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mondocane

Il mio Iraq. E quello degli altri

16/1/2016, 25 anni dall'inizio dell'olocausto

di Fulvio Grimaldi

Quando racconto la verità, non è tanto per convincere coloro che non la conoscono, quanto per difendere quelli che la sanno”. (William Blake)

E finchè facevano guerre, il loro potere veniva preservato, ma quando ottennero l’impero, caddero. Perché dell’arte della pace non sapevano niente e non si erano mai dedicati a nulla che fosse meglio della guerra”. (Aristotele. Gli Usa, dalla nascita, hanno fatto in media una guerra all’anno).

prigionieriUna partita con tre campi da gioco

In tutte le guerre, rivoluzioni, aggressioni che ho vissuto e ho provato a raccontare, si configuravano sempre tre schieramenti. Il primo stava sul campo “Realtà” ed era costituito dal popolo sotto attacco e dai suoi amici in giro per il mondo; il secondo stava sul lato opposto, in un campo chiamato “Menzogna” ed erano le armate e le parole di soldati, politici, banchieri, industriali colonizzatori. In mezzo, con una gamba di qua e una di là, in un campetto di nome “Né-Né”, ciondolavano gli Astenuti. Ho sempre pensato che, per primi, dovevano essere tolti di mezzo questi qua. Confondevano sia la vista, sia i suoni  dello scontro, che quelli della “Realtà” si sforzavano di percepire. Spargevano, anche all’occhio di chi guardava dalla finestra, una nebbiolina che offuscava i contorni. Per me combattere quelli del campo “Menzogna” significa far piazza puilita degli “Astenuti”. Dopo, si sarebbero potuti affrontare i nemici, meglio identificati grazie alla scomparsa dei mistificatori. Con gli Astenuti, va detto, gli irreali non se la sono mai presa.

Sono parecchi i luoghi dove ho visto questi soggetti manifestarsi, sempre nella formazione appena descritta: Palestina 1967, Irlanda 1969-1990, Jugoslavia 1999-2001, Iraq 1977-2003, Venezuela, Argentina, Bolivia, Ecuador 2002-2006, Cuba 1995-2005, Libano 1997-2006, Libia 2011, Siria dal 2012. Non mi sono mai potuto privare della scoperta di trovare, in tutti questi campi, immancabilmente gli Astenuti o “Né-Né”. In Palestina, pur biasimando il regime sionista, predicano la nonviolenza a coloro cui andavano sfasciando la testa le SS sioniste e arrivano a dare del “terrorista” a quelli a cui orde di robocop trovano (o mettono) un coltello addosso. Pur alzando il ciglio sull’occupazione  britannico-fascista dell’Irlanda del Nord, rampognavano la risposta dei repubblicani, troppo dura, e ne festeggiarono la resa, come trionfo della pace, con l’Accordo del Venerdì Santo (1998). In Palestina il “diritto dello Stato di Israele di esistere” si confonde con i pat-pat sulle spalle degli espropriati e genocidati. Fino a inebriarsi della truffa di Oslo e dei “Due Stati”.e caldeggiare marcette pacifiste di 10 palestinesi e 4 israeliani.

Con la Jugoslavia, l’epistemologia sulla natura di cosa andava succedendo e chi erano gli attori in scena ha visto la prima manifestazione della sindrome schizofrenica che colpisce gli Astenuti. Nato cattiva, ma Milosevic dittatore. Dunque, eticamente, né-né. Tra chi bombardava televisioni, ospedali, case, ponti, treni, scuole, fabbriche petrolchimiche, per ridurre in frantumi e contaminare un paese e chi questo trattamento lo subiva, fiorì rigoglioso il né-né. Né con la Nato, né con Milosevic. Ma in fondo, un po’ meno di meno, con quei ipernazionalisti del dittatore serbo.E così, succhiando linfa dall’informazione totalitaria e oligarchica, lastricavano di buone intenzioni la strada per l’inferno.

Con una coerenza invidiata da tutti noi, in Libia si incupirono più degli inesistenti “bombardamenti di Gheddafi sulla propria gente” degli spavaldamente esistenti missili a pioggia. E rivestirono di panni sgargianti di arcobaleno iinvasati terroristi che decollavano e scuoiavano civili e prigionieri. Spettacolino ripetuto per Iraq e Siria. Su un popolo cui per 25 anni hanno riservato un destino mostruoso, paragonabile a quello palestinese solo perché questo dura da settant’anni, hanno fatto pendere, e continuano a farlo, la spada di Damocle del dittatore Saddam. Ha sterminato 200mila curdi (sono ancora tutti lì e si mangiano pezzi di Iraq su mandato USraeliano), divorato il Kuweit (provincia irachena rescissa dai britannici), represso il suo popolo, sterminato 5000 comunisti (mai successo). E in fondo, ignominia!, anche amico degli Americani che lo hanno armato (mai amico, mai armato, se non dall’URSS). Così ha potuto essere tranquillamente preso a calci e appeso.

Oggi si esercitano con passione sulla Siria dove, con un copia-incolla dal Pentagono, trascrivono e diffondono  l’anatema contro “i governi che fanno la guerra ai propri popoli” (si sa quali) e l’auspicio, con un’ occhiata al “dittatore Assad”, “per la pace e la democrazia in ogni paese” (dove si sa cos’è questa democrazia e chi la esporta). Ma ovviamente, pur condividendone la ragioni, sono contro le guerre Nato. Né-né. Un messaggio che fa facile presa su gente che non vuole problemi..

Il 12 maggio del 1977, mio genetliaco,  un candelotto centrò il mio ginocchio. Mi inseguirono e fotografarono. Era la manifestazione pro-divorzio nella quale, anche sotto i miei di occhi, a Ponte Garibaldi di Roma, i “Falchi” omicidi di Cossiga ammazzarono Giorgiana Masi. La notte e il giorno dopo, rastrellamenti. Ne avevo viste e subite abbastanza per togliere il disturbo. Il compagno medico, Giorgio Alpi, papà della mia collega Ilaria, mi fece avere un certificato medico per il lavoro. Arrivai nello Yemen. Fu nell’estate di quell’anno che, dallo Yemen, il mio settimanale, “The Middle East”, mi spedì in missione a Baghdad.

 

Guerra e genocidio strisciante

Una metropoli enorme, accogliente come sempre gli arabi, rutilante di luci, straripante di vita, soprattutto giovanile, con attorno alla vita la scintillante cintura del Tigri. Percorsa in un fremito ininterrotto da popolazione, cantieri, trasporti, torme di studenti, ragazze in minigonna, formicolante di iniziative culturali nei mille e mille centri d’arte, letteratura, archeologia, di elaborazione politica, che erano sorti, accanto alle istituzioni statali e del Partito Baath, per iniziativa delle organizzazioni di massa, delle donne, degli studenti, dei lavoratori, dei poeti, degli anziani. Il primo contatto fu con il direttore del quotidiano Ath Tawra (“La Rivoluzione”), Nassif Awad, già braccio destro del poi ministro degli esteri Tariq Aziz, un palestinese con alle spalle la militanza nella resistenza del suo popolo. La nostra amicizia attraversò la gloriosa fase della costruzione di una nazione, la prima aggressione del 1991, la sbalorditiva ricostruzione in pochissimi anni, a dispetto delle tremende  privazioni dell’embargo, la forza e dignità di un popolo tuttavia in piedi, a dispetto delle bombe di Clinton e dell’assedio per fame. Fino all’ultimo incontro, a cena a casa sua, il 30 marzo 2003, con gli americani alle porte. Diventai il corrispondente da Roma di quel quotidiano e poi anche di “Baghdad Observer”, in lingua inglese, diretto da Naji al Hadithy, brillantissimo operatore culturale a Londra, dove l’élite intellettuale inglese frequentava il suo “Centro Culturale Iracheno” e, poi, ministro degli Esteri, con Saddam sino alla fine.

Sovrastata dalle immagini di rovina, disperazione, sgretolamento, di oggi, la memoria fa fatica a ricostruire ciò che erano la Baghdad e l’Iraq di allora. Un paese impegnato ad attenuare la centralità dell’Islam e ricostruire le fondamenta storiche della nazione, riappropriandosi laicamente di tradizioni e patrimoni millenari, sumeri, assiri, babilonesi, quelli della civiltà che ha partorito tutti noi. Quelli che i dominatori, bizantini, ottomani, britannici, avevano cercato di espellere dall’immaginario collettivo, dallo stesso DNA del popolo. Erano pratici di sradicamento della memoria e quindi dell’identità di genti da dominare. Quanto lo sono oggi i loro mercenari che polverizzano Palmira, Niniveh, Hatra, Assur, Nimrud, Ctesifonte… i predatori preferivano affidare la gestione della mente collettiva ai preti, tanto più che la religione con le sue varie confessioni, più della laicità e magari di un progetto socialista, apriva la possibilità all’irrinunciabile “divide et impera”.

Percorsi l’Iraq in anni vari da cima a fondo, dalle paludi intorno a Bassora sul Golfo  alle montagne del Kurdistan, al confine con un Iran dove già rumoreggiava la rivoluzione khomeinista (e quella dello scontro tra due validi e integri antimperialismi è stata la tragedia fondante della catastrofe, sollecitata da un Kissinger che sentenziò: “Si devono dissanguare a vicenda”  e oggi allargatasi allo scontro, una volta di più concepito e fomentato dai revenants colonialisti, tra sciti e sunniti in tutta la regione). Mohammed Ghani, sommo pittore, mi fa da guida attraverso una nuova  creatività artistica irachena, consapevole della modernità, simile a quella dei futuristi sovietici per slancio vitale e tematiche legate al riscatto del popolo.

 

Sanzioni per sfoltire in vista della soluzione finale

Nel docufilm “Genocidio nell’Eden” ho cercato di offrire spunti di conoscenza di un Iraq, pesantemente colpito dalla Guerra del Golfo, 1991, “Tempesta del Deserto” e poi dalle sanzioni più feroci mai inflitte. Un Iraq coperto di piaghe, ma non domo e che ancora emanava la luce degli anni della rinascita, quella iniziata dopo l’indipendenza del 1956, sotto una successione di presidenti laici e nazionalisti  e rilanciata dalla rivoluzione del Baath del 1968, con Ahmed Al Bakr e Saddam Hussein (che diventa presidente nel 1978). Ci tornai poco dopo la fine dell’assalto di Bush padre. Saddam si era ripreso il Kuweit, già 19esima provincia dell’Iraq, sceiccato con classica operazione colonialista staccato dal corpo iracheno e messo in mano a un satrapo vassallo. Si trattava, per gli inglesi, di conservare, dopo la nazionalizzazione del petrolio iracheno, l’area dei giacimenti più ricchi. Washington finse chissenefrega, pregustando il pretesto per l’inizio dell’olocausto.

Con l’Italia dei galantuomini Andreotti e Amato, costituzionalisti rispettosi dell’articolo 11, ma più di Washington, scattò sull’attenti e si impegnò. Al crimine si aggiunse il ridicolo: due piloti abbattuti alla prima sortita, ma riconsegnatici da un nemico che ai crimini risponde con la correttezza.Trenta paesi all’attacco di uno, bombardamenti equivalenti a 6 bombe atomiche, 400 tonnellate di uranio-plutonio a minare milioni fino alla fine del mondo. Centomila soldati in ritirata inceneriti con le bombe a ossigeno. Altre decine di migliaia sepolti nelle loro trincee da tank usati come Bulldozer. Ma Bush viene fermato davanti a Baghdad. Ci voleva qualcosa di più forte del Kuweit invaso. Magari un 11 settembre.

La coalizione internazionale, formata da Washington, inviava nel Golfo una forza di 750 mila uomini, di cui il 70 per cento statunitensi. Per 43 giorni, l’aviazione statunitense e alleata effettuava, con 2800 aerei, oltre 110 mila sortite, sganciando 250 mila bombe, tra cui quelle a grappolo che rilasciavano oltre 10 milioni di submunizioni. Partecipavano ai bombardamenti, insieme a quelle statunitensi, forze aeree e navali britanniche, francesi, italiane, greche, spagnole, portoghesi, belghe, olandesi, danesi, norvegesi e canadesi. Il 23 febbraio le truppe della coalizione, comprendenti oltre mezzo milione di soldati, lanciavano l’offensiva terrestre. Essa terminava il 28 febbraio con un «cessate-il-fuoco temporaneo» proclamato dal presidente Bush.

Seguono 12 anni di embargo mortale, punteggiato dai continui bombardamenti di Clinton su centrali elettriche, depositi di viveri e farmaci, ospedali, scuole, centri abitati, fabbriche, palmizi (base alimentare degli iracheni), porti e aeroporti, ferrovie. Il tutto per far avanzare il genocidio strisciante, attraverso la distruzione di presidi e mezzi sanitari ed alimentari, di impianti di purificazione dell’acqua, innescato dall’uranio. Tra quella guerra e il 2000, tornai tre o quattro volte. Una con Ramsey Clark, ex-ministro della Giustizia e poi militante antimperialista e il suo gruppo “International Action Centre”  ad approfondire e denunciare al mondo la Shoa irachena da embargo. Intervistai Tariq Aziz, colto e onesto cristiano, il vicepresidente Izzat Ibrahim, poi leader della Resistenza contro l’occupazione, Taha Yassin Ramadan, altro vice, insegnanti e alunni in scuole in disfacimento, medici eroici, privi di tutto, perfino anestetici, che si battevano in ospedali dilapidati contro tassi di incremento delle patologie fino al 50%: cancro, polmoni, tiroide, fegato, sistema immunitario tutto. E le madri in ospedale, immobili, con gli occhi fissi su neonati deformi.

Ci tornai anche con quelli di “Un Ponte per Baghdad”, prosperati sui viaggi organizzati in Iraq, fornitori di qualche cartone di farmaci e di materiale scolastico. Tutto sommato bravi, solidali, senza riserve manifestate. Fino a quando il governo cadde e l’Iraq iniziò a morire. Dopo prevalse la vulgata del Saddam dittatore, dell’occupazione auspicabilmente portatrice di democrazia, fino ai né-né di oggi, con il suo capo storico, Alberti, a fianco dei “ribelli” siriani. Un’altra volta venimmo a fare capodanno. Già imperversava la fandonia delle armi di distruzione di massa, delle stragi di Saddam, con ispettori, guidati da spie, che rovesciavano ogni granello di sabbia per una finta ricerca di ADM, ma per un effettivo studio della preparazione militare del paese. Già rombavano suoni di guerra. Ci ponemmo, alcune decine di anti-guerra da tutto il mondo, come scudi umani, con tanto di striscioni e pettorine, davanti alle istituzioni, alle centrali, sui ponti, nelle assemblee, nelle chiese e moschee. Non avremmo fermato le bombe. Non ci avranno percepito i ciechi, sordi e muti dall’altra parte del mare. Ma so per certo che agli iracheni ha fatto piacere. Tutti quanti, nel dolore e nella rabbia, ci siamo sentiti un po’ più caldo al cuore.

 

Armageddon sulla via di Baghdad

Naturalmente né noi, cui sarebbe bastato accendere un cerino nel cervello del mondo, né gli iracheni,  vivi ma mutilati, fermammo gli staticidi e antropofagi. Non ho mai capito perché cronache e storici fanno iniziare l’attacco all’Iraq il 20 marzo 2003. Annusata la miccia, ormai accesa, insieme a tanti altri colleghi,  nonostante Baghdad avesse annunciato il ritiro dal Kuweit e fartto rientrare gli ispettori, volai ad Amman il 16 del mese. Lì rintracciai uno dei vecchi taxisti che conoscevo da precedenti viaggi, e all’imbrunire partimmo. Quattro falafel in una bettola al confine e, poi, il semideserto fino alla capitale. Khaled aveva già fatto in giornata un’andata-ritorno per complessivamente 2000 chilometri. Ogni tanto si appisolava. Una volta finimmo contro un palo della luce e, un’altra, scattò su come una molla: c’erano stati due sibili sopra le nostre teste e due esplosioni più in là. Quando 2km dopo, passammo davanti all’unico ristoro in tutto il tragitto, ci trovammo una voragine, macerie e fumo. Era la notte dal 16 al 17 marzo e la guerra era iniziata. Almeno lì. Ho  fantasticato su un collegamento tra i missili sulla massima strada di comunicazione tra l’Iraq e l’estero e l’ordine che Bush aveva impartito ai giornalisti di non andare nella capitale dello Stato Canaglia, ma di seguire le truppe alleate in avanzata. Di fare gli embedded, a letto con i militari. Avrei avuto una conferma.

Era un’alba scintillante di sole e cielo limpido, quando arrivammo a Baghdad, la capitale del califfo delle Mille e Una Notte, Harun el Sharid e, oggi, quella del capofila, dopo la morte di Nasser, del riscatto nazionale e sociale arabo.Definito “dittatore” sulla base del più gretto eurocentrismo e senza conoscenza e rispetto per il contesto storico e culturale, dopo un millennio di domini assoluti stranieri e la decomposizione dei popoli in tribù.  Massimo sostenitore della Palestina, massimo baluardo antimperialista, paese più progredito del cosiddetto Terzo Mondo. Quel cielo era ferito da colonne di fumo che poi si allargavano a enormi capitelli e, ai lati della strada, fosse fumanti, fiamme, cose annerite, cose squarciate: carretti, automobili, un bus, corpi, un ponte da circumnavigare perché fatto a pezzi.

Verso il centro, tra altre rovine ancora roventi, ambulanze, polizia, posti di blocco, il solito traffico frenetico, le solite bancarelle nei mercati, negozi aperti, gente ai bar. E la sera, in Piazza Paradiso, davanti all’Hotel Palestine, quartier generale della stampa estera, tra fontane zampillanti e sotto la statuta del Rais, le stesse famiglie di sempre con i bambini razzolanti e strepitanti, le stesse coppiette, i ragazzi ilari che da noi stanno sui muretti. Nassif, mi aveva trovato un albergo, il Mansur, meno zeppo di giornalisti, ma vicino al Ministero dell’Informazione. Era passato a ministro per i profughi palestinesi (aveste visto la meraviglia del loro quartiere, i campi di calcio, le botteghe, i palazzi nuovissimi, su vie larghe e ordinate, il calcetto sul marciapiede, le scuole! Mi sono venuti in mente i formicai di Sabra e Shatila).

L’idea era di agevolarmi nei contatti con quel ministero, dove si sarebbero tenute le conferenze di stampa e i briefing. Ma si sottovalutava un altro elemento. A Belgrado avevo visto polverizzare la televisione e il Ministero dell’informazione con 17 giornalisti e tecnici dentro. Così sarebbe successo per prima cosa a Tripoli e Damasco. Azzerare la voce dell’altro materialmente, dopo averla degradata verbalmente a propaganda di regime, falsa e bugiarda. Quella che dai nostri regimi si dice sia bandita nel nome della democrazia… Infatti, fin dalla prima notte mirarono all’unico nemico che gli avrebbe potuto nuocere, quello dell’informazione altra e, mentre, dal balcone della mia stanza, filmavo roghi e deflagrazioni micidiali, con accanto due film-maker giapponesi che, eccitatissimi, correvano da una finestra all’altra., il pavimento pareva sussultare e venirci meno e i vetri ci scheggiavano addosso. Sparuti ospiti e tanto personale si erano tuffati nei rifugi sotterranei e noi potevamno sfidare impunemente il divieto di fotografare in zona governativa.

La mattina dopo, la cinquantina di giornalisti stranieri che, pur minacciati, avevano sostituito le migliaia di attesi e prenotati, si riuniva al ministero, scendendo da una terrazza su cui si erano installati, anche loro per comodità, tutte le televisioni presenti. Una mattina, tra le tende di una tempesta di sabbia che faceva tutto rosso, intravvidi la terrazza ridotta dai missili al classico negozio di vetri in cui s’è scatenato un elefante. La stampa straniera aveva fatto male ad andare a Baghdad. Poche ore prima avevo visto Giovanna Botteri, già mia collega al Tg3, fare da lì una diretta. La ragazza, tra Kosovo e Iraq, s’è guadagnata, con soddisfazione di Washington, la corrispondenza Rai da New York, la più ambita.

Peter Arnett, il mitico corrispondente dal Vietnam, poi dal 1981 nella CNN , licenziato per aver rivelato l’uso statunitense di gas nervino in Vietnam, già protagonista dell’informazione dall’ Iraq nella Guerra del Golfo e ora con la NBC, viene licenziato su due piedi al terzo giorno di apocalissi bombarole, per aver fornito una versione dei fatti non compatibile con le esigenze dei controllori del Pentagono installatisi nelle redazioni Usa. Eppure il nostro ufficiale dei briefing, Mohamed Al Salafi, era un impetuoso e articolatissimo tenore del controcanto alle voci del padrone. In Occidente lo definivano “Il pazzariello”, per screditarne le versioni così divergenti da quelle degli embedded. Venne provato corretto in varie occasioni, come quando gli alleati vantavano la presa di Najaf ed erano ancora impantanati a Bassora.

L’armata di Saddam era di un coraggio incredibile. Nella sua abissale inferiorità, non si era lasciata spazzare via se non dopo una ventina di giorni su cui fecero cadere un cielo di uranio e per esseri poi trasformata in guerriglia per anni. Ma le sue dotazioni erano sbrindellate e obsolete: vecchi armamenti sovietici di prima di Yeltsin. Delle volenterose milizie popolari neanche a parlarne. Eppure, per dare a Saddam la patente di doppiogiochista, ancora si favoleggia di armi, anche chimiche, fornite dagli Usa quando Saddam era “amico”. Mai successo, mai stato.

 

Kill, kill, kill

Dopo il bollettino di guerra e l’enumerazione dei danni  e delle vittime da bombardamento, i nostri colleghi iracheni ci portavano in pullmino attraverso la città a vedere le distruzioni. E le persone che ne venivano tratte. Erano strade lunghe e diritte come quasi tutte quelle della Baghdad moderna e ne veniva una visione, lungo i lati, di un serpente di rovine senza fine. Mi tornarono in mente Dresda o Berlino churchillizzate vissute da bambino. Mentre dai finestrini ci ferivano gli occhi queste teorie di edifici sminuzzati, Lorenzo Cremonesi, inviato del Corriere della Sera tuttora attivo da quelle parti, s’infervorava nel racconto, non so quanto romanzo popolare, dell’incontro notturno con la cameriera, “quella con le tette”. Scendevamo tra le persone che vedevamo formicolare sulle colline di macerie, a spostare sassi con le mani, tra tegole, quaderni, libri, pentole, maglioncini di bambini che punteggiavamno di colori un tutto grigio. Un ragazzo del Soccorso Popolare ci spiega: “Qui viveva una famiglia  di sette persone, quattro bambini. Sono ancora lì sotto. Perché ci fanno questo? Perché vogliono abbattere il nostro presidente? E’ il nostro presidente e lo amiamo. Che c’entrano loro?” Stupore, attonimento, più che sgomento.

Il 9 aprile gli alleati entrarono in città. Contemporaneamente Saddam veniva festeggiato dalla folla in quella che fu la sua ultima epifania da presidente.Quel giorno m’ero trasferito tra i colleghi al Palestine, forse per non farmi trovare dagli invasori, isolato, al Mansur con due sorridenti giappones. Tutti alle finestre e balconcini a vedere e filmare la prima colonna di carri armati Usa sferragliare verso di noi. In piena paranoia sparavano a tutto, palme comprese. Poi partirono due cannonate in immediata successione e il Palestine si aprì come una noce. Era arrivata la vendetta di Bush sui giornalisti disobbedienti. Morirono, credo, in sette. José Cuso, un collega spagnolo. Suo fratello gira il mondo da allora per trovare un magistrato che incrimini gli assassini. Lo  incontrai a Caracas con Chavez. E fu ucciso Khaled Ayub, di un Al Jazaeera non ancora voce del padrone. Ogni giorno celebravamo la nostra amicizia al banchetto del thè, sotto il ministero. Aveva un sacco di piccoli figli e non era un rettile, come tanti attorno a noi. Nei primi mesi di giornalisti ne furono tolti di mezzo 20. Nella guerra contro la resistenza, fino al 2007, altre decine ci rimisero la pelle. Quasi tutti erano disturbatori della quiete pubblica.

 

Arrivano diritti umani e democrazia

La battaglia finale, con gli iracheni al comando diretto di Saddam, furibonda e lunghissima e in cui gli americani rovesciarono sul nemico quanto di più spaventoso avevano, fu quella dell’aeroporto. Mi privai del raccapriccio di assistere alla devastazione simil-Isis dei tesori culturali e storici della Mesopotamia decidendo di andarmene dopo quella battaglia. Forse qualcuno degli invasori aveva avuto sentore di questo giornalista che da trent’anni rompeva. Magari, come è successo a parecchi colleghi “fuori linea”, compresa Giuliana Sgrena, avevano già inaugurato il metodo del rapimento da parte di finti combattenti della Resistenza. La sorte che, da Norimberga in poi, anzi, dai nativi americani in qua, si riserva  al vinto è sempre stata la violazione morale e la distruzione fisica. Un processo nel quale gli avvocati di Saddam finirono uccisi o banditi uno dopo l’altro e che divenne, con Saddam, un’imbarazzante tribuna della verità sull’Iraq e sui crimini dell’imperialismo. Vittoria morale da diluire nei trattamenti sprezzanti, nella scoperta di surreali nefandezze, nell’offesa alla persona (il presidente della Corte, selezionato dagli Usa, che inveiva come un forsennato contro l’imputato. Né Saddam, né il suo vice Ramadan, né Tariq Aziz (fatto estinguere in un lager e poi in prigione), nè altri dei dirigenti elencati nel mazzo di carte Usa, tutti con la taglia alla Western sulla testa e la sentenza certa, ebbero cedimenti. Al di là di cosa fossero stati, qui sono stati uomini di fronte a ratti.

In uno degli ultimi taxi che poterono uscire dalla città prima di coprifuochi e rastrellamenti vari, attraversavo una città come costellata di fuochi fatui, roghi che si spegnevano tra case diroccate. E’ stata davvero dura partire e non solo per quello che scorreva lungo i finestrini. Dietro, a sprofondare negli abissi  della morte, o di una non-vita, del non esserci più in quanto arto della comunità umana e, comunque, ucciso dall’indifferenza là fuori, lasciavo amici di una vita e tanti momenti alati. La tavolata di pesce di fiume della grande famiglia irachena lungo un Tigri che ci rimandava scintillante la luce dei lampioni, il comune sentire che sprigionavano le chiacchiere. Due medici,  Ryad Mustafa e Ryad Ryad, che, alla distruzione del loro ospedale (12 bombardati nei soli 20 giorni di guerra) avevano risposto aprendo con le mogli due ambulatori di quartiere, per sopperire, per quanto si potesse, in presenza di embargo su farmaci e strumenti. Gratis. La moglie di Mustafa, Suad, specializzata in Inghilterra, che promette di usare il coltello da cucina contro l’invasore e insiste: “Se qualcosa non va nel nostro paese, siamo noi a doverlo affrontare. Nessun altro”.

Il dottor Riad che mi invita a quella che sarà la mia ultima cena, a casa sua. Fuori, il  bombardamento ha le frequenze di un rock metallaro. Intorno all’humus, al montone, allo yoghurt con aglio e prezzemolo, ai datteri (avevano tirato fuori il meglio dal poco di provviste rimaste), c’è la famiglia di due genitori e tre figli, uno maschio sui diciott’anni. Riprendo la scena. Passo dal ragazzo che ha in braccio il Kalachnikov e promette di usarlo contro l’invasore, alla sorella, ultima classe del liceo, cui chiedo se ha paura: “Paura? No, mai!” Sono poi le due sorelle e una loro amica che in macchina, dribblando macerie e roghi come fossero fuochi d’artificio e scherzando e ridendo come si fa nell’adolescenza, mi riportano in albergo. In Iraq ci ho lasciato un bel po' di me, a compenso delle tante cazzate fatte negli anni.

 

Con la morte nel cuore

La strada più lunga e ardua della mia vita è stata quella lungo i corridoi e i reparti degli ospedali iracheni. Resa interminabile e angosciante da personcine come Abbas Ali, bimbetto di 4 anni ustionato dalla fronte all’alluce come fosse carne macinata e che avevo incontrato in un asilo per bambini disabili. O come l’anziano professore tutto bendato, ma che dalle bende faceva uscire le dita a V. E i famigliari, appesi a quel nodo scorsoio della speranza, muti.

Ricordo il lustrascarpe di 12 anni, zoppo di una gamba, con la cassetta delle spazzole sulla spalla, bellissimo e sempre ridente, che dopo l’ennesimo iradiddio di bombe, mi passa accanto tutto impolverato, tenendo per cinquanta metri alta la mano con le dita a V: E ricordo una bambina di straordinaria forza espressiva   che, di sera nel quartiere popolare, vedo passare e riflettersi nella bottega dell’amico barbiere prodigo di frottole, del macellaio dalle battute a raffica. Ha il velo nero sulle spalle, nota la mia telecamera, si illumina di sorrisi e, senza mollare i miei occhi, va via. Poi si tira sul capo il velo. L’obiettivo la insegue di spalle, una figurina tutta nera, fino a  che si dissolve nel buio. Un’icona dell’Iraq.

Tutto questo l’ho fissato nella mia memoria e in quella di chi vorrà riviverlo, nel docufilm “Un deserto chiamato Pace”. Correndo via dalla grande città, rigogliosa, un tempo, di mille fioriture e impegnata a coglierle da passato, presente e futuro, ora con gli occhi  delle case sfondate sbarrati sul nulla, ci siamo affiancati a un pullmino. Ci siamo fatti segno per prendere il thè insieme al primo botteghino lungo la strada. Erano funzionari del Ministero per la Palestina. Con Baghdad in fiamme alle nostre spalle, le istituzioni disintegrate, con gli americani  padroni della città, avevano fatto in tempo a ripartire per il settimanale viaggio per la Palestina a portare gli ultimi 20mila dollari alla famiglia dell’ultimo martire palestinese. Questo era il mio Iraq. Poi è venuto quello degli altri.

Noi ridicoli scudi umani con pettorina e penna, dovemmo lasciare la culla della civiltà tornata in vita alla mercè della barbarie. Ma almeno ci avevamo provato. Era invece un mondo intero, invasato di razzismo, protervia occidentocentrica, particolarmente ottuso  nelle sue microespressioni trotzkiste ed emme-elle, che abbandonava, tradiva, chi si andava sacrificando in difesa di tutti noi. Pugnalata alle spalle poi ripetuta su Libia, Siria, Afghanistan, Venezuela. I predatori Usa, impiegando una manodopera importata, saccheggiarono due tra i massimi patrimoni storici e culturali del mondo, la Biblioteca Nazionale e il Museo Nazionale. Oggi si sono ripetuti attraverso loro surrogati a Nimrud, Palmira, Hatra: cancellare quanto popoli hanno creato dandosi un nome, una coscienza di sé, un’identità, un ruolo nell’evoluzione umana. E mercificare a proprio profitto i reperti.

E vennero gli abusi sui prigionieri, gli stupri delle donne (vedi il film di Brian De Palma), sequestri, stragi, esecuzioni, torture,  vuoi eseguiti in proprio, vuoi affidati a terroristi reclutati per innescare lo scontro confessionale. E chi dei rapimenti rischiava di aver scoperto la vera matrice, come sono certo sia capitato a Nicola Calipari, finiva male. L’Isis, con l’altra denominazione di unità del “Risveglio”, l’inventò il criminale di guerra Petraeus, che ha poi messo a frutto la sua  esperienza di “False Flag” da direttore della Cia, ditta di eccellenza per tali operazioni. Vennero Guantanamo, riempita di innocenti rastrellati a caso, l’orrore di Abu Ghraib, punta di un iceberg che racchiudeva le nefandezze senza limiti di uno Stato criminale come non lo si era visto dall’inizio della vicenda umana, capace di far strage dei propri cittadini, di rapire, far sparire, torturare, assassinare extra giudizialmente. Una cricca transnazionale, più che uno Stato, pratico di golpe e sanguinose rivoluzioni colorate per regime change a suo arbitrio, genocida mediante l’arma della fame, dell’avvelenamento di acqua, terra, aria, cibo, mendace in ogni sua espressione, profondamente e peggiorativamente nazifascista sotto il velo narcotico di una democrazia grottescamente finta.  

Con l’Iraq, nel 1991, l’inferno, evocato da una minuscola conventicola di subumani insediatisi ai vertici del mondo con la religione dell’inganno e della soperchieria, ha iniziato a uscire dall’oscurità in cui lo aveva relegato la millenaria fatica umana per la vittoria della ragione, fin da Hammurabi e Nabuccodonosor. Un inferno che minaccia di rovesciarsi su tutta la Terra. Da Occidente avanza implacabile un’ombra nera che oscura il cielo e divora genti, nazioni, terre. Dopo aver sprofondato nel sangue e nel buio la Jugoslaia, l’ombra si è andata estendendo, spargendo narcosi e morte. A morire sono quelli laggiù, narcolettici siamo noi.

Ma a Ramadi, capitale della più grande provincia irachena, i miracolosamente risorti iracheni uniti, esercito e forze popolari, sunniti e sciti, hanno vinto sull’Isis e sugli Usa che li sostengono. E la Tikrit di Saddam è libera. Si va verso le provincie di Sulemanieh e Dyala, verso Kirkuk e Mosul. E gli amici russi prendono il nemico alle spalle in Siria. Forse lo smembramento deciso per il corpo dell’Iraq, sulla scia di quello che la Cristianità praticava lasciando squartare dai cavalli i reprobi, non avverrà. Forse l’Iraq vivrà.

Ma se qualcuno mi viene ancora a dire né con la Nato, né con Assad, o Saddam, o Milosevic, o Gheddafi, o Putin, metto mano alla pistola

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