare uno stabile e unilaterale assetto predatorio delle risorse del gruppo territoriale assoggettato, che viene controllato da un governo che: 

a) è situato, nel suo vertice decisionale, nel territorio del gruppo dominante

b) esclude istituzionalmente la partecipazione di esponenti del gruppo assoggettato a ogni forma di governo e di determinazione dell'indirizzo politico

Insomma, (al di fuori del caso del colonialismo, e peraltro solo tendenzialmente), parlare una lingua o un dialetto comuni non elimina il fatto che alcuni - pochi e autoproclamatisi "legittimati" al di sopra delle vecchie "prassi e usanze"-, in quanto divenuti capaci di dirigere l'assetto sociale, si avvantaggiano a danno di altri che, pur condividendo lo stesso idioma (e una certa tradizione territorial-culturale), subiscono le decisioni dei primi." 

 

2. Vale ora la pena di fare una precisazione: l'eccettuazione della colonizzazione dal "corso" generale dell'innovazione capitalista, non si contrappone ad esso ma ne costituisce una forma complementare. In altri termini, il colonialismo delle aree forti (economicamente e militarmente) verso quelle più deboli, non è una deviazione contraddittoria del capitalismo, ma una sua speciale manifestazione legata all'imperialismo che si lega connaturalmente al liberismo (ovvero alla sua esportazione politica che accompagna e consolida quella intesa in senso economico: altro che esportazione della democrazia!).

Quindi, la forma complementare del colonialismo risulta storicamente quasi immancabile; cioè, una tendenza ricorrente che, ferme le sue caratteristiche essenziali, si rinnova ai nostri giorni in forme politiche (solo) apparentemente nuove, lasciando inalterata la sostanza dell'allargamento dei mercati dell'area politica dominante a danno dell'area "dominata".

Ma, va chiarito, anche all'interno di quest'ultima, o meglio del gruppo etnico-linguistico "dominato", esiste una riproduzione del conflitto sociale, sebbene, appunto e proprio a seguito dell'assetto (neo)coloniale, trasposta all'interno di una gerarchia (sostanzialmente simile a quella feudale).

L'elite del paese dominante, infatti, si serve efficacemente di una elite designata, ma pur sempre subordinata, del paese dominato, per imporre la effettività del sistema.

La elite dei "colonizzati" collabora per un proprio vantaggio e ottiene, almeno nelle intenzioni, di risolvere il proprio problema di controllo sociale, all'interno del conflitto sociale che avrebbe comunque dovuto fronteggiare, pur rinunciando alla piena potenzialità dei propri profitti economici. 

 

3. Insomma, essendo il controllo istituzionale il vero scopo ultimo del neo-liberismo (Kalecky, ma anche Kalergy, da visioni opposte, ce lo indicano chiaramente), la sua globalizzazione, inscindibilmente preannunciata dalla liberalizzazione dei capitali e dalle "banche centrali indipendenti", fa accontentare le elites locali che tendono, abbastanza di buon grado, ad accettare la subordinazione strutturale del proprio potere economico, nonchè del proprio ruolo politico (confinato a quello di "delegati" o "margravi" come abbiamo visto qui) in cambio della c.d. stabilità.

La stabilità politica e sociale invocata dalle elites, sia dominanti che "delegate", coincide poi con quella monetaria, che è null'altro che un modo di dire che si pone sotto controllo il mercato del lavoro, quindi la causa considerata come determinante ed essenziale dell'inflazione (che è percepita come ragione principale della perdita del vantaggio fondamentale perseguito, cioè la continuità dell'assetto sociale instaurato). 

Hayek, con implicazioni attualissime viste qui, e, in parallela "convergenza", Einaudi, con articolati ragionamenti (v.addendum), sono piuttosto chiari sul punto: entrambi dimenticano che se è vero che anche un "salariato" è un creditore,  ciò non vale per la condizione a cui le politiche monetariste e deflazioniste lo portano: quella di disoccupato, che non deve avere alcun salario da nessuno (tanto più che entrambi considerano il sistema pensionistico pubblico un bieco "privilegio" da limitare, o meglio da estirpare, limitando ancor più la stessa astratta possibilità di quel creditore "piccolo" che dovrebbe essere, chissà perchè, il primo interessato alla deflazione).

 

4. Vi riporto quindi un interessante brano illustrativo del fenomeno di gerarchia e sottoordinazione decrescente, e quindi di asservimento "stratificato", che comporta il colonialismo, anche nelle sue forme nuove ma sostanzialmente identiche, mediante il collaborazionismo delle elites locali. 

Lo ritraggo da una poderosa trilogia di romanzi, su questo tema, scritti da un autore indiano di cultura anglosassone, Amitav Ghosh, in particolare da "Diluvio di fuoco" (Neri Pozza, 2015, pagg.60-61).

In breve, si tratta di una conversazione tra un "informatore" bengalese, residente a Canton per varie disavventure, e un mandarino della "intelligence" cinese, nel pieno della crisi dell'oppio tra Cina e Inghilterra:

"...All'epoca gli ufficiali cinesi erano giunti alla conclusione che i sepoy erano schiavi e che gli inglesi non si fidavano delle loro capacità di combattenti, e che per questo se n'erano andati da Macao senza opporre grande resistenza.

"Ma i sepoy non sono schiavi" Ho protestato. "E al pari dei soldati inglesi vengono pagati".

Ricevono lo stesso onorario dei soldati inglesi dai capelli rossi?

"No" ho dovuto riconoscere. "Sono pagati molto meno, circa la metà".

Vengono trattati allo stesso modo? Mangiano e alloggiano insieme, le truppe indiane e quelle inglesi?

"No" ho ammesso "Alloggiano separatamente e ricevono un diverso trattamento".

E gli indiani possono raggiungere posizioni di comando? Ci sono ufficiali indiani?

"No" ho detto "I ruoli di comando sono riservati agli inglesi".

...Perciò gli indiani combattono per una paga inferiore, sapendo che non potranno mai raggiungere posizioni di comando. Giusto?

"...Ciò che voi dite è vero".

Ma allora perché combattono?

Non sapevo cosa rispondere. Come fai a spiegare una cosa che tu stesso non capisci? Mi sono limitato a dire: "Combattono perché è il loro lavoro. Perché è così che si guadagnano da vivere".

Dunque vengono da famiglie povere?

"Vengono da famiglie di agricoltori" ho detto. "Vengono da certe zone all'interno del paese. Ma non sono poveri, molti vengono da famiglie di alto rango e molti sono proprietari di terre".

...Perché dunque rischiano la vita, se non per necessità?

"Be'" ho detto "è difficile da spiegare, ma è perchè molti appartengono a clan" - non riuscivo a trovare una parola per "casta"- che si sono sempre guadagnati da vivere combattendo. Dichiarano la loro lealtà a un capo e combattono per lui. Un tempo i loro capi erano sovrani indiani, ma da qualche anno la Gran Bretagna è diventata la maggiore potenza. Da allora i sepoy combattono per gli inglesi come prima facevano per raja e nawab. Ai loro occhi non fa una grande differenza". 

 

5. Il tema ritorna poco dopo (pag.89), nel romanzo, in un'altro dialogo che si svolge tra un vecchio soldato-proprietario terriero e un sottufficiale dei sepoy, reclutatore per conto della Compagnia delle Indie (entità formalmente commerciale che, inizialmente, esercitò il controllo politico-militare di colonizzazione inglese, rispondendo però alla Corona, oltre che ai suoi "investitori"). 

Il passaggio è cruciale, se rammentiamo le ragioni della "stabilità" dell'assetto sociale che, comunque, il colonialismo riesce a garantire alle elites ne loro vari "strati", elites intese, quantomeno, come parte già avvantaggiata dall'assetto sociale precedente all'arrivo degli stranieri colonizzatori:

"Però Bhyro Singh, non c'è izzat (onore, ndr.) nel lavorare per i firangi mangiatori di vacche"

"Ma anche i musulmani sono mangiatori di vacche" disse lui. "E questo non vi ha impedito di mandare vostro figlio a Delhi per entrare nell'armata del Moghul, no? Per i nostri padri e i nostri nonni servire i badshah musulmani è sempre stato un onore. E lavorare per la compagnia è un onore anche più grande, dal momento che gli inglesi stanno purificando l'Indostan.

Per migliaia di anni in questo paese tutto è decaduto e si è degradato, la gente si è mischiata così tanto che è diventato difficile fare distinzioni. Sotto gli inglesi invece ognuno deve stare al suo posto, ognuno coi i suoi simili: i bianchi coi bianchi, mentre noi ce ne stiamo per conto nostro. Sono loro i veri difensori della casta...".

 

6. Naturalmente, tutto questo discorso può risultare accettabile solo non considerando i vantaggi collettivi, cioè dell'intero corpo sociale assoggettato, e che TUTTI i suoi componenti possono ritrarre, che discendono dal non essere sottoposti allo sfruttamento coloniale di potenze estere: la questione del trattamento economico dei sepoy, differenziato da quello dei soldati inglesi e la preclusione ai ruoli di comando effettivamente decisionale, dovrebbero essere indicativi di ciò. Dovrebbero: attualmente, mutatis mutandis, ciò appare del tutto sfuggire ai nostri concittadini. 

Per lo meno a quella maggioranza delle classi economicamente privilegiate, almeno in passato, che sostengono l'euro e l'Unione europea, pur subendo la inarrestabile restrizione della propria stessa predominanza socio-economica (cosa che appare miope e suicida, come vedremo nel finale, affidato ad un'altra puntuale citazione). 

(E infatti i sepoy si ribellarono; ma quando ormai era troppo tardi. Ci volle poi Gandhi che, però, non respingeva il sistema delle caste, cioè la tradizione presuntamente etica della stabilità sociale gerarchizzata, ma lo voleva solo mitigare; la Costituzione indiana, (solo) in teoria, superò il sistema grazie al democratico B.R. Ambedkar)

 

7. Se poi facessimo le dovute modifiche lessicali ed eliminassimo il termine "casta" (oggi utilizzato in senso spregiativo, opposto a quello usato nel contesto sopra riportato, cioè come ostacolo, derivante dalla organizzazione legale degli Stati a democrazia parlamentare, al ripristino delle gerarchie "naturali": i neo-liberisti le definiscono tali facendole coincidere con la "razionalità" superiore alla stessa legislazione dei parlamenti democratici), il discorso del "reclutatore" mostra tutta la sua fascinazione attuale.

Le sue premesse sull'inarrestabile decadimento dell'ordine sociale, divenuto costume degenerato di un popolo ormai irredimibile, somigliano (non troppo) sorprendentemente a quelle di Travaglio

Dunque, l'asservimento al dominatore estero, implica un recupero etico a cui non c'è alternativa

E questo basta a giustificare la perdita della sovranità. Sempre e comunque. Ma anche a ribadire che, al riparo dello stesso dominatore estero, quelle gerarchie che corrispondono all'ordine naturale, perciò incontestabilmente "sane", (quali che esse siano nella concezione storico-culturale di coloro che le invocano), sono più importanti della stessa democrazia e della sovranità in senso moderno, per definizione immeritate e sacrificabili all'ordine naturale dell'etica da restaurare (naturalmente, oggi, è quella dei "mercati", depositari dell'efficienza e dell'etica: a prescindere da qualsiasi verifica storica sull'attendibilità di questa fede assoluta).

  

8. Per chiudere il cerchio,  attualizzando ai nostri giorni lo schema storico-politico tratteggiato, risulta particolarmente eloquente quanto detto da Alberto Bagnai in questo post, nella parte dedicata agli imprenditori veneti (ma, ovviamente, se si è dotati di normale comprendonio, non solo a loro):

"Ai cari amici imprenditori del Veneto, dai quali sarei dovuto andare oggi, ma mi sono rifiutato di farlo quando ho visto che l'evento prendeva una piega non costruttiva, mi limito a dire una cosa.

Voi avete difeso finora l'euro per due motivi: uno etnico e uno economico.

Il motivo etnico: purtroppo voi veneti prendete il meglio delle altre regioni italiane: siete spocchiosi come un fiorentino (prendete me ad esempio), e piagnoni come un napoletano. Voi credete veramente che se non vi avesse rovinato Campoformio (pianto), a quest'ora potreste competere da pari a pari con la Germania (spocchia), e quindi che se siete costretti a chiudere le vostre aziende la colpa non è del fatto che l'euro soffoca l'economia italiana, ma dello Stato ladro, dei terroni, ecc.

Preciso subito una cosa: voi non siete la Germania (perché non avete il suo peso geopolitico): siete meglio della Germania, e lo avete dimostrato tutte le volte che avete avuto le mani libere. E allora perché avete difeso un sistema che vi legava le mani?

Subentra il motivo economico: purtroppo voi imprenditori (rectius: i meno brillanti di voi) siete entrati nel simpatico schema Ponzi che qui descrive un vostro collega: le banche, pare, vi finanziavano se voi partecipavate alla loro ricapitalizzazione. Non è mica una novità, succede dappertutto. Sarà la magistratura a accertare i fatti e la loro rilevanza giuridica. Quella economica la si può intuire.

Ora, cari amici, vorrei farvi notare una cosa. Per anni avete creduto che, una volta entrati in questo giro, l'euro vi tutelasse, e questo perché persone prezzolate dal grande capitale (che non siete voi, e che è vostro nemico) vi dicevano che recuperare sovranità monetaria vi avrebbe fatto perdere dall'oggi al domani il 20% del vostro capitale. Una cosa che non è mai successa: mai e da nessuna parte una svalutazione è stata accompagnata da un pari crollo della ricchezza in termini reali (motivo e dati per l'Italia sono qui)...

...Senza il vostro sostegno il paese non può liberarsi. 

Quelli che creano il valore di cui le banche altrui vogliono appropriarsi siete (anche) voi. 

Siete veramente sicuri che farsi espropriare da uno Stato altrui per odio ideologico verso il proprio Stato sia un'ottimissima idea? Perché se avete accettato l'euro è per questo: perché pensavate che avrebbe costretto lo Stato ladro a disciplinarsi (e per tutelare il valore nominale di quei risparmi che ora i tedeschi vi hanno detto in faccia che si prenderanno)."

Add comment

Submit