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La Siria, lo Stato Islamico e la “guerra all’Europa”/terza parte

di Militant

Qui e qui la prima e la seconda parte

Obama US Saudi Arabia Horo 1 e1396027024834V. La Cooperazione internazionale e le ONG, braccio "non armato" del capitale in Siria

Uno sguardo sull’attività di cooperazione dei paesi del golfo e il caso della Qatar Charity in Siria: dall’introduzione del concetto di guerra umanitaria e di “bombing for democracy”, gli interventi di assistenza umanitaria sono sempre più legati a doppio filo a contesti di guerra, al di là di eventi quali catastrofi naturali. Anche la cooperazione internazionale, governativa o meno (attraverso il tramite delle cosiddetto associazionismo da società civile), costituisce molto spesso l’apripista per gli interventi belligeranti, laddove accordi, diplomazia e buone maniere non raggiungono il loro scopo: o c’è da dire che forse la guerra costituisce spesso il cavallo di troia attraverso cui è possibile instaurare nuovi tipi di relazioni politiche ed economiche.

Negli ultimi anni tra i donatori che non appartengono al Development Assistance Committee (DAC) dell’Ocse più recentemente saliti alla ribalta si distinguono i paesi del golfo: tra questi i donatori maggiori sono riconducibili ai paesi dell’Arabia Saudita, del Kuwait e degli Emirati Arabi Uniti.  In particolare, gli EAU nel 2014 si sono classificati per il secondo anno di fila come il più grande donatore di ODA (aiuto ufficiale allo sviluppo) al mondo in relazione al PIL: circa 1,17% del prodotto interno lordo secondo le stime DAC.   C’è da dire che i governi dei paesi del golfo hanno operato a partire dagli anni ’60 per lo più grazie all’istituzione di fondi nazionali e regionali per lo sviluppo: il primo è stato il KFAED istituito dal Kuwait, seguito poi dall’ADF degli EAU e l’SDF per l’Arabia Saudita. Con il tempo, con l’evolversi della dei rapporti economici e politici, i vari stati si sono dotati di strumenti differenziati come le “Red Crescent Societies”, sorta di croci rosse legate a doppio filo alle politiche governative nazionali. A livello regionale, con l’istituzione di varie sovrastrutture oltre quelle costituite dall’OPEC e dal Consiglio di Cooperazione del Golfo, sono stati istituiti una serie di organizzazioni distinte per tematiche settoriali e di scopo quali l’IDB, l’AFESD per lo sviluppo sociale ed economico, la BADEA con una speciale attenzione verso l’Africa, ecc. Man mano che le relazioni diplomatiche con l’occidente si stringevano, si intrecciavano anche relazioni con l’ONU e i suoi uffici: tutt’ora esistono organismi di coordinamento dei vari stati del golfo con gli istituti delle Nazioni Unite come l’AGFUND e l’UNRWA, sebbene lascino molto a desiderare in fatto di sincronia.

Sempre di più, però, un grande peso è costituito da numerose associazioni e organizzazioni non governative che, sebbene vengano presentate come espressione della società civile, a causa dello stretto controllo governativo e del fatto di essere molto spesso appannaggio della volontà di ricchi personaggi dell’establishment politico ed economico dei vari paesi, poco si discostano dagli obiettivi di fondo della nascente classe capitalistica dell’area che vede i suoi interessi legati sempre di più non solo ai derivati del petrolio e delle fonti energetiche, ma anche allo sviluppo di tecnologie per le fonti rinnovabili, al settore della logistica e delle infrastrutture, dei trasporti e delle telecomunicazioni.  Anche la pratica della Zakat, la carità islamica, la quale costituisce un’importante fonte di proventi per le attività di queste organizzazioni, rende difficile tracciare un confine netto tra la presunta neutralità di queste organizzazioni e le volontà privatistiche di importanti personalità, al governo o meno.

L’attività dei paesi del golfo nell’area Mena (Medio Oriente e Nord Africa)  è in forte crescita, a partire dal periodo immediatamente precedente le cosiddette “primavere arabe”, ma soprattutto dopo, con i vari distinguo. Ad esempio appare evidente che il livello degli aiuti arabi allo sviluppo in Africa si è innalzato grazie agli ingenti flussi diretti in Egitto e in Tunisia dopo i grandi sconvolgimenti interni. C’è da dire che fino a che i Fratelli Musulmani sono rimasti al potere è stato soprattutto il Qatar a donare ingenti aiuti, mentre Arabia Saudita, EAU e Kuwait si sono fatti avanti solo dopo la caduta di Morsi.  Inoltre, non solo i paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo hanno diretto ingenti flussi verso paesi in fase di transizione come Egitto, Giordania, Marocco, Tunisia e Yemen (circa 7,1 miliardi di dollari dal 2011 al 2012). Qatar, Arabia Saudita, EAU e Kuwait sono impegnati al supporto delle transizioni dei paesi arabi grazie all’accordo di Deauville. Giordania e Marocco sono stati invitati a partecipare al Consoglio di Cooperazione del Golfo (GCC). Vi sono evidenze del fatto che i paesi del Consiglio del Golfo siano tornati a espandere il volume degli aiuti verso questi paesi nel 2013, con una speciale attenzione verso l’Egitto e la Tunisia.

Nonostante la proliferazione di numerosi accordi regionali a partire dall’ “Arab Transit Agreement” del 1953 e l’ “Arab Economic Agreement” del 1957, molti obiettivi di integrazione non sono stati ancora raggiunti.  Anche il processo di liberalizzazione portato avanti dal GAFTA (“Greater Arab Free Trade Area”) può considerarsi incompiuto in termini di benefici per quanto riguarda quei paesi poveri di proventi del petrolio che non hanno avuto risorse da investire: ma ciò costituisce forse il presupposto per ogni area regionale, in cui la regola è che alcuni paesi perdono, altri vincono; in cui si determinano condizioni di centro e periferia a causa di interessi economici forti che dominano su tutti gli altri. All’interno della Mena vi sono i settori di alcuni paesi che risultano assolutamente dominanti: ad esempio il settore kuwaitiano delle telecomunicazioni.  Gli investimenti GCC nell’area Mena sono aumentati considerevolmente dal 2006 grazie a un boom nei prezzi del petrolio e ad un aumento del grado di sicurezza degli investimenti grazie ad alcune riforme. L’Istituto della Finanza Internazionale ha rilevato non solo un aumento del 10-15% nelle holdings FDI dei paesi Gcc nell’area ma anche un cambiamento nel tipo di investimenti, passati dal settore degli idrocarburi e del real estate negli anni ’70 fino a includere anche i servizi finanziari e la manifattura. Occorre notare che gli investimenti Gcc superano di gran lunga quelli dell’Ue, anche se non tutti i progetti annunciati sono stati realizzati o sufficientemente sostenuti.

Già prima dello scoppio della guerra in Siria vi erano importanti progetti di assistenza ufficiale allo sviluppo dai tratti per lo più economico-commerciali.  L’aiuto internazionale umanitario ufficiale al momento viene coordinato dall’UNOCHA, un istituto apposito dell’Onu grazie ad un mandato stabilito dalla Risoluzione 46/182 adottata dall’Assemblea Generale attraverso i programmi di intervento SHARP (“Syria Humanitarian Assistance Response Plan”) e RPP (“Syria Regional Response Plan”). Il Comitato Internazionale della Croce Rossa collabora con la “Syrian Arab Red Crescent” per fornire beni di prima necessità alla popolazione in difficoltà.

Le nazioni occidentali che più si sono prodigate per raccogliere e inviare gli aiuti sono gli Usa, la Gran Bretagna, la Germania e la Norvegia, oltre all’UE; mentre tra i donatori “non convenzionali” appaiono l’Iran e Israele, quest’ultimo con una serie di critiche appresso riguardo alla cure prodigate a combattenti feriti appartenenti a formazioni dei ribelli, violando di fatto la neutralità dell’aiuto umanitario.  Anche gli aiuti da parte della Turchia non sono privi di ombre ed ambiguità: sono numerose le testimonianze, fornite anche dai servizi di intelligence russi, del supporto del governo di Erdogan ai “ribelli” e dei numerosi rapporti economici e di connivenza che vi intercorrono.

La “crisi” siriana è diventata un punto di svolta importante per quanto concerne il ruolo assunto dai donatori arabi nella storia dell’aiuto umanitario, nonostante tutte le critiche da parte della comunità internazionale e dagli stessi istituti dell’Onu che li tacciano di scarso intervento, specialmente per quanto riguarda la causa dei rifugiati.  Il Kuwait ha ospitato ben due conferenze tematiche per la Siria nel Gennaio 2013 e 2014 sotto la supervisione del Segretario Generale dell’Onu, Ban Ki Moon. Nella prima tranche i donatori governativi e le Ong del golfo hanno donato circa 910,3 milioni di dollari; l’appello di gennaio è stato di circa 2,4 miliardi di dollari.  E’ del Febbraio 2013 la notizia che il Qatar ha donato 100 milioni di dollari di aiuto umanitario alla Siria a seguito delle decisioni prese al meeting in Kuwait nel quale i paesi del Golfo hanno stabilito di donare circa 1,5 miliardi di dollari di aiuto in totale. In alcune zone controllate dai “ribelli”, una compagine variegata di formazione sotto cui si nascondono gruppi appoggiati da governi occidentali e battaglioni jihadisti,  non è stata in alcun modo tollerata la presenza di organizzazioni umanitarie, mentre in altre queste hanno giocato un ruolo preponderante, più che nel prendersi cura della popolazione, nel giocare una parte in ruolo nel conflitto. Si parla di “politicizzazione dell’aiuto e dell’accesso” garantito dagli interventi umanitari: l’aiuto umanitario in guerra costituisce un risorsa in campo capace di determinare gli esiti delle battaglie.

Vorremmo soffermarci un attimo sulla Qatar Charity, una ong molto attiva nella gestione dei campi profughi di rifugiati siriani in Giordania e sul territorio siriano. Essa è una Ong fondata nel 1992 che agisce su base locale e popolare con stand presenti in tutti i centri commerciali qatarioti: è la più grande Ong qatariota, legata alle politiche del GCC e conosciuta a livello internazionale; attiva in più di 25 paesi e con uffici ausiliari in Gran Bretagna, Pakistan e Indonesia. In un report che ha analizzato le varie associazioni ufficiali in campo sul territorio siriano è stata inoltre dichiarata l’organizzazione che più ha contribuito all’intervento umanitario in Siria al mondo: a quanto pare avrebbe donato aiuti per circa 30 milioni di dollari dall’inizio del conflitto fino al 2013, molto più di molti paesi europei, tra i quali Francia e Italia. Essa si sarebbe prodigata con compagna quali “Winter the size of their suffering” a tutela di 40,000 rifugiati, o “Syria, Pain and Hope” che ha previsto l’attuazione di dozzine in svariati settori per un totale di 31 milioni di dollari fino al 2014.  Ora è stata appena inaugurata la campagna “Syria: Endless Winter”.  Su internet si trovano molti articoli che testimoniano le gesta di questa organizzazione: esistono video su youtube, mostre e appelli online alle donazioni e alle zakat soprattutto durante il periodo del ramadan (leggi, leggi e leggi).

Purtroppo di queste campagne, a parte sensazionalistiche notizie su vari quotidiani online, non esistono documenti che rappresentano in dettaglio i progetti: l’unico che si trova sul sito è interamente in arabo e dunque è impossibile leggerlo senza una conoscenza approfondita della lingua.  Quello che ci interessa sottolineare, però, non è tanto la storia generale della nascita e dell’operatività di facciata di questa Ong: essa viene presa in considerazione quale esempio di organizzazione del golfo operante in Siria che contiene in sé le peculiarità e le contraddizioni di cui abbiamo parlato finora in merito a intervento dei paesi del golfo e assistenza in territorio siriano, con tutte le implicazioni economiche e politiche del caso. Per cui, oltre a elencare i settori di intervento che spaziano dalle emergenze e i disastri naturali, alla tutela delle comunità musulmane in difficoltà, l’installazione di pannelli solari nei villaggi africani contribuendo alla sostenibilità energetica e alla diffusione di fonti di energia rinnovabile, l’aiuto ai rifugiati, l’incoraggiamento alla ricerca e lo sviluppo di piccola imprenditoria araba giovane, vorremmo soffermarci su alcune accuse.

La Qatar Charity è accusata in molti paesi di finanziare, attraverso gli interventi umanitari e di assistenza allo sviluppo in tutta l’area MENA, il fondamentalismo islamico. Durante un processo il dipartimento di Stato Usa ha citato la suddetta associazione come menzionata da Osama Bin Laden nel 1993 tra le maggiori organizzazioni di finanziamento di al-Qāʿida per le operazioni oltre-oceano: i soldi usati per le operazioni terroristiche venivano registrate sotto la voce “costruzione moschee” e “scuole” e “aiuti alimentari”. E’ stato provato non solo che il direttore della Qatar Charity dell’epoca aveva stretti legami con l’organizzazione terroristica, ma anche che quest’ultima avesse sovvenzionato gruppi armati jihadisti nel Nord del Mali; inoltre, l’intelligence militare francese ha accusato l’associazione nel 2013 di aiutare il gruppo jihadista “Ansar Dine” nel Maghreb.

Venendo alla Siria, in un articolo di Daveed Gartenstein-Ross e Aaron Y. Zelin, è riportato che il Fronte Siriano Islamico, una coalizione di 6 organizzazioni che viene considerata una delle teste di punta della presenza jihadista all’interno dell’opposizione armata al governo di al-Asad, ha beneficiato del finanziamento della Qatar Charity, teoria di cui esistono prove filmate.  Secondo altre fonti questa avrebbe anche finanziato anche la brigata terroristica Afhad al-Rasul Brigade.  Vi sono anche altri testimoni che accuserebbero la suddetta di costruire veri e propri campi di addestramenti in paesi come il Darfur e la Somalia per formazioni jihadiste, tra cui alcune legate anche all’ISIS.  Ma chi è lo sceicco Hamad Bin Nasser Bin Jassim al-Thani, il direttore della Qatar Charity? E’ un membro di uno dei rami della famiglia al-Thani, la casata al potere da moltissimi anni.  La stessa casata dell’allora Primo Ministro Abdullah bin Nasser bin Khalifa al-Thani, il quale è provato finanziasse Hamas e altri: le ambiguità che contraddistinguono la gestione della Qatar Charity dunque non sembrano essere semplicemente il frutto di una volontà personalistica ma di una strategia di governo continuativa nel tempo.

Il Qatar, infatti, continua a venire accusato insieme a Arabia Saudita ed EAU, di foraggiare gruppi di fondamentalistici islamici e jihadisti. Hamad Bin Nasser Bin Jassim al-Thani è anche e consigliere nella Segreteria Generale al Consiglio del Ministri: non solo non è proprio l’ultimo dei funzionari, ma è anche una figura di spicco nel mondo imprenditoriale qatariota visto che si è interfacciato direttamente con il Presidente della federazione Indiano Modi per la creazione di un progetto di Smart City nell’Andhra Pradesh, in un’ottica di sviluppo e di partenariato tra India e Qatar. Egli ricopre ruoli importanti in quanto partner commerciale, advisor e membro dei boards di vari istituzioni imprenditoriali.  Egli risulta dunque fortemente legato sia a interessi governativi, sia a interessi di forti complessi capitalisti collegati a settori di forte espansione non soltanto all’interno del golfo ma più specificatamente del Qatar. Ad esempio non può sfuggire il partenariato della Qatar Charity con Vodafone Qatar nel 2015 in occasione di alcuni progetti umanitari a tutela delle comunità islamiche: si tratta di un connubio di interessi che va al cuore della strutturazione economica del paese qatariota, come dimostrano molti studi effettuati di recente. Il settore delle telecomunicazioni è infatti uno dei settori di punta, insieme alla logistica, ai media, ai trasporti e alle risorse energetiche che stanno diventando la colonna portante della diversificazione alla base della crescita economica di questi paesi.

 

VI. La guerra che cambia l'Europa?

L’Europa, scriveva con innegabile capacità anticipatoria Jean Monnet, primo presidente della Ceca, sarà la risposta alle sue crisi. E’ da questa prospettiva palingenetica che va analizzato il processo d’integrazione europeo, nato dal compromesso tra il pragmatismo confederalista e le ambizioni federaliste, e poi definitosi come polo imperialista autonomo sulla base di successive approssimazioni e veri e propri combattimenti economici e politici fra le diverse frazioni delle borghesie continentali. Ed è sempre in quest’ottica che deve essere interpretato l’impatto che gli attacchi di Parigi dello scorso novembre stanno producendo sull’intera impalcatura dell’Unione Europea. Consapevoli dunque del loro carattere “transitorio” è quindi possibile provare ad indicare alcuni degli elementi di novità con cui saremo chiamati a confrontarci nei prossimi anni.

Il primo, dall’enorme valore anche simbolico oltre che materiale, è la messa in discussione del trattato di Schengen. Con o senza sospensioni ufficiali la libertà di circolazione garantita dal trattato entrato in vigore nel 1995 è di fatto saltata sotto la pressione congiunta della marea inarrestabile di rifugiati in fuga dalle zone di guerra che dal Mediterraneo si è riversata in Europa risalendo la dorsale balcanica, della lotta al terrorismo, degli attentati e della guerra allo Stato Islamico fuori e dentro l’Europa. Esiste un nesso inscindibile tra il mercato unico dei capitali e delle merci a cui aspira la borghesia imperialista europea e la libera circolazione delle persone, ovvero di quella che tra le merci è la più importante, la forza-lavoro. Una connessione talmente forte che all’inizio di dicembre ha portato il presidente della Commissione UE, Jean-Claude Junker a ricordare a tutti, di fronte alla platea dell’europarlamento, che senza Schengen l’euro non può esistere. Del resto, secondo un rapporto della stessa Bce, la mobilità intereuropea della forza-lavoro è aumentata notevolmente dopo l’introduzione della moneta unica ed ha rappresentato un’importante valvola di sfogo di fronte alla “svalutazione interna” (compressione dei salari e disoccupazione) a cui sono state costrette le economie meno competitive dal regime dei cambi fissi.

Un secondo elemento di novità è il ritorno, seppure in forma contraddittoria, della sovranità nazionale. Se, come scriveva Carl Schmitt “Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione”, la decisione di Hollande, all’indomani degli attacchi del 13 novembre, di applicare l’état d’urgence, derogando alla “Convenzione europea dei diritti umani”, è in effetti una decisione di sovranità. Come sottolinea giustamente Paolo Raffone in un recente volume di Limes: un atto di potere sovrano metagiuridico che rischia di avere conseguenze indirette sull’Unione Europea: ristabilire la sovranità nazionale significa farlo anche nei confronti delle strutture sovranazionali, come l’Ue. La guerra al terrorismo e al nemico interno sta quindi costringendo l’Ue ha dismettere quella maschera di “Europa benigna” che pure aveva sedotto certa sinistra e a mostrare il suo volto reale. La deriva securitaria intrapresa dalla Francia finisce con il rappresentare, da questo punto di vista, un vero e proprio paradigma per le altre cancellerie europee. Sulla scorta del Patriot Act varato negli Stati Uniti dopo gli attentati del 11 settembre 2001 François Hollande ha prima ottenuto la proroga fino alla fine del febbraio 2017 dello stato d’emergenza, estendendone l’ambito d’applicazione rispetto alla legge varata durante la guerra di Algeria, e punta ora ad una sua vera e propria istituzionalizzazione per mettersi al riparo dalle accuse di incostituzionalità. Dando così forma a quello stato d’eccezione permanente, con la conseguente militarizzazione dei rapporti politici, a cui facevamo riferimento alcune settimane fa (leggi). A fine dicembre è stata infatti presentata in Consiglio dei ministri la proposta di riforma della Costituzione, che sarà sottoposta al voto dell’Assemblea dal 3 febbraio prossimo e che in seguito passerà al vaglio del Senato. La riforma contiene essenzialmente due proposte: l’introduzione dello stato d’emergenza nella Costituzione, appunto, e l’estensione della possibilità di ritirare la nazionalità francese a tutti i cittadini con un doppio passaporto, anche coloro che sono nati francesi, in caso di condanna definitiva per terrorismo. Una misura, quest’ultima, di assoluta inefficacia pratica e che lo stesso premiere Valls ha definito “simbolica”, ma che rivela drammaticamente quanto si sia spostato a destra il baricentro del dibattito politico francese, dove ormai non rappresenta più un tabù nemmeno evocare pubblicamente la costituzione di campi di prigionia preventivi per sospetti jihadisti. Delle vere e proprie Guantanamo bleu-blanc-rouge in cui internare i cittadini contrassegnati con la cosiddetta “fiche S” (leggi).

Il terzo elemento di riflessione, pur non rappresentando una novità quanto piuttosto una conferma delle contraddizioni europee, è dato dalla mancanza o, meglio, dall’impossibilità di una politica di sicurezza comune dell’Ue collegata agli interessi spesso ancora divergenti delle borghesie europee. Il 16 novembre, tre giorni dopo gli attacchi di Parigi, Hollande aveva sottolineato in un discorso pronunciato davanti al parlamento francese la necessità di dare vita ad “una grande e unica coalizione internazionale” per combattere l’IS. Per cercare di costruirla il presidente francese ha dato vita ad una vera e propria maratona diplomatica incontrando, nel giro di pochi giorni, i più importanti capi di stato e ottenendo però, soprattutto dall’Europa nel suo complesso, tanta solidarietà e commozione, ma di concreto poco o nulla. Così che la “grande coalizione” è stata velocemente derubricata dagli stessi francesi a “grande coordinamento”. L’unico Paese europeo a seguire Parigi nel suo impegno bellico è stata, ancora una volta, la Gran Bretagna, dove è andato in scena l’ennesimo psicodramma della sinistra socialdemocratica. Il Labour Party guidato dal “rosso” Corbyn si è infatti presentato al dibattito parlamentare spaccato come non mai. Ben 66 parlamentari laburisti hanno votato a favore dei bombardamenti disattendendo la linea del loro segretario che, fiutata la situazione, aveva lasciato formalmente libertà di voto. E’ particolarmente significativo, inoltre, che a votare a sostegno dell’intervento militare siano stati anche 11 dei 27 ministri del governo ombra formato dallo stesso Corbyn. Così facendo Cameron è riuscito ad ottenere da Westminster quel consenso che, anche se in un contesto completamente diverso, due anni fa gli era stato rifiutato. Contestualmente Londra ha annunciato un incremento delle spese militari che si stabilizzeranno intorno al 2% del Pil, come richiesto dalla Nato. Illustrando la Defence spending review Cameron ha anche annunciato la costituzione di due nuove brigate da 5mila uomini. Nelle intenzioni dello stato maggiore inglese queste nuove unità di intervento rapido dovranno far fronte alla minaccia esterna e, come esplicitato dallo stesso Cameron, a quella interna: non possiamo più scegliere fra difesa convenzionale contro altri Stati e la minaccia che proviene da entità senza confini nazionali. Oggi siamo di fronte a entrambe e dobbiamo rispondere ad entrambe. Paradossalmente il risultato più importante Hollande l’ha incassato da Putin che in questo modo, oltre a riconquistare una centralità diplomatica, ha messo in crisi l’occidente rispetto al rinnovo delle sanzioni che scadranno il prossimo 31 gennaio, con la Francia che adesso preme per una revoca. Una tesi che entusiasma anche la Farnesiana e Confindustria consapevoli che le sanzioni, unitamente alla crisi economica russa, hanno abbattuto di circa 3 miliardi di euro le commesse italiane per il 2015. Di avviso piuttosto diverso è invece Washington per i quali, come riporta il Financial Times, “sarebbe un errore imperdonabile accettare ogni scambio fra Siria ed Ucraina” e che le ragioni per un eventuale allentamento delle sanzioni non solo collegate a quanto accadrà sui cieli di Raqqa.

L’ultimo aspetto su cui vale la pena soffermarsi, fosse anche soltanto per una nota di “colore”, riguarda il fiscal compact, il totem di fronte a cui, in nome dell’austerità, sono state sacrificate tutte le politiche di welfare. Un dogma che, come ha dimostrato la Grecia, a detta della troika non era possibile violare nemmeno di fronte a vere e proprie emergenze sociali e che invece è stato prontamente accantonato per le spese militari. Segno forse che è al Dio della guerra, e solo a lui, che ancora guardano le classi dominanti per far ripartire un nuovo ciclo di accumulazione.

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