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sinistra

Vecchi imperialismi e moderni Don Chiscotte. Un’ultima replica a Pagliarone

di Guglielmo Carchedi

schiele123Quanto segue è un una mia ultima risposta Pagliarone. Invece di scrivere un pezzo a se stante, mi sono limitato a fare commenti a piè di pagina al testo di Pagliarone. Il suo testo è in nero, i miei commenti in rosso.

***

... Carchedi definisce l’imperialismo come “appropriazione, anche con la forza ma non solo, di plusvalore internazionale”. Cosa significhi lo sa solo lui. Secondo gli esempi che fa (petrolio e bilancia commerciale in deficit) sembrerebbe che teorizzi l’imperialismo come appropriazione ossia l’aggressione (militare ed economica) per rapinare materie prime o chissà che altro). Innanzitutto vorrei ricordare a Carchedi che nell’opuscolo “Imperialismo fase suprema del capitalismo” Lenin riprende le tesi di Bucharin e di Hilferding per diffonderle alle masse. In esso si fa riferimento all’espansione del capitale nei paesi arretrati per la realizzazione di plusvalore grazie al lavoro e a materie prime a basso costo. Non si tratta di appropriazione pura e semplice ma di classici investimenti di capitale. [Ma io dico che alcuni elementi della teoria di Lenin sono ancora validi (per esempio l’appropriazione di petrolio) mentre altri sono nuovi (la bilancia commerciale USA perennemente in deficit)]. Naturalmente a quel tempo la guerra mondiale rappresentava lo strumento per poter realizzare l’obiettivo della conquista di aree di egemonia. Purtroppo l’epoca delle guerre mondiali preconizzata da Lenin si è rivelata erronea. Dopo il Secondo Conflitto mondiale (in realtà prosecuzione del Primo) non abbiamo mai più visto, e grazie al cielo non subiremo mai più, una devastazione del genere a meno che Carchedi non voglia paragonare le “guerre” che sono seguite al conflitto planetario terminato nel 1945 ad un conflitto imperialistico, allora saremmo veramente alla frutta.

Ma Carchedi ci fornisce una sua definizione: “Allora che cos'è l'imperialismo?  Se ci limitiamo all'aspetto economico, che è poi quello determinante, l'imperialismo è la concorrenza capitalista portata a livello internazionale.

Il suo scopo è l'appropriazione da parte dei capitalisti della nazione imperialista della ricchezza e del valore dai capitalisti delle nazioni dominate”. Quindi per Carchedi Imperialismo e concorrenza capitalista sono associati, ma che genere di concorrenza si intende? E’ concorrenza tra nazioni o tra settori produttivi? Come si fa a coniugare concorrenza con imperialismo? Carchedi confonde assieme concorrenza e ladrocinio (rapina) imperialistico [Bisogna essere ciechi (o far finta di esserlo) per sostenere che io faccio tale confusione. Questo è il primo mulino a vento che Pagliarone crea fornendo un’interpretazione palesemente errata di quello che sostengo io]. Cosa sia questa rapina e come si realizzi non lo spiega in alcun modo [Suvvia, c’è davvero bisogno di spiegare come i paesi imperialisti rapinano i produttori di petrolio? E qui segue un secondo mulino a vento]. Sappiamo solo che un produttore americano che si appropria di una parte del valore prodotto, poniamo, in Spagna per lui è imperialista. Ma sappiamo che qualsiasi produttore più avanzato si appropria naturalmente di una parte del valore prodotto da altri. E' precisamente questa la base degli extraprofitti che derivano dall'avere una maggiore produttività, sia che ciò si manifesti nel mercato interno sia che avvenga in quello mondiale. Altrimenti non ci sarebbe alcuna ragione per introdurre nuovi mezzi di produzione superiori a quelli degli avversari/concorrenti [Pagliarone pensa davvero che io non sappia la differenza tra l’appropriazione di valore da parte di produttori tecnologicamente più avanzati e in genere con una composizione organica più alta di parte del plusvalore dei produttori tecnologicamente meno avanzati e quindi con una composizione organica più bassa? Ho scritto a ufa su ciò e Pagliarone lo sa. Quello di cui parlo io non è l’appropriazione dovuta alla formazione dei prezzi di produzione ma l’appropriazione imperialista (vedi la mia definizione e esempi) che prescinde dalla trasformazione dei valori in prezzi. O Pagliarone non sa leggere oppure mi attribuisce coscientemente una posizione che non è mia. Lascio a lui la scelta. Secondo mulino a vento].

Ormai le corporation non hanno più una nazione e si rivolgono sul mercato mondiale senza alcun problema. Esiste la concorrenza tra capitali, sì, ma dei settori produttivi, e non c’è nulla di imperialistico in ciò. E’ un fenomeno normale nel modo di produzione capitalistico. Ma Carchedi insiste e continua affermando “Le singole nazioni che tentano di rompere la loro dipendenza possono non avere le necessarie dimensioni. Esse quindi devono raggruppare attorno a se altre nazioni in un rapporto di dominio e cioè devono formare blocchi imperialisti articolati al loro interno che si contrappongano ad altri blocchi imperialisti”. Una vecchia cantilena cantata ormai da più di un secolo. Siamo sommersi da imperialismi ma se siamo tutti imperialisti allora nessuno è imperialista [Un chiaro esempio di come Pagliarone docet. Sarà un vecchi cantilena ma perché è sbagliata? Pagliarone lo spieghi].

Ora Carchedi mi deve spiegare dove si è verificato attualmente un fenomeno del genere. Per quanto riguarda il petrolio mi spiace ma vorrei segnalare (anche se non è corretto farlo ma le necessità di spazio e di tempo lo impongono) gli ottimi lavori sull’argomento scritti da Cyrus Bina (uno dei maggiori esperti sul petrolio che fortunatamente è marxista) di cui pubblicheremo un suo ottimo scritto (inviatomi direttamente) su Countdown studi sulla crisi n 2 nel quale egli dimostra la trasformazione subita dal settore petrolifero dopo la crisi del 73 verso una dinamica concorrenziale come qualsiasi altro settore di produzione a livello globalizzato [Ma è proprio la dinamica concorrenziale che caratterizza la lotta imperialista, no?]. Mi permetto poi di segnalare il mio articolo Dalla Fame di speculazione alla speculazione sulla fame apparso nella raccolta Mad Max Economy pubblicato nel 2008 da Sedizioni nel quale cerco di dimostrare che la variazione del prezzo relativo a materie prime e prodotti agricoli sia condizionato dalla speculazione sui futures nel mercato di Chicago [E allora? Che c'entra? Forse che la speculazione non fa parte del gioco imperialista?]. Purtroppo è vero che la sinistra (che è diversa nelle sue argomentazioni) e l’ultrasinistra per le loro presunte analisi hanno sempre fatto riferimento alla modesta pubblicistica “borghese” con le sue manie geopolitiche e le minacce di guerra effettiva e commerciale atte ad esaltare il terrorismo ideologico che pervade la mente dei lavoratori. Infine se dovessimo considerare dediti all’imperialismo tutti i paesi con deficit della bilancia commerciale allora staremmo freschi, a parte qualcuno ci troveremmo in una ammucchiata di imperialisti dediti ad una lotta senza quartiere [Ma certo, gli imperialismi sono dediti ad una lotta senza quartiere anche se non necessariamente con guerre guerreggiate. E poi io parlo del deficit USA! Altro mulino a vento].

Purtroppo il capitalismo ha definitivamente superato i confini nazionali ed è divenuto il modo di produzione dominante sul globo terrestre e la finanza ha mostrato un internazionalismo eccezionale dalla quale non si salva nessuno, nemmeno la tanto esaltata economia cinese.

Ma poco prima Carchedi ci informa che “c'è anche una terza forma di appropriazione di ricchezza, quella che opera attraverso la competizione tecnologica. Essa è ancora più importante oggigiorno quando lo sviluppo tecnologico assume ritmi sempre più frenetici”. Purtroppo Carchedi cade anche lui nel Rifkinismo o se volete nel Rampinismo (versione italiana del noto scrittore di volumetti da lettura estiva), ossia in coloro che hanno il mito delle nuove tecnologie che fanno risparmiare lavoro. E lo sottolinea immediatamente con la frase

“Le innovazioni tecnologiche rimpiazzano lavoro con mezzi di produzione. Il capitalista innovatore aumenta il suo prodotto ma se il prodotto è generato con meno lavoro, il valore del maggiore prodotto è minore. Invece gli altri capitalisti con tecnologie meno avanzate producono un output minore ma con più lavoro e quindi con più valore incorporato”.

 Ora, mi spiace per Carchedi ma le cose stanno decisamente in maniera diversa. Le famose Nuove tecnologie che caratterizzano la nostra epoca High Tech sono i mezzi informatici e la microelettronica che non hanno assolutamente rivoluzionato il processo di produzione che rimane sostanzialmente quello della cosiddetta epoca “fordista” [Questa si che è bella. E tutti quei poveri cristi licenziati perché rimpiazzati da mezzi di produzione? E poi, la disoccupazione tecnologica c’era anche nella cosidetta epoca fordista]. A tale proposito sto cercando di produrre un lavoro empirico sulla questione dal titolo “Qualche riferimento al rapporto tra Information Technology e produttività” che mi premurerò di fare avere a Carchedi nella stesura definitiva. Ma basterebbe l’articolo di Laurence Reynolds e Bronislaw Szerszynski “Neoliberismo e tecnologia: Innovazione permanente o crisi permanente?"1 che uscirà prossimamente su Countdown n 2. Per il momento voglio sottolineare che gli investimenti in capitale fisso stanno declinando in tutte le economie capitaliste (prime fra tutte quella degli USA che hanno la palma d’oro dell’imperialismo) mentre il grado di invecchiamento del capitale fisso sta procedendo inesorabilmente da molti decenni come si può notare chiaramente nel grafico sottostante.

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Età media (anni) degli elementi del capitale fisso negli USA (1936-2014)

Dal grafico si nota che l’età media delle strutture e degli equipaggiamenti dopo aver subito una diminuzione dal dopoguerra fino alla fine degli anni 70, grazie ad un continuo grado di sostituzione, a partire dagli anni 80 sino ad oggi, risulta evidente che la loro sostituzione ha subito un rallentamento per cui la loro età media è passata dal valore minimo dei primi anni 80 ad incrementi a pari al 38.3% ed al 35.6% rispettivamente [Qui Pagliarone è recidivo. Di nuovo la stessa confusione tra aumento dei mezzi di produzione e rallentamento di tale sostituzione, cioè rallentamento di tale aumento. La sostituzione ha subito un rallentamento ma si continua a sostituire lavoro con mezzi di produzione, ergo a creare (ciclicamente) disoccupazione. Un esempio? Negli USA dalla fine della seconda Guerra Mondiale al 2010 il numero degli addetti nei settori produttivi per ogni milione di dollari (deflattati) cade da 75 a 6].

 

Punto Due

Carchedi nel suo articolo afferma

In Germania la produttività cresce mentre le ore di lavoro calano. Allora, la crescita del PIL è dovuta alla maggiore efficienza, cosa che per altro non esclude un maggior grado di sfruttamento. Ma dato che il tasso di sfruttamento è aumentato anche in altri paesi, sarebbe erroneo attribuire la crescita del PIL a questo fattore”.

Ma nella replica alle mie critiche su questo punto si corregge ed afferma “Ovviamente la produttività può crescere a un ritmo decrescente. Cresce in Germania e scende in Italia.  Il resto delle osservazioni di Pagliarone è ugualmente irrilevante ai fini della mia tesi”. E no caro Carchedi, gli incrementi di produttività (che non può diminuire ma solo crollare momentaneamente durante una crisi) della Germania declinano, come in altri paesi, anzi peggio di altri se prendiamo come esempio eclatante quello della produttività della Grecia che ha subito incrementi superiori a quelli del Quarto Reich della Merkel [E no, Pagliarone, sono io che correggo te. Continui a confondere aumenti di produttività con aumenti decrescenti di tale produttività. Ora, tu sai certamente di tale differenza. Che tu eviti la questione, può solo voler dire che ti mancano gli argomenti. Ma questo è poco onesto, no?]:

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Grecia: Salari, produttività e quota dei salari
(quota dei salari in percentuale, Produttività e salari reali base 100 del 1990)

Riporto nuovamente il grafico: Germania. Saggio netto di accumulazione e tasso di variazione della produttività del lavoro. 1971-2012 per poter fare una sorta di confronto.

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Vorrei inoltre sottolineare che non c'è nessuna correlazione fra tasso di aumento della produttività nei vari paesi dell'Eurozona e attivi nazionali della bilancia commerciale in particolare la Germania ha il maggior attivo ma è fra quelli che con i più bassi tassi di incremento della produttività [No. La produttività aumenta come dimostrato nei miei grafici. Per l’ennesima volta, che aumenti ad un passo decrescente non è una prova che diminuisca] Quindi secondo la logica di Carchedi la Germania avendo un attivo della bilancia commerciale non può partecipare all’abbuffata imperialista [Ma Pagliarone, cosa dici?].

Il confronto non va tanto fatto fra Germania e Italia ma fra Germania e tutti gli altri paesi. Fra le nazioni del mondo, la Germania è fra quelle che hanno conosciuto il più accentuato e lungo declino nel rapporto fra investimenti in capitale fisso e profitti. Alla faccia del mito tedesco che si è retto sul fatto che la grande Germania ha potuto nascondere tagli al salario ed al welfare da lungo tempo. Un serio paese imperialista, secondo il modello leninista, dovrebbe mantenere la propria classe operaia in condizioni ottimali così da poter sostenere la propria nazione nello scontro con altre potenze. Non è così? [Mai sentito che un disoccupato tedesco o olandese ha un livello di vita molto superiore di un operaio afgano (per non parlare dei disoccupati afgani)].

La produttività poi non si misura e si stima come fa Carchedi, che ottiene il meraviglioso risultato di far sembrare una recessione anche una diminuzione dalla produttività, ma in tutt'altro modo, ossia eliminando le fluttuazioni brevi dovute alle variazioni del venduto e dell'invenduto [Io misuro la produttività come fanno tutti, Marxisti e no. La vera critica che mi si può fare è che la produttività si dovrebbe misurare solo per i settori produttivi (come faccio io per gli USA). Ma le statistiche tedesche non ci permettono questa distinzione. Comunque il trend ascendente c’è. E poi, a parte le fluttuazioni, un aumento del venduto farebbe supporre un aumento o diminuzione della produttività? Ma perché? Pagliarone dovrebbe spiegare anche questa].

Aggiungo il grafico sottostante sul saggio del profitto e la quota dei profitti non accumulati per la Germania che è illuminante sullo stato dell’economia tedesca. Ripropongo a Carchedi la lettura dell’ottimo saggio di Giussani “L’euro e la crisi dell’eurozona” apparso sul n. 1 di Countdown, studi sulla crisi che fa carta straccia di tutti i luoghi comuni sull’argomento [Ma il grafico che segue, cosa c’entra con l’imperialismo o mancanza del medesimo?].

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Punto 3

Carchedi ci tiene a sottolineare che

“si noti che io mi riferisco al periodo susseguente all'introduzione dell'Euro per sostenere che la causa della crisi in Italia non è tale introduzione ma lo stato arretrato (relativamente a quello della Germania) dell'apparato produttivo dell'economia Italiana, contrariamente a quanto accettato dal quasi tutta la 'sinistra' Italiana”.

Innanzitutto occorre precisare che solo certa sinistra “ufficiale” sostiene questa bestialità utile per creare il mito della Germania che ha avuto presa su tutti i milieu che si occupano di queste cose ma anche fra i lavoratori salariati così è più facile far digerire loro lo sfruttamento mastodontico in questa rincorsa al cavallo tedesco, con buona pace dei marxistoidi che fanno da megafono alla modesta pubblicistica ufficiale [Prima di tutto, Pagliarone dovrebbe spiegare perché è una ‘bestialità’. In secondo luogo sono io che critico una qualsiasi alleanza tra classi perché avrebbe come effetto non miglioramenti tecnologici ma un maggior grado di sfruttamento. Un altro mulino a vento].

Comunque quello che ha virtualmente fatto saltare l'eurozona e messo in difficoltà i Piigs non è lo squilibrio commerciale bensì gli immani movimenti a breve di capitali. Pensare che l'euro, che non è una divisa costruita come le altre (Dollaro, Pound, Yen, etc) non c'entri niente coi casini dell'eurozona fa piuttosto ridere. Uscire dall'euro "non risolve i problemi" (qualsiasi cosa questa espressione possa voler dire) ma ancor meno restarci dentro [Giusto. Io sostengo chiaramente che il problema è il capitale e quindi anche l’imperialismo. Altro mulino a vento. Io non penso che l’Euro non c’entri niente, dico a chiare lettere che l’Euro non è il problema ma che si è innestato in Italia su una debole struttura produttiva]. Supponiamo che in un paese avvenga che si metta in moto un processo rivoluzionario che metta a capo a qualche governo provvisorio e a qualche forma di potere dei lavoratori. Si pensa forse che tale paese possa restare nell'euro? [Domanda irrilevante ai fini di questa discussione, e cioè che cos’è l’imperialismo e dove va]. Per cui il problema oggi non è uscire o meno dall’euro [Se Pagliarone pensa che per me questo sia il problema, ha creato un altro mulino a vento]. Ormai la situazione economica globale è degenerata a tal punto che le famose “scelte” politiche servono solo a fare propaganda di bassa leva per catturare qualche voto da gente che ormai si rifiuta sempre più di compilare una scheda elettorale. Lo stato comatoso dell’economia mondiale derivato dalla finanza speculativa e dalla stagnazione della produzione (se non una nuova Great Recession sempre più simile ad una Grande Depressione di lunga durata) ormai non consente ad alcun partito o organizzazione sindacale di poter intervenire con scelte adeguate. Persino la BCE ha dimostrato una impotenza disarmante dopo i suoi interventi eccezionali che non hanno prodotto praticamente niente. Ormai i sistemi politici sono tutti asserviti alla dinamica economica in atto (Grecia docet) e non possono più tornare ad avere il ruolo che noi poveri vecchietti abbiamo sperimentato quando eravamo giovani nell’ era geologica postbellica. Ottimo a tale proposito l’articolo di Wolfang Streeck “La Politica del debito pubblico: neoliberismo, sviluppo capitalistico e la ristrutturazione dello stato”2 che verrà pubblicato in uno dei prossimi numeri di Countdown, di cui voglio riportare la frase finale:

“Perché le nuove oligarchie dovrebbero essere interessate alle future capacità produttive dei loro paesi ed alla loro stabilità democratica se, a quanto pare, possono essere ricchi senza di questa, spostando qua e là il denaro sintetico prodotto per loro a costo zero da una banca centrale per la quale il limite è il cielo, distraendone in ogni suo passaggio il peso delle tasse e di stipendi senza precedenti, i bonus ed i profitti purché siano imminenti - per poi lasciare il loro paese ai rimasugli dei suoi progetti e ritirarsi in qualche isola di loro proprietà?”

[Concludendo, Pagliarone decreta senza provarlo, che coloro (Carchedi, in questo caso) che non la pensano come lui dicono bestialità, ecc. Poi crea tutta una serie di interpretazioni volutamente errate (mulini a vento) contro cui scagliarsi come un moderno Don Chisciotte lancia in resta. Ma allora che senso ha discutere? Se Pagliarone vuole continuare così, faccia pure, da solo].

5 Febbraio, 2016

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