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Collasso del Kurdistan iracheno

di Andre Vltchek

VltchekKurdistan1Soleva essere presentato come una storia di successo. Ci raccontavano che in mezzo a un Medio Oriente stuprato, circondato da disperazione, morte e dolore, brillava luminosa come una fiaccola di speranza una terra di latte e di miele.

O era più come una torta circondata da marciume? Quel luogo eccezionale era chiamato Kurdistan o, ufficialmente, ‘Regione Kurdistana’.

E’ qui che il vittorioso capitalismo globale è andato riversando ‘massicci investimenti’ mentre l’occidente stava ‘garantendo sicurezza e pace’.

Qui imprese turche stavano realizzando e finanziando innumerevoli progetti, mentre le loro autobotti e poi un oleodotto trasferivano in occidente quantità sbalorditive di petrolio.

Nell’elegante aeroporto internazionale di Erbil uomini d’affari, soldati ed esperti della sicurezza europei socializzavano con specialisti ONU dello sviluppo.

Che cosa importa che il governo della Regione Kurdistana continuava a scontrarsi con la capitale, Baghdad, sulle riserve di petrolio o sulla portata dell’autogoverno e su molti altri temi essenziali.

Che cosa importa che (come accade spesso in società estremamente capitaliste) gli indicatori macroeconomici erano improvvisamente in spaventoso contrasto con la crescente miseria della popolazione locale.

Fintanto che il petrolio fluiva, fintanto che questa regione autogovernata garantiva alleanza all’occidente. Ma poi l’economia ha cominciato a rallentare, a poi si è fermata. Tutti gli indicatori sociali sono scesi in picchiata.

La felicità degli investitori occidentali e turchi, e specialmente dei gestori politici, è parsa sempre più fuori luogo, diventando quasi insultante per quelli che cercavano di far quadrare i conti.

E il giorno in cui sono partito, il 9 febbraio 2016, il ‘Kurdistan iracheno’ è improvvisamente esploso in una serie di violente proteste, contro ‘misure d’austerità per evitare il collasso economico’.

La Reuters ha scritto: “Le proteste si  sono intensificate martedì nella regione kurdistana dell’Iraq  … Un boom economico durato un decennio nella regione autonoma è arrivato a un brusco stop nel 2014, quando Baghdad ha tagliato i fondi ai curdi dopo che essi avevano  costruito un proprio oleodotto verso la Turchia e hanno cominciato a esportare petrolio indipendentemente. Ciò ha lasciato il governo della regione kurda (KRG) in lotta per far fronte alle paghe gonfiate del settore pubblico, pari a 875 miliardi di dinari iracheni (800 milioni di dollari) mensili. Il KRG ha tentato di coprire il deficit aumentando le vendite indipendenti di petrolio a circa 600.000 barili al giorno (bpd), ma ai prezzi attuali la regione è tuttora alle prese con un deficit mensile di 380-400 miliardi di dinari iracheni (717 milioni di dollari)”.

Ma la disputa con Baghdad e il deficit finanziario non sono i soli problemi che hanno condotto alla situazione attuale. Le politiche sociali nella Regione Kurdistana erano da molto tempo grottescamente inadeguate e l’assistenza sociale alla popolazione locale non era mai stata considerata una priorità.

Una sera ho incontrato una specialista ONU dell’istruzione, la signora Eszter Szucs, che risiede a Erbil. Abbiamo avuto una breve e intensa conversazione.

“Il Kurdistan iracheno decisamente non è uno stato sociale. La gente è scontenta della situazione. Protesta molto, ma non serve a nulla. Le risorse naturali sono di proprietà privata. I servizi sociali sono prevalentemente molto costosi. Quelli che possono permetterselo si recano in Turchia per ricevere cure mediche. La Regione Curda è un luogo molto complesso”.

“Non un paradiso nel cuore del Medio Oriente in ceneri?” chiedo ironicamente.

“Decisamente no”, risponde. ”Ci sono  naturalmente considerevoli investimenti che arrivano dall’estero, principalmente dall’occidente e dalla Turchia. Ma sono diretti alla crescita macroeconomica, attraverso l’industria del petrolio. Nelle tasche della gente comune non arriva granché”.

Lo so. Ho visto quella ‘gente comune’ scavare sporche radici per pranzo, nel mezzo di villaggi situati proprio vicino alle raffinerie di petrolio di proprietà della KAR, la compagnia petrolifera curda.

Il 9 febbraio2016 proteste hanno inondato le città e i paesi di Sulaymaniyah, Koya, Halabia e Chemchemal. Improvvisamente è divenuto chiaro che il ‘successo’ del Kurdistan iracheno non è stato altro che un castello di carte. E’ divenuto insostenibile e ha cominciato gradualmente a crollare.

Mentre percorrevamo la Route 2, la strada che collega le città di Erbil e Mosul, ho chiesto al mio interprete: “Perché pensi che non ci siano fondi per pagare salari, pensioni, persino i salari delle forze armate locali, i peshmerga?”

“Non ci sono soldi perché i prezzi del petrolio sono crollati e a causa della guerra all’ISIS”, dice l’interprete. “Prima Baghdad copriva il 75 per cento dei costi dell’assistenza sociale del nostro popolo… Ora non manda niente”.

Mi chiedo: “Ma perché dovreste ricevere soldi da Baghdad se siete più vicini a Washington. Continuate ad assicurare alleanza all’occidente, mettendovi contro il resto dell’Iraq, minacciando di dichiarare la piena indipendenza. Avete persino costruito un oleodotto diretto che porta in Turchia …”

“Ma Baghdad è ancora la nostra capitale …”

“Ma state tagliando i collegamenti con l’Iraq, e il Medio Oriente …”

Silenzio.

“Ricevete fondi, un aiuto concreto dagli Stati Uniti?”, chiedo.

“No”.

“I curdi si sentono delusi per il fatto di non ricevere alcun sostegno dall’occidente?”

“Sì, molto delusi”, risponde il mio interprete. “Ci sentiamo insicuri nella nostra stessa terra, specialmente ultimamente. Tutto potrebbe crollare in qualsiasi momento. La gente qui vuole solo andarsene … andare negli Stati Uniti o in Gran Bretagna”.

E’ questa la fine dell’euforia?

La strada è fiancheggiata da discariche d’immondizia. Fili elettrici e alte recinzioni tagliano la terra. E la terra rimane non lavorata; qui non è rimasta quasi più nessuna agricoltura. E’ tutto petrolio, basi militari e inattività e apatia.

La nostra auto è fermata a diversi posti di controllo. La mia collega è molestata perché ha un visto siriano sul suo passaporto. Sul mio ho un visto iraniano… Mentre i nostri documenti vengono controllati camion e autocisterne turche passano di lato, liberamente, godendo di privilegi indefiniti ma evidenti.

A sud di Erbil, nei villaggi vicino a Oushtapa, la strada è gravemente danneggiata da camion e autocisterne turche e curde. Su questa direttrice che collega Iraq, Turchia e Iran, sembrano esserci più camion e autocisterne che auto o autobus ordinari. E’ tutta una questione di business, di “commercio”. La gente a malapena viaggia.

Alcuni giorni fa, cittadini indignati hanno bloccato la strada, chiedendo cambiamenti delle politiche sociali e che il governo agisca.

Arrivo fino al villaggio di Degala. Qui guardie e locali mi guardano con sospetto.

“Perché protestano?” chiedo.

Cercano di evitare i problemi veri: “Vogliamo che la nostra strada sia sistemata…”

Insisto: “Sul serio, perché?”

Dopo un po’ il ghiaccio è rotto e uno dei residenti comincia con il suo lamento: “Non siamo pagati da sei mesi. Su questa strada lo vediamo chiaramente: ci sono tanti affari, tanti soldi, ma noi non riceviamo assolutamente nulla. Siamo arrabbiatissimi! I camion trasportano cibo e petrolio, ma non si fermano qui. Siamo abbandonati.”

Mentre ci dirigiamo a Erbil vedo nuovamente il totale abbandono: i campi non sono lavorati. Non c’è alcuna diversificazione nell’economia.

Chiedo al mio autista: “E’ sempre stato così? Il Kurdistan produceva cibo sotto Saddam Hussein? C’era agricoltura?”

“Sì”, stringe le spalle. “Era come … un paese diverso”.

“Migliore?” chiedo.

“Naturalmente. Molto migliore.”

Poi silenzio di nuovo.

E adesso c’è la guerra.

Un anno fa sono riuscito ad arrivare fino alla linea del fronte, ad appena sette chilometri da Mosul. Mi sono state mostrate le colline occupate dall’ISIS, ho visto il ponte distrutto sul fiume Khazir e poi il villaggio di Sharkan, e altri villaggi bombardati e ridotti in rovine dalle forze statunitensi.

Il comandante di battaglione, colonnello Shaukat delle forze di polizia militarizzate Zeravani (parte dell’esercito peshmerga) mi ha accompagnato in giro sulla sua Land Cruiser blindata. Mitra, fumi e spacconerie dovunque …

Gli ho chiesto: “Quanti civili sono morti in quei villaggi?”

“Nemmeno uno”, ha risposto. “Lo giuro! Abbiamo messo a disposizione informazioni eccellenti,  così le forze statunitensi hanno saputo che cosa bombardare.”

Mi ha trattato come se quella fosse la mia prima zona di guerra. Centinaia sono morti. Era evidente e i parenti delle vittime me l’hanno in seguito confermato. A malapena era rimasto qualcosa di quei villaggi. Più probabilmente la maggior parte dei villaggi è scomparsa durante l’attacco. Il colonnello Shaukat era stato addestrato principalmente nel Regno Unito. Sapeva come parlare.

Questa volta parlo con Omar Hamdy, il direttore dell’albergo a cinque stelle Rotana di Erbil.

“Sono iracheno, di Mosul. Ho perso mio fratello e mio zio in quella città, dopo che l’ISIS l’ha conquistata. Naturalmente l’ISIS è stato creato e addestrato dall’occidente e dalla Turchia, ma io incolpo anche l’esercito iracheno; 54.000 suoi membri hanno semplicemente gettato le armi e sono fuggiti”.

Ho detto: “Ma probabilmente erano spaventati, sapendo che dietro l’ISIS c’erano i paesi della NATO”.

“Sì, decisamente”, ha replicato.

“E riguardo alla Russia?”

“Sono davvero molto, molto interessato alla Russia e a ciò che sta facendo in Medio  Oriente. La Russia combatte realmente contro l’ISIS. Gli USA … loro arrivano, bombardano i villaggi conquistati dall’ISIS, uccidono prevalentemente civili e anche ‘per errore’ scaricano le loro armi sull’area, cosicché l’ISIS può metterci sopra le mani … Ho molti amici che combattono sul serio contro l’ISIS, a Mosul; perciò sono sempre bene informato”.

Le famiglie risiedono su entrambi i lati del fronte e i cellulari funzionano. E’ possibile tenersi informati sulla situazione a Mosul semplicemente telefonando a parenti e amici.

Poi egli continua:

“Anche se Mosul fosse mai liberata dall’ISIS ci sarebbero molte differenti fazioni e conflitti perpetui”.

“Non diversamente dallo scenario libico?” lo interrompo.

“Esattamente. Non diversamente dallo scenario libico … Inoltre quello che mi preoccupa è ciò che sta accadendo ai bambini di Mosul; l’ISIS li sta indottrinando pesantemente”.

Questo succede in molti paesi destabilizzati dall’occidente”, dico.

Lui dice di non sapere. Lui sa solo che è successo nella sua città e nel suo paese.

Una volta tornato al mio albergo c’è un tizio inglese che stava discutendo di politica con un’addetta alla reception. Discorsi militari, a proposito dell’addestramento dell’esercito locale e poi discorsi sulla produzione di petrolio … va tutto di moda, o almeno è accettabile come interazione sociale tra “informate” locali ed espatriati macho.

Ci sono tutti quelli esperti della sicurezza privata, uomini dell’esercito, funzionari dei servizi segreti e consulenti. E’ tutta una strabiliante miscellanea di spacconate militari, esibite apertamente e condite con dogmi turbo-capitalisti.

Sto studiando fonti locali e più lo faccio, più diventa evidente che le cose stanno finendo dalla padella nella brace.

Il direttore dell’ufficio statistiche di Suleymaniyah, Mahmud Osmad, ha dichiarato recentemente a BasNews:

“In confronto con il 2014, nel 2015 la spesa di ciascuna famiglia è diminuita del 30 per cento, compreso l’acquisto di beni di prima necessità, cose per la casa, viaggi e così via … il tasso di disoccupazione nella Regione [Kurdistana] era del 7 per cento nel 2013, ma oggi è salito al 25 per cento …”

Anche la povertà è aumentata enormemente. E la Regione ha modi estremamente laschi per calcolare la povertà: se una famiglia non spende 105.000 dinari iracheni (87 dollari) in un mese, è considerata povera. Cioè 21,75 dollari per persona al mese, meno di un dollaro al giorno! Per non dire che le famiglie curde hanno, in medi, più di quattro membri.

Chiedo al mio autista di quanto ha bisogno per sopravvivere una famiglia di cinque persone dentro e fuori Erbil.

“Il minimo assoluto è di 1.000 dollari al mese in città, e di 600 dollari in campagna”.

“Quante famiglie guadagnano quelle cifre?” chiedo.

Nemmeno la metà … molte meno della metà”, dice.

Sono confuso; voglio sapere, sentire dalla gente della “Regione” se le loro vite sono davvero collassate.

Nel villaggio di Kawergosk un anziano, Mohamad Ahmad Hasen, è agghiacciantemente franco a proposito della situazione.

“Loro [il governo, il sistema] non ci aiutano assolutamente in nulla. E oggi noi non abbiamo assolutamente nulla. Là, guarda, vedi quell’enorme raffineria di petrolio?  Loro sono a casa loro e noi siamo a casa nostra. Non ci sono nuovi posti di lavoro e noi viviamo  alla giornata”.

In un altro villaggio parlo con una delle molte famiglie che sono riuscite a fuggire dai territori occupati dall’ISIS. Vengono dalla città di Hammam al-Alil, vicino a Mosul. Sono tutti d’accordo che le cose andavano molto meglio prima dell’invasione statunitense.

“Sotto Saddam Hussein l’Iraq era un paese orgoglioso e decente. La sicurezza era buona. Oggi neppure sappiamo quali siano i nostri nemici e chi stia loro dietro”.

Nella casa accanto una donna condivide le sue difficoltà. Secondo la cultura di prudenza di Mosul lei non dovrebbe parlare con noi. Ma ha molti figli, tutti prossimi a morir di fame. Ne ha abbastanza e dice:

“I nostri uomini sono con i peshmerga. Combattono l’ISIS. Io ho sette figli. La mia vicina ha sette figli. Nessuno lavora più. Non ci sono aiuti. Nemmeno i peshmerga sono pagati. E’ tutto estremamente difficile e io non sono nemmeno sicura di come sopravvivremo”.

Ma i camion e le autocisterne turche percorrono le strade in su e in giù, giorno e notte.

Non molto tempo addietro, nel corso di un nostro incontro a Istanbul, il professor E. Ahmed Tonak ha sintetizzato la situazione tra Turchia e Kurdistan iracheno:

“La Turchia sostiene fortemente il regime di Erbil; non fosse altro, almeno per motivi economici. Chiunque si reca là, nell’Iraq settentrionale o in quello che chiamiamo Kurdistan meridionale, nota che imprese turche dominano quella regione curda quasi completamente … C’è petrolio là, ovviamente, ma c’è anche un altro fattore, politico: il regime curdo iracheno è la sola forza curda amica che Ankara ha nell’intera area”.

Ma gli alleati della Regione Kurdistana non sembrano troppo interessati alle sofferenze della gente locale.

Mentre il sistema sociale è al collasso, Erbil si sta trasformando in uno dei luoghi più segregati del pianeta: con strade a dodici corsie, comunità frammentate, assolutamente nessun trasporto pubblico, quasi nessuna istituzione culturale, ma pieno di centri commerciali per i ricchi e di alberghi di lusso per gli espatriati.

Nell’area in cui la maggior parte delle persone vive con meno di un dollaro al giorno, una camera d’albergo decente oggi costa più di 350 dollari e il noleggio giornaliero di un’auto da un albergo costa circa 400 dollari.

C’è grande paura nella Regione Kurdistana. E la paura alimenta la rabbia. E la rabbia può condurre alla violenza contro il corrotto regime filo-occidentale.

E qual è la ‘soluzione’ di Erbil? La Reuters ha riferito l’11 febbraio 2016:

“Massud Barzani, il presidente di fatto della Regione Kurdistana  dell’Iraq ha dichiarato agli inizi di febbraio che ‘è arrivata l’ora che i curdi del paese tengano un referendum su un proprio stato”.

Baghdad osserva e avverte: “Non fatelo! Non riuscirete a sopravvivere senza di noi!”

Ma il regime della Regione Kurdistana appare troppo ostinato. Come in tutte le colonie dell’occidente, è la solita minestra: “Prima il profitto, poi le persone”.

* * *

Andre Vltchek è un filosofo, romanziere, regista e giornalista d’inchiesta. I suoi libri più recenti sono: “Exposing Lies Of The Empire” e “Fighting Against Western Imperialism”, una discussione con Noam Chomsky sul terrorismo occidentale. ‘”Point of No Return” è il suo romanzo politico acclamato dalla critica. Andre gira documentari per teleSUR e PressTV. Vltchek risiede e lavora attualmente in Asia Orientale e in Medio Oriente.
Tutte le fotografie sono  copyright di Andre Vltchek.
Da ZNetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo
www.znetitaly.org
Originale: https://www.rt.com/op-edge/332408-iraqi-kurdistan-collapse-turkey-oil/
traduzione di Giuseppe Volpe
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