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sinistra

Come i morti anche le mode ogni tanto ritornano

di Antonio Pagliarone e Paolo Giussani

Antonio Pagliarone ci segnala, dopo aver letto l'intervento di Guglielmo Carchedi recentemente pubblicato qui e con cui concorda pienamente, questa critica ad Enzo Modugno sul keynesismo militare, da lui scritta nel 2004 insieme a Paolo Giussani e tuttora pienamente attuale

article 1253068 086e1005000005dc 519 964x8861. Keynes Redux ?

L’articolo di Enzo Modugno “Il prodotto interno lordo della guerra” apparso sul Manifesto del 17 marzo 2004, in cui si trova ripetuta una tesi vecchia come Noé sul rapporto fra spese militari e capitalismo, è un concentrato di luoghi comuni, tanto diffusi quanto difficili da scardinare. Sarebbe assai bello se gli scritti e le critiche servissero a spingere gli appartenenti agli ambienti dell’ultrasinistra verso l’analisi dei fenomeni e la ricerca di prove su cui basare i punti di vista. Sarebbe una gran bella cosa ma è un augurio totalmente cretino. L’ultrasinistra non è che il cascame della politica e della cultura ufficiali, il precipitato evolutivo di un passato narcisisticamente irrilevante potentemente affetto dall’inveterato vizio di costruirsi e presentare “analisi” fatte delle medesime spiegazioni offerte dal senso comune e diffuse dai media (una tempo etichettati “borghesi”) solo rivestite del solito vieppiù intollerabile linguaggio da guru.

Secondo Modugno, che ritiene di riprendere una tesi espressa nel Capitale monopolistico di Paul Sweezy, il settore militare, in particolare quello statunitense, svolgerebbe la funzione di “indispensabile sostegno al capitalismo”. Modugno in particolare asserisce che le 85.000 aziende che compongono il cosiddetto Complesso Militare Industriale USA sono “il vero motore dell’economia”. Considerando che l’economia USA è composta da circa 6,5 milioni di aziende, sembra bizzarro che di tutte queste esista uno speciale 1.3% che possa fare da sostegno e da “vero motore” al restante 98.7%. Cerchiamo comunque di verificare l’affermazione di Modugno. Osservando l’andamento delle spese militari americane in rapporto al Pil negli ultimi 75 anni (Grafico 1) scopriamo una cosa che a molti potrebbe apparire strana, vale a dire che il rapporto spese militari/PIL è in forte tendenziale declino dai tempi del picco locale del 1953 (14.73%), raggiunto grazie alla breve ascesa dovuta alla guerra in Corea dopo la smobilitazione bellica, discesa che nel 2000 ha raggiunto il minimo storico di tutto il periodo dalla IIGM in poi (3.77%).

Grafico 1 – USA. PIL reale e spese militari/PIL. 1929-2003

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Fonte: BEA

Come è del tutto ovvio, le spese militari in rapporto al PIL raggiungono il massimo storico (43.0%) nel mezzo dello sforzo bellico della IIGM ossia nel 1944. L’ascesa comincia nel 1941 (anno in cui le spese belliche in rapporto al Pil si innalzano di botto di circa 4.5 volte) appena prima di Pearl Harbour ma assai dopo l’inizio delle ripresa economica seguita alla profonda depressione dell’inizio degli anni ’30, inizio che si ebbe in due tappe, dal 1933 e dal 1939 dopo il secondo considerevole collasso del 1938, e prima del processo di armamento degli Usa. In base all’esame dell’andamento del Pil e delle spese militari degli Usa nel corso degli anni ’30 e ’40 è semplicemente impossibile asserire che le seconde siano il volano del primo, anzi sarebbe assai più ragionevole un’affermazione di tipo opposto. Dopo il crollo seguito al termine del conflitto mondiale il rapporto spese militari/PIL sale di nuovo nel periodo 1950-1953 a causa della guerra in Corea, per cominciare subito dopo un tendenziale declino che continua tuttora e che neppure la guerra in Vietnam è riuscita ad invertire ma solo a rallentare. Dopo il 1967 la caduta riprende piuttosto velocemente per toccare un minimo nel 1979 e lasciare il posto ad una debole risalita (dal 5.66% del 1979 al 7.41% del 1986) durante il periodo reganiano, premessa tuttavia ad una spettacolare diminuzione negli anni successivi che giunge sino al valore minimo del 3.77% nel 20001. Esattamente all’opposto dell’assai diffuso pregiudizio, se uno volesse caratterizzare in sintesi il dopoguerra delle spese militari americane dovrebbe definire questo periodo come quello della loro tendenziale sparizione in quanto componente del Pil: in quale altro modo chiamare un calo dal 14.73% del 1953 al 3.77% del 2000 (vale a dire del 74.4% in 47 anni)? La cosa più notevole che si ricava dall’osservazione dell’andamento del Pil e del rapporto spese militari/Pil è tuttavia un’altra: la mancata correlazione fra incremento delle spese militari in rapporto al Pil e Pil medesimo cioè l’assenza del rapporto causale che Modugno pretenderebbe essere essenziale per il buon andamento del capitalismo americano. Per rendersene conto basta esaminare l’andamento del Pil americano dal 1953 al 1973 -ossia nel periodo in cui il Pil Usa ha conseguito i più alti tassi di crescita di tutta la storia economica americana- ponendolo a confronto con l’andamento delle spese militari. In questo ventennio la crescita complessiva del Pil nominale è pari a circa 28 volte mentre quella delle spese militari è circa tre volte e mezzo inferiore. In tutti gli altri periodi dell’intervallo 1929-2003 il rapporto fra crescita del Pil e crescita delle spese militari è inferiore a quello del golden age 1953-1973. In una parola, aumenti relativamente bassi delle spese militari nominali sono associati ad incrementi relativamente elevati del Pil e viceversa. Modugno non è d’accordo con questa idea giacché, citando vari studi, se ne esce appoggiando l’asserzione -un pregiudizio abbastanza condiviso- secondo cui l’aumento delle spese militari ha un effetto moltiplicatore sull’accrescimento del prodotto lordo:

Julio Rotemberg e Michael Woodford ritengono, in un saggio apparso sul Journal of Political Economy dedicato agli anni che vanno dal 1947 al 1989, che un aumento delle spese per la difesa fa aumentare la produzione più di quanto riuscirebbe a fare un aumento dei salari reali. Dello stesso tenore la tesi sviluppata dagli economisti Edelberg, Eichenbaum e Fischer della Northwestern University in un saggio apparso sulla rivista universitaria: per ogni dollaro dato al Pentagono, il prodotto interno lordo cresce di 3,5 dollari dopo quattro trimestri. In un saggio scritto a quattro mani, altri due economisti, Valerie Ramey e Mattew Shapiro ( Working Paper , Nber 6283), ritengono che nei periodi di maggiore incremento delle spese per la difesa le scelte del governo possono influenzare fino al 50% la formazione del prodotto interno lordo. Per Roberto Perotti e Olivier Blanchard ( Working Paper , Nber 7269) ogni dollaro al Pentagono fa aumentare il prodotto interno lordo di 2,43 dollari entro un anno e con effetto duraturo.

Il di molto ingenuo Galileo si era a suo tempo battuto affinché il ricorso all’autorità nelle discussioni fosse bandito: del tutto invano a quanto pare. Il modo di procedere di Modugno è francamente inaccettabile. Egli si fa bello presso il povero di spirito (e di conoscenza) lettore medio del Manifesto citando autori di studi econometrici (studi che io dubito assai egli abbia compreso) dagli esoticamente accattivanti nomi in lingua inglese, guardandosi naturalmente assai bene dal cercare e menzionare gli altri studi –ne esistono a tonnellate dato che con l’econometria si può più o meno dimostrare ciò che si vuole- che giungono a conclusioni del tutto differenti. Perché, invece di ricorrere a riferimenti a lavori di altri, adotti a mo’ di scudo come autorità, Modugno non ci spiega quale è secondo lui il meccanismo che conduce da una certa spesa militare aggiuntiva ad un maggiore Pil aggiuntivo? Riferendo i risultati dei tre studi Modugno dice cose paradossali, dalle quali si deduce che quanto minore è il rapporto fra aumento delle spese militari e aumento del Pil in un certo lasso di tempo tanto maggiore è l’influenza del primo sul secondo incremento. Se in un anno le spese per la difesa aumentassero di 1 miliardo di US$ e il Pil crescesse di 100 miliardi di US$ chiunque potrebbe dire che l’incremento delle spese militari ha “generato” un effetto “moltiplicatore” pari a 100. Se poi negli anni successivi gli incrementi delle spese militari scendessero continuamente mentre il Pil continuasse ad aumentare di 100 miliardi di US$ annui, l’effetto moltiplicatore continuerebbe ad innalzarsi tendendo all’infinito, valore che felicemente raggiungerebbe allorché le spese militari avessero cessato di aumentare. L’effetto moltiplicatore massimo si otterrebbe dunque con spese militari che non aumentano (e ancor meglio si farebbe con spese militari che calano). In realtà durante i periodi di maggiore espansione bellica l’effetto “moltiplicatore” (qualsiasi cosa si voglia con questa parola intendere) è assolutamente minimo: dal 1940 al 1944 (anno in cui Pil era ormai fatto quasi per metà di spese belliche) le spese militari americane aumentarono complessivamente di 92 miliardi di US$ ed il Pil di 118.4 (moltiplicatore 1.29) mentre il Pil non costituito di beni usati dall’esercito si accrebbe soltanto di 21.4 miliardi di US$ (quando dal 1933 al 1937, periodo praticamente privo di spese belliche, questo incremento era stato di 33.3 miliardi di US$). Da questo elementare esame si impara che sicuramente il Pil si accresce per effetto di maggiori spese militari cosiccome di qualsiasi spesa aggiuntiva effettuata dall’amministrazione pubblica: ma si accresce esattamente dell’importo delle spese militari (e/o non militari) in più e decresce dell’importo di spese non militari che le spese militari vanno a rimpiazzare.

Mentre un aumento della quota di spese belliche non è correlato con un’accelerazione del Pil, l’aumento del saggio di accumulazione (tasso di crescita del capitale fisso investito) oppure del rapporto investimenti fissi/Pil è correlato assai strettamente con un aumento del tasso di crescita del Pil. Le maggiori crescite del Pil del dopoguerra -Giappone, Germania, Italia, Corea- sono state tutte legate a spese militari quasi inesistenti e a relativamente elevati tassi di investimento e di accumulazione; come, per converso, la stagnazione dell’economia mondiale degli ultimi trent’anni è dipesa e continua a dipendere in larga misura dal progressivo venir meno del processo di accumulazione rispetto alla performance realizzata nel boom postbellico. Nella storia del capitalismo non esiste nessun caso di crescita elevata del Pil dovuto a crescita elevata delle spese pubbliche non riproduttive2 (tipologia cui le spese militari appartengono), e neppure nessun caso di applicazione di politiche economiche keynesiane che abbia risolto la stagnazione dell’accumulazione e riportato la crescita in un processo tipo golden age . Quello della domanda aggiuntiva creata dalla pubblica amministrazione è un mito creato dai professori keynesiani e dagli amministratori pubblici, un mito che non regge un minuto il confronto coi fatti. Ne volete un esempio eclatante tratto dai giorni nostri: l’incredibile stagnazione dell’economia giapponese nell’ultimo decennio malgrado ogni possibile trattamento keynesiano tentato. Ma il keynesismo è un mito anche per le fasi di crescita regolare; coloro che associano il keynesismo al golden age (1947-1973) del capitalismo moderno non sanno quello che dicono. Del boom postbellico il keynesismo non è stato parte: deficit di bilanci e indebitamento pubblico trascurabili e tassi di interesse tendenzialmente crescenti erano fra le caratteristiche (non keynesiane) peculiari dell’epoca. Il nucleo del keynesismo (e ciò che lo rende totalmente incompatibile con la teoria classica) è l’idea che si possa creare capitale dal nulla, iniettarlo dal di fuori all’interno del processo di accumulazione e farne scaturire senza problemi l’innalzamento del tasso di crescita e quindi del livello di impiego delle risorse, forza-lavoro compresa. Naturalmente il governo può creare tutte le risorse monetarie che vuole e spenderle come gli pare; una volta fatto questo, però, non può più minimamente controllare né dirigere gli effetti delle sue azioni. La formazione di denaro utilizzabile per aumentare la domanda complessiva di merci non riproduttive (le merci tipiche della spesa pubblica) può avvenire in due modi: (1) prendendo a prestito sul mercato monetario mediante l’emissione di obbligazioni oppure (2) creando nuove disponibilità monetarie attraverso la vendita diretta di nuove obbligazioni alla banca centrale. Il primo caso equivale ad un indebitamento aggiuntivo dei consumatori per l’aumento dei consumi. Inizialmente, la domanda viene accresciuta e quindi il livello di utilizzo della capacità produttiva; successivamente, quando il debito comincia a venire a scadenza, subentra il processo opposto dato che ogni ripagamento di debito equivale ad una contrazione netta della liquidità impiegabile e quindi della domanda. Le condizioni che avevano dato origine alla necessità di maggiore indebitamento pubblico per il sostegno della domanda e della produzione complessiva vengono esacerbate. Il secondo caso non comporta un indebitamento maggiore, ed è il caso più autenticamente keynesiano. Mediante la monetizzazione del debito pubblico viene messa in circolazione una maggiore quantità di denaro che oltre ad un aumento iniziale della domanda produce un incremento del tasso di inflazione. Questo ridistribuisce il reddito complessivo verso coloro che beneficiano più direttamente delle spese pubbliche, tendendo ad inibire, almeno in parte, il meccanismo di eliminazione delle aziende più deboli e di concentrazione del capitale, in una parola il meccanismo di innalzamento ciclico del saggio del profitto, circostanza che tende a perpetuare le condizioni di stagnazione. Al posto di una crisi acuta seguita da una ripresa più o meno vigorosa abbiamo condizioni di ristagno più o meno costanti.

In definitiva il keynesismo è l’ideologia del capitalismo giunto alla fase di ristagno naturale; o meglio è l’ideologia del capitalismo giunto al ristagno come norma fisiologica in quanto osservato dall’angolo visuale degli intellettuali e degli amministratori pubblici di professione che mirano ad un ruolo dirigente. Come tale, tuttavia, il keynesismo è morto e sepolto, giustiziato dalla stagflation degli anni ’70 in cui le politiche keynesiane fallirono clamorosamente venendo da allora percepite –loro e il loro creatore, l’amministrazione pubblica- come causa invece che come soluzione dei problemi economici. Esecuzione ripetuta in un clamore assai maggiore con il crollo dell’URSS e del blocco dell’Est (fenomeno storicamente immane, tanto grande quanto totalmente rimosso dalla memoria di sinistri e ultrasinistri !). Da quando è finito il keynesismo, nell’ultrasinistra intellettualoide, specialmente in quella noglobal e in quella rispettabile in genere, quella che viene ospitata dai media, sono diventati tutti quanti keynesiani. È solo il modo presente, l’ultima parola del permanente cercare di stare à la page nel mare magnum della sinistra. In altri termini, l’ennesimo esempio del suo patetico irrilevante opportunismo elitaristico da salotto.

 

2. Bellum omnium contra omnes

Anche riguardo al ruolo del Pentagono Modugno dimostra di conoscere ben poco delle profonde trasformazioni che ha subito. Nell’ultimo decennio, a cavallo tra l’amministrazione Clinton e Bush jr assistiamo ad un fenomeno che non ha precedenti: l’outsourcing . Come tutti i settori pubblici anche quello militare vede un inesorabile tendenza verso le privatizzazioni. Vengono appaltate ad imprese private attività che in passato venivano svolte direttamente dai militari e, nonostante l’opposizione di una parte dei generali del Pentagono, questo processo di “ristrutturazione”, con lo smantellamento di basi militari e di appalti per le attività di servizio (mense, lavanderie, manutenzione, scuole militari, addestramento e quant’altro), è stato avviato formalmente per accelerare i tagli alle spese che ormai tutte le amministrazioni sono costrette a fare, ma in sostanza perché dietro le privatizzazioni c’è sempre il business. Infatti se gli amministratori della California hanno certamente guadagnato dalla privatizzazione della distribuzione di energia speculando in borsa non si vede perché qualche banda del Pentagono non possa guadagnare qualcosa dalla gestione degli appalti (cosa regolarmente verificatasi). A tale proposito ho cercato di darmi una spiegazione del conflitto in Iraq attraverso uno scritto La distruzione creativa che verrà inserito nel sito www.countdownnet.info e spero pubblicato. Possiamo quindi arrivare alla logica conclusione che i conflitti degli ultimi decenni non sono altro che specchietti per le allodole utili per giustificare qualche finanziamento in più per il Pentagono e tangenti ottenute da imprese senza scrupoli legate a settori del Pentagono stesso. Non è certo il Presidente Bush quindi che continua a cercare nemici ovunque ma la Banda dei Rumsfield, Wolfowitz, Perle, Feith ed altri che hanno ricattato l’amministrazione americana e l’hanno guidata come un bambino ai primi passi verso avventure che possano garantire a loro stessi (ed al loro uomo a Washington Dick Cheney) guadagni consistenti. Le direttive che programmano la privatizzazione dei servizi e delle imprese pubbliche collegate alla difesa sono state espresse ufficialmente nel documento Official Look at Privatizing Utility Services del 2002. Ad esempio, l’Aeronautica statunitense annovera 650 imprese e due terzi di esse verranno privatizzate entro il 2005. Rumsfield ha dichiarato che 230.000 posti di lavoro nel Complesso Militare verranno trasferiti ai civili nonostante l’opposizione dei massimi gradi dell’Esercito. Come riferisce James Kitfield, già dal 1995 il presidente Clinton aveva approvato la chiusura o la ristrutturazione di 105 basi militari con la conseguente licenziamento di decine di migliaia di lavoratori. Il Presidente si era preoccupato immediatamente di chiudere due grandi basi dell’aeronautica militare la McClellan Air Force Base di Sacramento e la Kelly Air Force Base a San Antonio in California (con la perdita di 19.372 posti di lavoro tra civili e militari impiegati) ed altre in Texas procurando non pochi problemi politici al partito democratico in quegli stati. Secondo il Dipartimento della Difesa, le infrastrutture delle basi militari americane sono diminuite solo del 21% a partire dal 1989, mentre la perdita di posti di lavoro nello stesso periodo è stata del 32%. Le spese complessive della Difesa sono diminuite del 35% e le spese per approvvigionamenti del 56%. Tra il 1994 ed il 2002 il Dipartimento della Difesa ha stipulato più di 3000 contratti con imprese americane per complessivi 300 miliardi di dollari tra le quali la Hulliburton, con la sua divisione Brown & Root collegata al vice presidente Dick Chaney, si occupa della logistica in tutte le forze armate e, come riporta Fortune , oggi molti americani hanno nei loro portafogli titoli di imprese collegate con il Complesso Militare mentre l’ Economist ha definito l’ultimo conflitto iracheno “la prima guerra privatizzata”. Non si conosce il numero delle PMC (Private Military Companies) , secondo alcuni analisti sarebbero 20 le PMC che lavorano “legittimamente” per il Pentagono tra le quali la MPRI che vanta 25 milioni di dollari all’anno guadagnati in “affari d’oltreoceano” ed il valore delle azioni di alcune compagnie di sicurezza private del tipo PMC agli inizi del 2000 è raddoppiato rispetto alla media dell’indice Dow Jones degli anni 90. E chi ci guadagna da tali speculazioni? Non è certo l’economia americana a ricevere uno stimolo verso la crescita ma le entrate della banda del Pentagono che gestisce il business. Prima che iniziassero i primi bombardamenti su Bagdad il Pentagono aveva già stipulato una serie di contratti con la Cubic che riguardavano gli esplosivi, l’elettronica ed i rifugi per i militari durante il conflitto, la Hulliburton un contratto da 7 miliardi di dollari per il controllo e la distribuzione del petrolio iracheno. La Bechtel avrebbe il controllo della distribuzione dell’acqua, la ristrutturazione del porto di Umm Qasr, la ricostruzione di scuole, ospedali, la gestione dei trasporti ecc ma a tutt’oggi nulla è stato ancora realizzato. La Research Triangle Institute (RTI) ha stipulato un contratto per 168 milioni di dollari l’anno per preparare nuovi manager, amministratori e politici in Iraq, inoltre la RTI si occuperà della riorganizzazione del sistema dell’istruzione nel paese. La presenza di compagnie private nell’ultima aggressione contro l’Iraq non ha precedenti nella storia ed è addirittura superiore a quello della cosiddetta I° guerra del Golfo nella quale il numero delle imprese a contratto erano una ogni cinquanta-cento soldati, attualmente il rapporto è una ogni dieci. Certo che tale “guerra” appare come infinita (anche se è già finita perché il business non è andato così bene come si prevedeva per quella cocciuta guerriglia interna che si oppone alla ricostruzione), ma la strategia distruzione per la ricostruzione fa parte dell’obiettivo più generale di “far soldi comunque e presto visti i tempi che corrono”. Non è la guerra in se o la ricostruzione in se che provocano chissà quali dinamiche politico economiche ma possono essere semplicemente utili per ricavarne qualcosa, domani … si vedrà. Infatti se ci fosse una “strategia da guerra infinita” non si capisce come mai Rumsfield e soci non insistano più nell’accusare l’Iran, la Siria e l’amatissima Corea del Nord di costituire una minaccia per la civiltà occidentale. I teorici dell’Impero saranno delusi da un comportamento del genere. In fondo un Impero che si rispetti deve anche essere pronto a dure battaglie ma per la vittoria. Purtroppo questo tanto esaltato Impero americano ne ha vinte poche di guerre dopo la IIGM ed oggi in Iraq non vede l’ora di mollare la patata bollente. Ma veniamo all’altro luogo comune: La vendita di armi.

Modugno fa riferimento a ricerche sul mercato delle armi fatte da alcuni commentatori nostrani. È vero che la produzione di armi è aumentata nel corso degli ultimi anni (ben prima dell’11 settembre) ma Modugno non è a conoscenza del fatto che l’industria bellica nel suo complesso ha subito una trasformazione a partire dagli anni 90 a causa del declino più sostenuto nella domanda di armamenti dalla fine della guerra fredda e dopo la fase di crescita degli anni 80, la produzione è caduta in tutti i paesi maggiori produttori di armi. A partire dalla metà degli anni 90 abbiamo assistito alla ristrutturazione del settore provocata dall’aumento della competitività tra le maggiori imprese produttrici che ha portato a concentrazioni, internazionalizzazioni e privatizzazioni. Ma se a partire dalla fine del 2000 questa fase di declino è terminata in paesi come la Germania, la Francia e gli USA, tale tendenza verso le acquisizioni ha determinato un aumento di capitale in imprese come la Lockeed Martin che ha acquistato la tedesca Howaldts Deutche Werth (HDW) o la Carlyle che ha acquisito la britannica Quinetic con conseguenti ristrutturazioni finalizzate alla diminuzione dei costi, ma tutto questo col semplice obiettivo di far innalzare il prezzo dei titoli secondo un meccanismo ormai cementato nell’economia americana ed anche europea. Strano che in questa presunta ondata di ripresa economica americana grazie al mercato delle armi la General Motors si sia ritirata dal settore vendendo la GM Defense alla Ratheon. Ciò che nessuno vuole prendere in considerazione è il campo minato della finanza con le sue dinamiche speculative che il vecchio marxismo non è mai stato in grado di analizzare (ma nemmeno si è mai sforzato di farlo). Acquisizioni, concentrazioni, privatizzazioni con le conseguenti ristrutturazioni sono le dinamiche che caratterizzano tutti i settori che ormai stanno da tempo reinvestendo i loro profitti nel settore finanziario, tendenza questa che non ha risparmiato sia il settore della produzione di armi sia il Complesso Militare Industriale sotto l’egida della banda del Pentagono. A questo punto sorge ancora una volta il dubbio, ma chi ha veramente orchestrato l’11 settembre?

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Note
1 Dopo l’11 settembre vi è stato un recupero del rapporto spese militari/Pil pari allo 0.78% del Pil, dal minimo 3.76% del quarto trimestre del 2000 al 4.54% del quarto trimestre del 2003. Per ora questo recupero è inferiore di circa un terzo all’aumento del rapporto spese militari/Pil nei primi tre anni dell’amministrazione Reagan, che pure partiva da un livello quasi doppio di spese militari in relazione al Pil. Negli ultimi vent’anni gli occupati nel settore della difesa statunitense sono in pratica dimezzati. Un sondaggio condotto qualche anno fa in Italia arrivava alla conclusione che le tesi contenute in libri e/o articoli di autori con nome inglese erano credute tre volte di più delle stesse tesi formulate in opere di autori con nome italiano.
2 II Guerra Mondiale a parte, naturalmente. Suggerisco a Modugno, se vorrà rispondere a quanto qui si sostiene, di usare appunto l’esempio della IIGM; avrà così modo di accorgersi che il meccanismo mediante il quale l’espansione della produzione bellica ha portato ad un boom non è minimamente quello che egli immagina. Oppure vi sarà modo di scrivere una risposta su di un fenomeno assai istruttivo.
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