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Reportage dal Kurdistan iracheno

Interviste raccolte dai corrispondenti di Radio Onda d'Urto e Infoaut

Prosegue il lavoro di inchiesta e reportage dei nostri corrispondenti in Medio Oriente: i compagn* si trovano ora in Iraq nella zona del Kurdistan Basur, ovvero nei territori che rientrano sotto il Governo Regionale del Kurdistan nel nord dell'Iraq (il Krg).

Di seguito proponiamo una raccolta (in continuo aggiornamento) di tutti i contributi, gli aggiornamenti, le interviste e gli approfondimenti realizzati dai nostri corrispondenti

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Il Pkk sugli attacchi di Lice e Ankara: “Il popolo curdo ha diritto di difendersi”

Iraq 1In un'intervista rilasciata ai corrispondenti di Infoaut e Radio Onda d'Urto in Iraq (che nei prossimi giorni pubblicheremo in versione integrale), il comandante delle forze armate del Pkk nell'area di Mosul, Cemal Andok, ha commentato così l'attacco esplosivo che ha causato decine di vittime nell'esercito turco ad Ankara (capitale della Turchia): “Il Pkk è estraneo a questo attacco, ma esso è il risultato della crudeltà del governo di Ankara nei confronti dei civili e delle città curde del Bakur [regione curda della Turchia sud-orientale, Ndr]”.

A poche ore di distanza dall'attacco di Ankara c'è stata un'altra azione di sabotaggio nei pressi di Lice. Sull'autostrada tra Bingöl e Diyarbakir, principale città del Bakur, un veicolo delle forze turche è stato fatto saltare in aria facendo sei morti tra i soldati.

“I curdi non possono stare a guardare mentre Erdogan uccide impunemente centinaia di civili e ne brucia i cadaveri, incendiando case e palazzi e soffocando o bambardando le persone nelle cantine”, ha continuato Andok. “I curdi, con questi due attacchi all'esercito, hanno provato a rispondere all'attacco della Turchia. Esiste un diritto curdo di rispondere agli atti di guerra e a proteggersi, combattendo tanto lo stato islamico quanto gli altri nemici”.

Nella giornata di ieri una rivendicazione dell'attacco di Ankara è arrivata dal gruppo Tak, “Falchi del Kurdistan per la Libertà”. Il comandante del Pkk ha fatto presente che “esistono molte organizzazioni che si battono per la causa curda e per la libertà curda, ad esempio Tak. Non c'è relazione militare tra Pkk e Tak, ciò che ci unisce è l'essere curdi”. I Tak, che avevano già rivendicato un'esplosione su un aereo della Turkish Airways all'areoporto Sabiha Gokcen di Istanbul alcune settimane fa, hanno dichiarato nel loro comunicato che l'azione di Ankara “è una risposta al massacro perpetrato dall'esercito a Cizre. Il silenzio su ciò che sta accadendo a Cizre è complicità”.

Il comunicato dei Tak prosegue identificando l'attentatore morto nell'azione di Ankara con Abdulbaki Sonmez, nato nel 1989 nella provincia di Van (Turchia orientale), combattente curdo dal 2005 e dal 2011 membro della loro organizzazione, e annunciando che la lotta proseguirà fino alla conquista della libertà per tutto il Kurdistan. In un primo tempo il governo turco aveva tentato di attribuire l'azione a un profugo curdo siriano presunto appartenente alle Ypg del Rojava, nel chiaro intento di giustificare atti di guerra contro i combattenti curdi in quella regione.

L'attacco di Lice è stato invece rivendicato dall'HPG (formazione armata del PKK) come risposta ai massacri che le forze speciali hanno perpetrato in queste settimane a Cizre, Sur e İdil.

Cemal Andok ha concluso l'intervista rilasciata ai nostri corrispondenti ricordando che “i curdi stanno colpendo obiettivi militari, non civili” e che “tutte le organizzazioni curde – dai Tak al Pkk, passando per il Pdk e l'Upk, hanno diritto di proteggere il popolo curdo”.

 

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Intervista al Pyd in Iraq: “La Turchia è un problema per il medio oriente. L'Arabia Saudita? Stia lontana dalla Siria”

IMG 20160225 WA0004Incontriamo il responsabile del Pyd in Iraq, Garip Huso, e il suo collaboratore Alan Slivi, nell'ufficio che il partito ha aperto a Suleimaniya, nella cosiddetta “zona verde” del Kurdistan iracheno; quella a sud di Erbil, controllata dai Peshmerga dell'Unione Patriottica del Kurdistan. Il Pyd è il partito curdo siriano, ispirato alle idee di Abdullah Ocalan, che ha contribuito maggiormente alla costruzione dell'autonomia di fatto che oggi vive il Rojava, la striscia di terra a maggioranza curda nella Siria settentrionale. Le sue forze armate, le Ypg/Ypj (unità di protezione popolare maschili e femminili) hanno impressionato il mondo per la loro tenacia nella guerra contro lo stato islamico, che controlla la striscia siriana lungo l'Eufrate, subito a sud del Rojava contro cui è in guerra.

Il Pyd è l'anima politico-teorica da cui si sono originate le Ypg/Ypj, l'organizzazione che tenta, oggi, di sviluppare relazioni politiche sul piano internazionale per contribuire al riconoscimento generale della rivoluzione in corso in Rojava, che appoggia e difende. Nel Rojava non esiste soltanto il Pyd: esistono molti altri partiti, tra cui un partito nazionalista vicino al Pdk iracheno di Massud Barzani, magnate curdo del petrolio protetto da Usa e Turchia. Tra i due partiti ci furono attriti nel 2012, all'atto del ritiro dell'esercito siriano dal Rojava, che furono superati grazie alla mediazione di Pdk e Pkk. Le Ypg, in quanto braccio armato del Pyd, inoltre, detengono la leadership militare dell'alleanza di guerra che ha condotto, in Siria, alla formazione delle Forze Democratiche Siriane (Fds), al momento supportate dal cielo tanto dagli Stati Uniti quanto dalla Russia. Limitatamente agli sforzi contro lo stato islamico, e per alcune questioni logistiche (ad es. gli areoporti) esiste anche un teso coordinamento di massima con il governo Assad.

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Il Pyd è oggi uno dei principali e più influenti partiti del Kurdistan. A quali principi si ispira la sua prassi politica?

Il primo principio è la lotta. L'obiettivo della lotta è il confederalismo democratico in Siria, dal momento che questa è l'unica soluzione possibile per la convivenza di curdi, assiri, turcomanni e arabi. Questo è il futuro che vuole il nostro partito. Il secondo principio è l'uguaglianza. Nel nostro partito gli uomini e le donne hanno lo stesso ruolo. Non soltanto ogni carica prevede un rappresentante maschile e uno femminile che condividano le responsabilità, ma in ogni settore dell'organizzazione le donne sono libere di assumere funzioni direttive e di impegnarsi ad ogni livello, sia esso il piano militare, quello diplomatico, sociale, economico e così via. Lo stesso vale per i giovani. L'uguaglianza delle donne e dei giovani all'interno del partito è sintomo del nostro sguardo rivolto al futuro.

Il terzo principio è la pluralità interna. Il Pyd non è un partito per i curdi: chiunque, anche chi fa parte di una minoranza del Rojava (arabi, siriaci, armeni, ecc.) può farne parte. Il Pyd è diverso sotto ogni punto di vista da tutti gli altri partiti del Rojava, e in particolare si distingue per la sua ideologia e per la sua democrazia interna. La costruzione di un sistema nazionale e democratico in Rojava, dove tutte le popolazioni e comunità del Rojava siano coinvolte, è il nostro obiettivo; e nonostante la nostra differenza profonda con gli altri partiti, la nostra strategia e di relazionarci con tutti.

 

Quanti sono, attualmente, i partiti politici del Rojava?

Sono sedici. Se posso fare una battuta, da quando in Siria c'è la guerra, i partiti nascono come funghi. Ognuno vuole fondare il suo partito!

 

In questi giorni la Turchia sta bombardando ad Azaz e in altre località del Rojava. Come commenta questo genere di iniziativa?

La Turchia ha da tempo reso nota quale, secondo lei, è la linea rossa per i curdi nella guerra civile siriana. I curdi, secondo l'opinione della Turchia, non possono oltrepassare l'Eufrate verso ovest. Ora che le Ypg hanno oltrepassato il fiume, la Turchia ha preso a bombardare il cantone occidentale di Afrin, che è territorialmente isolato dal resto del Rojava autonomo e confina su due lati con la Turchia. Anche i villaggi intorno ad Afrin vengono bombardati, ciò che sta causando la morte di moltissimi civili.

Questa azione da parte della Turchia è la più palese dimostrazione del suo supporto alle forze terroristiche in Siria. Quando le Ypg hanno liberato migliaia di altre città e villaggi, la Turchia non ha bombardato. Ora, però, hanno liberato Azaz, oltre l'Eufrate, e cominciano i bombardamenti. Perché? Forse perché tra l'Eufrate e Afrin esiste un corridoio attraverso cui lo stato islamico può rifornirsi di armi e uomini dalla Turchia?

Prendete Mosul, in Iraq. Ora tutti vogliono liberare Mosul dall'Is. È forte l'Is a Mosul? Basta che le Ypg chiudano il canale che la Turchia sta bombardando per tenere aperto, tra l'Eufrate e Afrin, e l'Is a Mosul perde ogni forza. La Turchia è un problema per tutta la regione: lo è per l'Iraq come per la Siria.

 

Anche l'Arabia Saudita dice di voler intervenire in questa guerra.

Da quando la Turchia ha cominciato a bombardare Azaz, ha chiesto aiuto all'Arabia Saudita, ma i sauditi non sono abbastanza forti per intervenire. Finanziano i terroristi, ma sarebbe stupido da parte loro mettere piede in Siria. Persino l'Università Araba del Cairo ha sconsigliato all'Arabia Saudita di fare questa mossa. Sarebbe stupido non ascoltare.

 

Crede che l'atteggiamento aggressivo della Turchia porterà a un impegno turco ancora superiore?

Ora la Turchia bombarda, ma l'opposizione al parlamento di Ankara dice: “Non entriamo in Rojava”. Un esercito può anche essere forte, ma è debole se all'interno il suo paese è diviso. La Turchia non bombarda soltanto Azad, ma anche Al-Bab e Jarablus. Questo perché se perde il controllo indiretto di tutto il lato meridionale del confine con il Kurdistan siriano, per il governo turco è un problema. Non soltanto non avrebbe più un canale d'ingresso per le milizie che appoggia e per il suo stesso esercito, ma anche i contraccolpi sull'opinione pubblica interna non sarebbero indifferenti.

Occorre capire che le città oggi ancora sotto il controllo dei terroristi in Rojava, tra il cantone di Kobane e il cantone di Afrin (Jarablus, al-Bab, Safira, Azaz, Mumbic) – la regione detta di al-Shahba – ha un suo congresso e una sua discussione politica. Lo so perché io stesso ho lavorato nel congresso di al-Shahba. Questa regione ha anche le sue forze armate, l'Esercito della Libertà o Freedom Forces. La popolazione della regione di al-Shaba è tutta sunnita, composta da curdi, arabi e turcomanni. Il Pyd appoggia questo congresso e gli offre aiuto: è un processo democratco che unisce le persone, un'esperienza positiva, dove uomini e donne sono protagonisti. Questa gente non vuole l'ingresso della Turchia.

 

Che cosa pensa il vostro partito del ruolo degli Stati Uniti, della Russia, dell'Unione Europea?

Tutti vengono qui e ci chiedono se appoggiamo gli Stati Uniti o la Russia. Nessuno ci chiede se Stati Uniti e Russia appoggiano noi. La Russia combatte l'Is, così gli Stati Uniti, così il Pyd. Sul campo, però, c'è soltanto il Pyd. La Russia o gli Stati Uniti non hanno uomini sul terreno. Russia e Stati Uniti non appoggiano il Pyd, combattono l'Is. Si rapportano con noi perché siamo forti sul campo; se fossimo deboli non ci sosterrebbero mai.

 

Pochi giorni fa alcuni media italiani hanno dato la notizia dell'apertura di un ufficio del Pyd a Mosca.

Non è un ufficio del Pyd, ma del governo autonomo del Rojava. Tutti dicono che è del Pyd, ma non è vero. È una cosa assolutamente positiva: la Russia è il primo paese europeo ad ospitare un ufficio del Rojava. È un evento storico importante, ed è anche un messaggio al resto dell'Europa. Sarebbe bello che anche altri paesi europei facessero proprie simili iniziative.

 

In questi giorni hanno luogo duri attacchi dell'esercito israeliano in Palestina, dove la popolazione porta avanti una diffusa resistenza. Quale messaggio si sente di mandare ai palestinesi?

I palestinesi sono persone che apprezziamo, e sono persone forti. Hanno il diritto all'autodereminazione come tutti i popoli. Un tempo, tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta, i giovani militanti curdi andavano in Palestina, lavoravano negli uffici palestinesi. Yasser Arafat è stata una figura democratica importante. Il Pyd ama la libertà dei popoli, non importa se arabi, curdi o altro.

Alcune figure di al-Fatah, in passato, hanno detto cose poco gradevoli sui curdi, come ad esempio che tutti i paesi arabi dovrebbero sterminarli (mi riferisco, in particolare, al leader di Fatah Saeb Erekat). Questo è spiacevole. Noi amiamo anche gli israeliani, perché amiamo tutti i popoli, benchè non amiamo i loro governi. La gente potrebbe vivere insieme, sono i governi che sbagliano.

 

Oggi uno dei principali problemi di comunicazione tra lotta palestinese e curda sembra essere proprio la situazione in Siria. La sinistra palestinese sostiene il governo di Assad, ad esempio, ciò che in qualoche modo la pone in contrasto con il vostro movimento.

Il padre di Bassar al-Assad, Afez al-Assad, creò un sistema di supporto per i palestinesi, tanto del Fronte Popolare quanto di Fatah. Tuttavia, Assad ha usato la questione palestinese per i suoi obiettivi politici e militari. Analogamente all'Iraq, la Siria ha usato la questione palestinese per attaccare politicamente Israele, ma per i propri fini. Assad parla sempre dei palestinesi, ma stranamente si dimentica della provincia di Antakia (Antiochia), dove vivono gli arabi alawiti [confessione religiosa cui lui stesso appartiene, Ndr] che gli accordi di Sykes-Picot hanno inopportunamente assegnato alla Turchia. Perché?

Analogamente, l'Iraq insiste sulla questione palestinese, ma si dimentica dell'Arabstan iraniano e di tante altre cose. Perché? La verità è che né la Siria, né altri regimi arabi possono liberare la Palestina. I paesi arabi sono ventidue: perché non fanno nulla di concreto? Usano la questione palestinese, nient'altro; e sono gli stessi regimi che dicono che i curdi sono come Israele…

 

Pochi giorni fa abbiamo intervistato il politico palestinese Mustafa Barghouti. Quando gli abbiamo chiesto quale messaggio volesse mandare alla sinistra curda, ha detto: “Di essere molto prudenti con Israele”…

Posso rispondere con uno scherzo: dite a Mr. Barghouti di essere molto prudente con la Siria!

 

C'è un messaggio che vuole rivolgere all'Italia?

I curdi vedono gli italiani come amici. Gli italiani hanno aiutato i curdi, anche quando Ocalan era in Italia c'è stata una mobilitazione per lui. Il popolo italiano è nel mio cuore.

 

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Iraq: voci da un paese distrutto

IMG 20160225 WA0005“Perché l'America è venuta a distruggere il nostro paese? Perché non ci lasciano in pace? È per il petrolio. Allora, che si prendano pure tutto il nostro petrolio, ma basta armi! Basta armi!”. Un signore di Baghdad sforza tutta la sua competenza nell'inglese per lanciare il messaggio accusatorio che, in Iraq, tutti rivolgono agli occidentali. Dicono “l'America” per gentilezza e per semplificazione, perché a nessuno sfugge, qui, chi ha fatto cosa; e l'Italia c'è stata e c'è dentro fino al collo. Dopo l'appoggio di Berlusconi (con l'avallo del Pd) alla terribile invasione di terra (e ai criminali bombardamenti) del 2003, dopo la partecipazione dell'Italia all'occupazione (do you remember Nassiriya?), e dopo il ruolo ambiguo nella situazione attuale, qualsiasi europeo o nordamericano che si trovi in questo paese deve rendere conto non tanto di quel che pensa, ma di chi è e da dove viene.

“Baghdad no good for you” ci avvisa un compagno siriano; e aggiunge: “Also no good for Kurdish”. Nessuno ci porterà a Baghdad, dice, se non vuole farci del male. Tredici anni di guerra, disperazione e sangue portati dall'occupazione e dalle sue conseguenze fanno di Baghdad un luogo dove gli occidentali non sono accettati in quanto tali, pena il rapimento o il linciaggio. Hassan si presenta, viene da Bassora, nel sud sciita controllato dal governo centrale, a pochi chilometri dal Kuweit. Appartiene alla minoranza sunnita nella città, per questo ha acquistato una casa a Erbil, per rigugiarvisi quando in città le milizie sciite (“gente ignorante”, dice) “creano problemi”. Ora è a Erbil per chiedere il visto per gli Stati Uniti: sua figlia è dottoranda all'Università di San Diego, e vuole andare a trovarla; degli altri due figli, uno è soldato e l'altro ingegnere. Lui ha scritto quattro di libri di racconti, e ritiene che Saddam Hussein fosse un buon presidente, “perché aveva aperto l'Iraq a tutto il mondo”. Poi però ha commesso degli errori, aggiunge: “La guerra all'Iran, l'opposizione all'Arabia Saudita, l'invasione del Kuweit”.

Ci invita a raggiungerlo a Bassora quando vogliamo: “A Bassora i miei occhi saranno aperti per voi”. Nur, anche lei araba, lavora a Erbil come receptionist. Alle 12.00 si nasconde interamente sotto il velo per seguire la preghiera che giunge ad alto volume dalla moschea di fronte al suo luogo di lavoro. Anche lei si è trasferita con la sorella Ofran da Baghdad tre mesi fa: “La situazione, a Baghdad, non è buona”. Tiene in braccio il suo bambino: è sciita, anche se lei è sunnita, perché è sunnita il padre. Le diciamo che la loro coppia appare inconsueta a chi sente da lontano le notizie che arrivano dalla sua città, dove sembra infuriare un conflitto terribile, da anni, proprio tra sunniti e sciiti. “No, non è tra sunniti e sciiti: è soltanto tra alcune persone, non tra tutti”. “Tutti i nostri problemi derivano dall'America – si intromette Mahmud, anche lui di passaggio a Erbil, anche lui di Baghdad – Prendi l'Isis: all'inizio pensavo fosse prodotto dalla religione, poi ho capito che è prodotto dall'America”.

Quando gli chiediamo da dove viene, si fa quasi aggressivo. “Sono stato in Finlandia. Non mi è piaciuta, e sai perché? Perché amo il mio paese. Io sono di Baghdad, sono di qui, sono iracheno. Tutte queste persone che vedi attorno a me sono iracheni, siamo tutti iracheni”. Si crea un certo imbarazzo. Uno dei ragazzi nella stanza è di Baghdad ed è arabo, ma gli altri due sono curdi e vengono dal Rojava. Nessuno risponde a Mohamed, che esce fuori a fumare una sigaretta, un po' nervoso. Shiar, come il collega che gli passa il té, sta a Erbil da due anni. Sono rifugiati provenienti da Qamishlo, subito dopo il confine con la Siria. “Non è facile, la nostra vita. Siamo andati all'ufficio delle Nazioni Unite a Erbil, e abbiamo ottenuto lo status di rifugiati, per cui possiamo restare; ma il governo curdo iracheno non ci fornisce carta d'identità, forse ce la darebbe tra cinque o sei anni. Possiamo lavorare ma non studiare, né sposarci”.

Shiar dice di voler “cambiare mondo”, di non voler più stare “in questo mondo”. “Vorrei andare in Europa, ma l'unica via è la Turchia, poi via mare verso la Grecia. È pericoloso. Tanta gente sta morendo in mare”. Chiede informazioni su come avere il visto, ma rimane deluso quando apprende che, una volta scaduto quest'ultimo, se mai riuscisse ottenerlo (ed è praticamente impossibile), potrebbe facilmente ritrovarsi clandestino. L'idea di nascondersi tutta la vita dalla polizia, o di restare disoccupato perché nessuno lo assume, non lo alletta più di tanto. “Ora che la Siria è in guerra, tutti nel mondo dicono che non vogliono i siriani; ma quando in Siria c'era la pace, e si stava bene, dicevamo a tutti quelli che arrivavano, anche dall'Europa: welcome, welcome, you're welcome”. Più che rabbia, il suo tono espime tristezza. La prima cosa evidente, qui, è quanto poco le persone abbiano interesse ad intavolare conversazioni politiche, a dire o sentire belle frasi come “i governi sbagliano” o “i popoli sono diversi dai governi”. Qui tutti sembrano troppo presi dall'urgenza di mettersi in salvo in un modo o nell'altro; e per iracheni o siriani, la reazione spontanea a termini come “politica” o “governo” sembra essere di pura paura.

Essere in un paese che il nostro stato ha contribuito a distruggere, oltre ad essere comprensibilmente pericoloso, è imbarazzante. Oggi di Iraq si parla soltanto in ragione dell'esistenza dell'Isis, perché l'Isis ha ucciso dei giornalisti statunitensi e ha massacrato centinaia di persone a Parigi. Tra il 2006 e il 2014, però, di Iraq non si è più parlato: cosa avvenisse in questo paese è rimasto un mistero, e non ha interessato l'opinione pubblica che intanto godeva dei proventi degli ottimi “accordi” petroliferi (se si può parlare d'accordo durante un'occupazione militare) che i paesi occupanti concludevano con le autorità posticce che avevano collocato nelle istituzioni locali (l'Eni italiana, in particolare... a Nassiriya). La resistenza araba all'occupazione condusse gli Stati Uniti, nel 2006, a concludere che il paese era ingovernabile. I think tank che avevano previsto, con la rimozione di Saddam, la stessa accoglienza all'American Way of Life che avevano apprezzato nell'est Europa nel 1989-91, avevano sbagliato.

Da allora, e soprattutto dopo l'arrivo di Obama alla presidenza (2009) è iniziata l'exit strategy americana da un pantano tanto più grave perché difficilmente comprensibile alla mentalità occidentale, laica o cristiana che fosse. Gli Stati Uniti, l'Inghilterra, l'Italia non hanno avuto, nel corso degli anni, in questo paese, che gli occhi del colonizzatore. Quando, nel caos della guerra all'occupazione, la guerriglia sciita di Moqtada al-Sadr (protagonista, nel 2004, dell'incredibile difesa della moschea di Najaf contro gli americani) produsse forme di autodifesa autonoma nelle città sciite, il leader al-Sistani si fece mediatore delle istanze sciite tanto con gli Stati Uniti quanto con l'Iran. La guerriglia sunnita basata a Falluja, Ramadi e Tikrit, oltre che a Baghdad, rivolse allora le proprie armi contro gli sciiti stessi, accusati di voler costruire un nuovo stato sotto l'ombrello statunitense. A capo della resistenza sunnita c'era il leader di al-Qaeda in Iraq Abu Musab al-Zarqawi, che aveva marginalizzato la guerriglia maggiormente laica legata al deposto governo di Saddam Hussein.

Gli Stati Uniti e l'Inghilterra tentarono di cavalcare lo scontro confessionale pensando che lo slogan “divide et impera” fosse sempre facile da applicare; ma la guerra tra resistenze diventò guerra civile con migliaia di morti, e la presenza statunitense continuò a patire le sue vitime e ad essere vista dalla popolazione come l'origine di tutte i mali, mentre i media occidentali distoglievano i riflettori dal paese. Nel 2011 gli Stati Uniti ritirarono le truppe, lasciando soltanto alcune migliaia di uomini per “addestramento” dei soldati iracheni e curdi e qualche squadra speciale. L'Italia lasciò 200 militari accanto all'areoporto di Erbil (forse perché potessero scappare più in fretta in caso di mala parata).

Il giorno stesso della partenza statunitense, il presidente sciita al-Maliki fece arrestare il presidente sunnita del parlamento. Fu l'inizio del saccheggio di stato dell'economia e della società di tutte le città a maggioranza sunnita, che nel frattempo avevano combattuto armi in pugno contro i militanti di al-Qaeda, riuscendo quasi ovunque a cacciarli. Tre anni dopo, quando le milizie dello stato islamico fecero ingresso in quelle stesse città, sterminando i soldati sciiti e crocifiggendo (oltre a chiunque infranga i dettami del corano) i funzionari corrotti del governo di Baghdad (dove, nel frattempo, quasi tutta la popolazione sunnita era stata espulsa in campi profughi della provincia di al-Anbar) molti le accolsero come un'armata di liberazione. Da allora il vessillo dell'Is sventola su Ramadi e Falluja, come su Mosul, dove il potere è amministrato dai consigli cittadini della Sharia. L'esercito ormai completamente sciita del governo centrale combatte a Ramadi, ottenendo un fragile controllo della città (nessuno può realmente sapere, al momento, a prezzo di quali soprusi sulla popolazione).

Questo paese sprofondato nell'odio, suddiviso in mille micro-stati di fatto indipendenti, spartito tra milizie, ideologie confessionali e spartizioni di denaro e potere, era un tempo un paese certo pieno di problemi, ma che la popolazione avrebbe probabilmente voluto e potuto, con il tempo, affrontare da sola. “Governato”, a tredici anni dall'invasione a stelle e strisce, dalla fazione irachena più vicina all'Iran (gli sciiti) è esempio lampante del carattere politico proprio del mondo contemporaneo, dove il controllo sociale è impossibile se non a prezzo della parcellizzazione gangsteristica della società. La condiscendenza sostanziale, benchè velata, degli Usa verso lo stato islamico in Iraq è l'ultima testimonianza del fallimento delle forme classiche del loro dominio, forse la prima delle forme angoscianti che essa ha avuto e dovrà assumere. Daesh – come qui tutti lo chiamano – è l'ultimo argine e l'impresentabile elemento di dissuasione per l'influenza irachena di Teheran, e l'ennesimo regalo dei nostri governi a una popolazione che avrebbe potuto esserci amica.

 

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Kurdistan: chi appoggia il governo italiano?

300x01408545821204renzi2Le condizioni delle centinaia di persone intrappolate nel quartiere storico di Sur, a Diyarbakir, dove edifici antichissimi, protetti anche dall'Unesco, sono stati distrutti dai carri armati turchi, sono disperate. “Non riusciamo più a respirare” sono gli ultimi dispacci inviati via twitter o wapp. A Cizre l'esercito spara anche agli sfollati che tentano di tornare nelle loro case, in una città ormai completamente rasa al suolo. I profughi non trovano pace neanche a Hakkari, dove le forze speciali sparano loro addosso. Non è la Siria, ma la Turchia: qui la guerra può andare avanti nel silenzio complice dell'Unione Europea, che ha troppi interessi nel difendere l'alleato turco membro della Nato, che la ricatta con i milioni di profughi pronti a sbarcare dalle sue coste sulle spiagge greche. Qui i curdi non sono “gli eroi” di Kobane, che hanno difeso le città siriane dall'espansione dello stato islamico, ma i “terroristi” del Pkk.

Peccato, però, che i combattenti di Kobane e quelli di Sur e Cizre siano proprio gli stessi: nel 2014 migliaia di giovani curdi delle città turche si riversarono a Kobane per combattere ed oggi, tornati nelle loro città, si trovano costretti a difendere famiglie e quartieri dalle brutalità del presidente Erdogan. Là coraggiosi partigiani e utili interlocutori sul terreno, per Europa e Usa, qui banditi che la Turchia può sopprimere con qualsiasi mezzo. Là protagonisti della “guerra al terrorismo”, qui “terroristi” a loro volta. L'ipocrisia di Europa e Stati Uniti non ha mai fine. Eppure, esiste un luogo dove i partiti curdi sono considerati senz'altro alleati, senza ambiguità e distinguo: è il Governo Regionale del Kurdistan nel nord dell'Iraq (Krg), il cui centro amministrativo e politico è Erbil.

Di prima mattina, a Erbil, ragazzi discretamente zarri rifiutano di considerare le sim card che stiamo comprando prodotti “iracheni”: “No Iraq, Kurdistan!”. Le loro esclamazioni non sono diverse dai giovani che ci hanno ospitato a Diyarbakir, che si rifiutavano di esprimersi in turco: “Fuck turkish, speak kurdish!”. La differenza è che, qui, i movimenti curdi di resistenza sono andati al potere. Un ministro del Krg non esita a dichiarare: “L'Iraq esiste soltanto sulle mappe. Non prendiamoci in giro. Come il finto esercito iracheno del partito al-Dawa [principale partito sciita basato nel sud, da anni al potere in Iraq, Ndr] non ha avuto interesse a difendere Mosul dall'Isil, perché è una città sunnita, così io non mi considero iracheno, sebbene purtroppo abbia ancora questa cittadinanza”. L'esercito di Baghdad e e i Peshmerga curdi continuano a scontarsi, seppur sporadicamente, nella contesa provincia petrolifera di Kirkuk, dove metà della popolazione è araba, metà curda.

Negli anni Sessanta e Settanta i curdi iracheni, guidati dal leggendario condottiero musulmano Molla Mustafa Barzani, ingaggiarono una terribile guerra contro l'Iraq, che condusse a migliaia di morti, profughi e deportati, ma il peggio doveva ancora venire: durante la guerra Iran-Iraq, negli anni Ottanta, e a margine dell'aggressione statunitense all'Iraq del 1991 (dopo la quale tanto i curdi quanto gli arabi sciiti insorsero contro Saddam), il governo di Baghdad compì un vero e proprio massacro contro la popolazione curda a nord, usando anche armi chimiche. Da tempo il partito Baath al potere aveva tentato di “arabizzare” le province curde, espellendo forzatamente migliaia di persone e insediando nel nord centinaia di migliaia di arabi; una politica non molto diversa da quella che lo stesso partito portava avanti, negli stessi decenni, in Siria, sotto la presidenza di Afez al-Assad.

Nel 1991, dopo i bombardamenti contro l'Iraq, gli Stati Uniti imposero una “no-fly zone” sulle regioni curde, che furono così liberate militarmente dal potere di Saddam Hussein. I due principali partiti curdi, il Pdk (partito democratico del Kurdistan) ereditato da uno dei figli di Mustafa Barzani, Massud, e l'Upk (unione patriottica del Kurdistan) sotto la guida del suo antagonista Jalal Talabani, si affrontarono alle elezioni del 1992 e, decretando i risultati un pareggio al 48%, si scontrarono per le montagne a colpi di kalashnikov. I Peshmerga (“coloro che guardano la morte negli occhi”, in curdo) da armata secessionista diventarono milizie di partito in conflitto tra loro. Nel 1998 Bill Clinton propiziò la stretta di mano di Massud Barzani e Talabani a Washington, e la spartizione del Kurdistan iracheno in zona gialla (Erbil e Duhok, sotto il controllo del Pdk) e zona verde (Suleimaniya, sotto il controllo dell'Upk).

Dopo l'invasione del 2003, durante la quale gli Usa delegarono all'Upk l'espulsione dei salafiti curdi di Ansar al-Islam verso l'Iran (da cui, ciononostante, sarebbero tornati), la costituzione irachena pilotata dagli Usa, nel 2005, sancì l'indipendenza delle tre province a maggioranza curda (lasciando contese molte altre aree a lingua “mista” nella vicina provincia di Niniveh). Da allora i leader dei due partiti sono diventati tra gli uomini più ricchi al mondo, gestendo in modo clanico e clientelare i pozzi petroliferi del Kurdistan, tra i più grandi del pianeta. Nelle compagnie petrolifere o del gas da loro fondate un gran numero di funzionari Usa occupano oggi posti di prestigio, assicurandosi rendite miliardarie. Non stupirà che anche l'Italia sia interessata ad appoggiare, se non i guerriglieri del Pkk che vivono a base di riso e kebab, e tengono testa all'alleato turco, questa oligarchia curdo-irachena che ha trasformato la guerra per la liberazione in un'occasione per il proprio arricchimento personale.

“Da una ragione, il Kurdistan iracheno, la cui popolazione non raggiunge i cinque milioni, si esportano 650.000 barili di petrolio al giorno. Un quinto di questa esportazione è nelle mani dello stato, eppure da mesi il governo dice di non avere i soldi per pagare dipendenti pubblici e insegnanti. Com'è possibile?” si chiede Rabun Maroof, portavoce dei parlamentari di Goran, partito d'opposizione attestato sul 25%. “Da quest'autunno continuano le proteste di ingeneri, medici, poliziotti e insegnanti senza stipendio a Erbil, Rania, Suleimaniya, Kirkuk” racconta il giornalista televisivo e attivista politico Ali Mahmoud, arrestato qualche settimana fa e liberato dopo una campagna pubblica che ha mobilitato anche il Kurdistan turco e iraniano. “Il problema è che nel Krg non esistono sindacati indipendenti, tutti i sindacati sono legati ai due partiti al potere. Formalmente c'è il diritto di manifestare, ma nella realtà i concentramenti vengono attaccati dalla polizia, e i lavoratori che parlano apertamente contro il presidente vengono immediatamente arrestati”.

Dopo il crollo del prezzo del petrolio e il dissesto finanziario dovuto ad una politica forsennata di “grandi opere” da parte del governo, in pochi anni il Krg è diventato un paese dove la gente non sa dove trovare i soldi per la cena, nonostante i prezzi bassi e l'enorme ricchezza naturale del territorio. Il governo Renzi, ciononostante, ha deciso di rafforzare l'intesa con Barzani e aumentare da 200 a 800 i soldati italiani di stanza a Erbil. Intende inoltre rafforzare la collaborazione con la costruzione di una diga a Kirkuk (lucrosa “grande opera” in terra straniera affidata ad un'impresa emiliana) a “protezione” della quale verrebbero stanziati altri 800 soldati. Avere militari sul terreno in un paese ricco ma travagliato come l'Iraq fa sempre comodo, e mantenere amicizie con autoritari petrolieri anche, poco importa se a spese di una popolazione oppressa.

Il mandato presidenziale di Barzani è scaduto nel 2013, anno in cui una risicata maggioranza parlamentare gli ha garantito due anni di estensione, «sebbene ciò fosse illegale, perché la scelta del presidente è demandata ai cittadini secondo la costituzione”, spiega Maroof. Il 20 agosto 2015 questa estensione è scaduta, e il nuovo parlamento non ne ha votata un'altra (peraltro esclusa dal secondo mandato). Allora? “Nulla, Barzani è sempre lì. Non è più legalmente, ma per lui e per il mondo è sempre presidente”. Il suo potere, non supportato né dal voto popolare né dal parlamento, si basa eslusivamente sulla forza bruta delle milizie Peshmerga a lui fedeli e sull'appoggio incondizionato che Usa, Inghilterra e Italia forniscono a una personalità che altro non è, nei fatti, che un dittatore militare.

Intanto le Ypg continuano a cercare una strada percorribile per la soluzione della guerra civile in Siria, conquistando sempre maggior territorio allo stato islamico, ma le Nazioni Unite non le invitano al tavolo dei negoziati, presieduto dal diplomatico italiano Staffan de Mistura (le cui «brillanti» capacità – per fortuna, peraltro – sono già state evidenti con la vicenda marò in India). A porre il veto è l'alleato turco, per cui le Ypg hanno la colpa di essere alleate del Pkk; dal quale, a differenza del Pdk, Unione Europea e Stati Uniti non hanno da trarre alcun interesse economico, così che può restare nella black list delle più pericolose organizzazioni terroristiche mondiali. La diversità all'interno del Kurdistan è tra chi lotta per la libertà in una società giusta e chi ha venduto la libertà al denaro e al potere; e sono questi ultimi i curdi che piacciono al governo Renzi. Per questo, e soltanto per questo, non sentirete mai parlare in Italia di queste cose, e molte vittorie di Pkk e Ypg contro l'Isis saranno attribuite a non meglio precisati «Peshmerga». Una fonte istituzionale curda che chiede di restare anonima confida: “Per tanti anni ci siamo chiesti perché tutti i giornalisti parlassero bene del Pdk; poi abbiamo scoperto che li pagavano. A Barzani i soldi non mancano, e ad ogni giornalista piace tornarsene a casa con qualche migliaio di dollari in più”.

 

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Makhmur: un'isola rossa nel deserto iracheno

IMG 20160228 WA0001La statale da Erbil scende verso il confine siriano, ad ovest; all'ultimo check point dei Peshmerga del Pdk, fedeli al presidente Barzani, i militari si dilungano al telefono con i nostri passaporti. Siamo al confine tra il Kurdistan e la terra di nessuno che lo separa dallo stato islamico, e oltrepassato il checkpoint i Peshmerga non assicurano protezione. Un segnale indica sulla destra il breve tragitto per Mosul, la più grande città controllata dall'Is. Una strada vuota, dove nessuno si immette: così appare, in Iraq, il «confine» del califfato. Poche ore prima, in quella città, un ragazzino di quindici anni è stato decapitato perché ascoltava “musica pop occidentale”; e se i Peshmerga di Barzani non si avventurano più in questa zona, nella desertica area di Makhmur, a difendere la popolazione è rimasto il Pkk: come altrove, in prima linea. Makhmur città è come un fantasma: edifici spogli o in costruzione, case disabitate, pochi bambini che giocano a calcio su una distesa di terra e detriti; ma oltrepassato il centro urbano, un check point del partito dei lavoratori del Kurdistan definisce il limite tra la città e il vibrante campo profughi che vi confina.

In una modesta abitazione una famiglia ci offre il té tra ritratti di Ocalan e dei martiti della guerriglia. Non appena il cortile si popola di abitanti del campo, siamo accolti con un misto di benvenuto e di accuse. “Non capisco perché l'Italia non fa qualcosa per aiutarci” dice un signore anziano, con l'aria di chi non si capacita di qualcosa che non riesce a comprendere. “In Europa c'è la democrazia: perché, allora, non aiutate i curdi, che lottano per la democrazia a loro volta?”. Non è soddisfatto delle nostre risposte circa il carattere poco disinteressato della politica estera italiana, e sembra convinto che attraverso noi un messaggio possa essere inviato da qui «all'Europa» - entità mitica, di cui si ha una percezione rarefatta - e magari possa eliminare un semplice fraintendimento tra persone lontane, che non sono ancora riuscite a capirsi.

Nel quartier generale del campo, dove il Pkk ha dislocato gli effettivi delle Hpg (unità di difesa popolare maschili) e Yja-Star (unità femminili), un combattente dice: “Vorremmo che le nostre relazioni con l'Italia fossero maggiormente continuative. Dev'essere un rapporto umano, per la vita delle persone; non come nel 1999, quando l'Italia ha tradito i curdi, consegnando alla Turchia Ocalan”. I militanti che gli stanno intorno arrivano da tutto il Kurdistan (Iraq, Iran, Turchia, Siria) e da tutto il mondo, dalla diaspora che ha portato i curdi in Europa, in Australia, in America. Una ragazza delle Yja-Star è interessata a comprendere la situazione politica italiana: “Non capisco perché in Italia, contrariamente a Spagna e Grecia, non ci sono state rivolte in questi anni; credo che il popolo italiano dovrebbe insorgere”. Quando chiediamo se questo panorama spoglio le faccia rimpiangere le montagne di altre parti del Kurdistan, risponde: “Anche il deserto è bello, quando c'è la guerriglia”.

Se questi scambi possono introdurre alla differenza tra Makhmur e gli altri campi profughi dell'Iraq e del mondo, la percezione di questa diversità è ancora ben lontana dalla realtà di una storia unica, quasi incredibile, così rara nella sua intersezione tra lotta, migrazione e persecuzione, e per il suo conflitto, in condizioni estreme, tra autonomia popolare e potere costituito. “La nostra migrazione dalla Turchia all'Iraq risale al 1993 – racconta un insegnante nella sede della municipalità del campo – quando la Turchia mise in campo la sua guerra contro il Pkk in Bakur [Kurdistan settentrionale, Ndr]”. L'esercito invase i villaggi delle province sud-orientali prossime all'Iran e all'Iraq e mise gli abitanti di fronte a una scelta: collaborare con i militari nella repressione del partito, essere uccisi o andarsene. “I villaggi furono incendiati, la gente perseguitata. In decine di migliaia scegliemmo l'esilio: tutti noi onoravamo il Pkk, i combattenti nascosti nelle montagne erano i nostri figli, i nostri padri, le nostre sorelle e i nostri fratelli. Tradire era impensabile”.

Oltrepassato il confine della provincia di Sirnak, i profughi giunsero nel Basur [Kurdistan meridionale in Iraq, Ndr], controllato a nord dalle milizie del Pdk di Massud Barzani, alleato di Stati Uniti e Inghilterra. L'esercito turco attraversò il confine e attaccò i profughi a Zakho, che chiesero allora all'Onu di riconoscere lo status di campo profughi al loro insediamento. La Turchia si oppose e l'Onu fece orecchie da mercante. «Fu necessario un mese intero di rivolta, anche nella forma di scioperi della fame, perché le Nazioni Unite ci promettessero di riconoscerci lo status di rifugiati». Ciononostante, dopo un trasferimento a Duhok, il riconoscimento delle Nazioni Unite non arrivò: stavolta a mettersi di mezzo furono i Peshmerga del Pdk, che nel 1992 avevano stretto un accordo a Dublino con la Turchia. I migranti si rimisero allora in marcia, fino a raggiungere la città di Bersine, dove ancora il Pdk impedì l'accesso all'Onu. Furono ancora scontri e rivolta, anche per l'assenza di acqua e cibo causati dell'isolamento imposto dai Peshmerga.

«L'Unhcr [Agenzia Onu per i rifugiati, Ndr] concesse nei mesi successivi un supporto davvero minimo, ma riuscimmo a costruire una scuola. Fu la prima volta, nella nostra vita, in cui potemmo organizzare delle lezioni in curdo”. Nel 1995 la Turchia invase nuovamente l'Iraq settentrionale (allora “no-fly zone” sotto l'ombrello Nato, dopo la guerra all'Iraq del 1991) per combattere il Pkk, e migliaia di nuovi profughi raggiunsero il campo di Bersine. Poche settimane dopo il Pdk circondò il campo e lo attaccò, facendo morti anche tra i civili. Le pressioni di Pdk e Turchia indussero l'Onu a sgomberare il campo e a programmare, nel 1996, la dispersione di tutti i suoi abitanti in zone separate e distanti tra loro. “Eravamo 15.000. In 9.000 rifiutammo. Ci stabilimmo senza copertura legale né protezione umanitaria nella piana di Niniveh, vicino Mosul. La zona era minata, molti morirono lungo il cammino. La Turchia ci bombardava dall'aria, i Peshmerga ci attaccavano da terra. Patimmo molti morti, ma eravamo tanti. È stato un momento difficile”.

Il Pdk tentò di spingere i profughi fuori dai confini del Kurdistan, verso le aree controllate dal governo iracheno, ma le truppe di Saddam Hussein li bloccarono, impedendo lo sconfinamento; finalmente, l'Onu convinse il governo a concedere un insediamento nel 1998, la cui gradevole collocazione fu individuata nel pericoloso e inospitale deserto a sud di Mosul: la zona di Makhmur. Il clima è freddo d'inverno e caldissimo d'estate, e la forte presenza di insetti velenosi e scorpioni causò diffuse malattie, soprattutto infantili, e numerosi casi di cecità tra gli adulti. Il campo, da allora, è in perenne rivolta contro tutto e tutti: profughi ribelli e maledetti, sfuggiti alle persecuzioni turche, arabe e della destra curda, hanno edificato in autonomia, in questi vent'anni, una piccola fortezza rivoluzionaria. “Abbiamo costruito queste case, queste scuole e questo municipio con le nostre stesse mani: nessuno ci ha aiutato. Non siamo supportati né dall'Iraq, né dal Krg né dalle Nazioni Unite. Le nostre nove comuni eleggono il parlamento cittadino e il consiglio comunale che abbiamo creato, nonostante non fosse previsto che ne avessimo uno”.

Dall'agosto 2014 lo stato islamico ha attaccato il campo decine di volte con bombardamenti e incursioni di terra, ma non l'ha mai espugnato. «Siamo il target ideale per tutti i nemici dei curdi» dicono con rabbia e orgoglio. Sui muri si vedono le scritte in arabo del califfato, vergate con lo spray: «Potrebbero tornare in qualsiasi momento». «Abbiamo il Pkk a proteggerci - aggiunge un signore - ma quando Daesh attacca, tutti impugnamo i Kalashnikov e ci difendiamo”. Nessuno, nel mondo, sa di quest'isola ribelle in pieno deserto: “La produzione, il lavoro, la partecipazione politica sono regolate secondo il pensiero di Ocalan. Insorgiamo e ci rivoltiamo ad ogni necessità, per tutto il Kurdistan, siamo pronti ad insorgere in ogni momento, per Kobane come per Cizre, o per i nostri compagni in Iran”. Le donne del campo (la maggioranza) si sono organizzate nella Woman Academy e nella Scuola delle madri, dove apprendono l'un l'altra a scrivere, leggere, crescere i figli e far fronte ad ogni necessità. Sono parte dell'Ishtar, parlamento unito delle donne del Kurdistan. “Noi donne possiamo organizzarci, possiamo divenire autonome e potenti” dice una di loro. “C'è molto più rispetto per le donne qui a Makhmur che da voi in Europa. In Europa c'è solo lo spettacolo delle donne. Qui c'è uguaglianza - e rispetto”.

 

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Baracche, emigrazione e rancore: i cristiani in Iraq

IMG 20160304 WA0009“Qui gestiamo le cose secondo il 'Gangman Style': voi italiani dovreste saperne qualcosa”. Ilyas, una quarantina d'anni e un completo in giacca e cravatta celeste, ci tiene a pavoneggiare la sua pistola e si atteggia a piccolo boss di periferia per le strade disperate di Ankawa, antica città mesopotamica oggi declassata a banlieue di Erbil, capitale del governo regionale curdo (Krg) e meta di quasi tutti i cristiani fuggiti dalle città conquistate dallo stato islamico, tra giugno e agosto 2014. Ilyas ha ottenuto un posto invidiabile nelle istituzioni corrotte del Krg (“Non mi mancano i soldi, nè le armi”) e gestisce anche, ad Ankawa, una piccola attività commerciale. Bassam ha 25 anni ed è uno dei suoi tuttofare. È originario di un ricco quartiere residenziale alla periferia di Falluja, a ovest di Baghdad, dove si trovava nel 2003, quando in quella città scoppiò la prima rivolta contro l'occupazione anglo-americana dell'Iraq; un episodio che lui ricorda in modo diverso da tanti suoi coetanei musulmani.

“Da allora per noi cristiani sono iniziati i problemi. I salafiti [Corrente religiosa che chiede il ritorno al purismo islamico dei primi califfi, Ndr] hanno cominciato a introdurre per tutti il criterio Halal”. «Halal», aggiunge sprezzante Ilyas, non è semplicemente un modo di macellare la carne («Questo è ciò che dicono a voi, nel fottuto occidente»), ma ciò che è consentito e ciò che non lo è, in generale, secondo la legge coranica. Anche i cristiani di Falluja, secondo Al-Qaeda – racconta Bassem – dovevano conformarsi ai dettami del profeta, e le loro donne dovevano coprire i capelli fuori dalla propria abitazione. Bassem e la sua famiglia hanno lasciato per questo Falluja nel 2007, rifugiandosi prima a Baghdad, poi a Mosul: “I conflitti tra sunniti, sciiti e cristiani erano diventati troppo gravi, andarsene era l'unica soluzione”. Da Mosul, dove negli ultimi anni Al-Qaeda aveva, analogamente, commesso omicidi di cristiani, la sua famiglia si è poi trasferita a Karakosh, nella piana di Niniveh (tra Mosul e Erbil), dove i cristiani erano, fino al 2014, la quasi totalità della popolazione.

Nel giugno 2014 decine di migliaia di persone di fede cristiana lasciarono Mosul a causa dell'arrivo dell'Isis e trovarono rifugio per le strade di Karakosh. “Non avevano nulla, non avevano lasciato loro neanche i vestiti. Lo stato islamico li aveva spogliati di tutto prima di lasciarli partire”. Poi, il 6 agosto, sette razzi si abbatterono su Karakosh da Mosul, facendo qualche morto e alcuni danni materiali. “Io ero arruolato nei Peshmerga – dice Bassam – ma i miei superiori diedero l'ordine di evacuare subito la città”. I Peshmerga erano male equipaggiati, o troppo pochi? “Le armi c'erano – risponde – gli uomini pure. Ci doveva essere qualche gioco sporco di mezzo”. Il governo di Erbil decise che non era strategico difendere i cristiani di Karakosh, così come aveva deciso per gli ezidi di Singal appena sei giorni prima? Bassam, come tutti i profughi che abbiamo finora intervistato, si dice incline a pensarlo, ma Ilyas nega. Per sua stessa ammissione, vuole mantenere una posizione più sfumata verso le istituzioni barzaniane, da cui percepisce un lauto stipendio: “Non combatterono perché l'area è desertica, priva di alture, inadatta a uno scontro con un avversario ben armato”.

A lui, più che criticare il governo di Erbil, interessa attaccare la religione musulmana. Una signora velata e la sua bambina si affacciano al suo negozio chiedendo elemosina, ma lui le ignora con disprezzo: “Non vogliamo questa gente ad Ankawa. Che cosa hanno fatto, loro, ai miei fratelli di Mosul? Li hanno spogliati delle loro case e dei loro averi”. Andreus aveva 15 anni quando l'Is ha attaccato Karakosh: “C'è stata l'esplosione di un razzo e siamo andati a vedere. Abbiamo trovato due bambini morti” racconta sorridendo imbarazzato, come avesse visto un film che i genitori gli avrebbero proibito. L'anziano Bashar Yohanna ha una baracchetta sul lato opposto del marciapiede, in cui vende tè ai passanti; ci implora di fotografarla, pensando che ciò possa fargli pubblicità. “Ho capito che sarebbe successo qualcosa quando ho visto la gente che faceva scorte al Bazar. Poi i sacerdoti ci hanno detto che se la chiesa avesse suonato le campane a stormo, tutti avremmo dovuto lasciare la città”. Così accadde il 6 agosto, dopo i primi colpi di mortaio, mentre i miliziani dell'Is raggiungevano Karakosh incolonnati sui loro Toyota.

Bashar non trattiene le lacrime mentre ricorda le migliaia di persone incolonnate a piedi verso Erbil, gli ingorghi di auto, l'arrivo ad Ankawa e le persone accampate «come animali» attorno alla chiesa. Ricorda l'alternativa datagli al check point dai miliziani dell'Isis: avrebbe consegnato loro tutto, “oppure si sarebbero presi le mie quattro figlie”. I profughi sarebbero stati sistemati alcune settimane dopo in dieci campi allestiti ad Ankawa dal Krg, tra cui Ankawa2, dove vivono 5.500 persone, circa 1.200 famiglie stipate in 1.040 prefabbricati. Ibrahim, originario di Bartella, un altro villaggio della piana di Niniveh ora in mano al califfato, si occupa della gestione del campo con solo altre nove persone, per conto di «Pérè Emmanuel», grazie a cui ha studiato dai padri domenicani a Mosul. Ci accompagna in mezzo alla distesa immensa di container identici tra loro ammassati l'uno affianco all'altro, composti ciascuno da due stanze per dormire e un stanzino per i servizi igenici.

La chiesa del campo è stata costruita dagli abitanti addizionando diversi prefabbricati e ponendo sopra essi un tetto a spiovente. La messa viene celebrata in aramaico e tradotta in arabo, e il rito scelto, poiché nel campo maggioritario, è quello siriaco ortodosso; tuttavia, vi partecipano anche cristiani caldei e della chiesa orientale assira. “Nonostante tra noi vi siano persone di confessione orientale, siriaca, caldea e ortodossa, apparteniamo tutti al popolo assiro, e la nostra lingua è l'aramaico, la lingua di Gesù. Parliamo arabo per la strada, con gli arabi e i curdi, ma in famiglia usiamo sempre l'aramaico”. Gli assiri dominavano la Mesopotamia settentrionale nel XXV secolo a.c., con capitale Niniveh. Furono conquistati quasi duemila anni dopo, e divennero gli abitanti sottomessi dell'Assiristan persiano. Dopo la conquista alessandrina subirono l'influenza culturale greca, per divenire popolazione contesa ai confini tra impero romano e persiano, fino alla conquista musulmana, a cui arrivarono già convertiti in massa al cristianesimo.

Mantennero in maggioranza questa religione, ma dovettero pagare una tassa ai califfi, come previsto nel Corano, a causa della loro mancata conversione. Dopo la caduta dell'Impero Ottomano questa discriminazione venne meno in Iraq, ma le conquiste dello stato islamico hanno tentato di riportare la situazione allo stato precedente. In qualità di “emiro”, poco prima di autoproclamarsi califfo, Al-Baghdadi arrivò a Mosul il 6 giugno 2014. “Una settimana dopo, dopo la preghiera del venerdì, dai minareti fu detto che, in ottemperanza al dettato coranico, i cristiani avrebbero dovuto convertirsi, pagare una tassa o affrontare la morte”. Al-Baghdadi chiese una riunione con i vescovi di Mosul per affrontare la questione, ma questi rifiutarono di incontrarlo. Tutti i cristiani partirono il giorno stesso per le città della piana.

Nowel, vecchio dirigente scolastico, era uno di loro. Ci fa sedere sullo spazio davanti al suo container, dove l'intera famiglia si sforza di allestire uno spazio accogliente, offrendoci dell'acqua e del tè. «Le milizie di Daesh, una volta entrate a Mosul, hanno vergato su tutte le case cristiane, in alfabeto arabo, la «N» di «Nazareni» (termine utilizzato dai musulmani, spiega il sindaco di Ankawa, per denotare i cristiani)». Questo segno, dice Nowel, era preludio alla confisca delle abitazioni. «Come potevamo fidarci? Al-Baghdadi aveva annunciato che i cristiani sarebbero stati rispettati, ma appena i suoi miliziani hanno preso il controllo della città i funzionari cristiani hanno smesso di percepire tanto lo stipendio quanto i regolari razionamenti di cibo. Quando se ne sono usciti con la storia della tassa, ce ne siamo andati». Sulla strada per Karakosh la sua famiglia incontrò il check point dello stato islamico dove venne derubata di soldi, oro e fedi matrimoniali; a cento metri di distanza si trovava il check point dei Peshmerga, che li fecero entrare a Karakosh e, dopo che anch'essa fu attaccata, nel Kurdistan.

Bassam dice che non c'erano problemi con i musulmani prima dell'arrivo dell'Isis, ma Ilyas cerca palesemente di storpiare la traduzione, capovolgendo il senso della sua risposta. Nowel afferma che non c'erano mai stati attriti tra comunità cristiana e musulmani, sebbene alcuni gruppi organizzati attaccassero i cristiani di tanto in tanto, ma Ibrahim interviene a correggerlo: «Non è così. In ogni musulmano c'è un grande Daesh: il dettato coranico impone all'umanità intera di riconoscere Mohamed come ultimo profeta». Appare chiaro che i leader della comunità cercano di dare alla contrapposizione che si è creata in Iraq una curvatura religiosa e identitaria, ma la popolazione non sembra percepire spontaneamente questo bisogno. Nowel protesta alle parole di Ibrahim, si mette a urlare: non accetta, benché profugo, di affermare che tutti i musulmani sono uguali, come vorrebbe Ibrahim. La moglie tenta di intervenire, ma nessuno la ascolta; il figlio, Silwan, interviene contro il padre: «Se un musulmano crede davvero, deve agire come Daesh. Soltanto i musulmani meno rigorosi ci rispettano».

«Non è un problema di arabi o curdi, nè di sunniti o sciiti: i musulmani sono così. Quando sono deboli stanno tranquilli, ma appena si sentono forti vogliono imporre a tutti la loro fede» dice Ibrahim mentre ci accompagna all'uscita del campo: «Quelli come Nowel, a Mosul, avevano la grana, lavoravano per lo stato: per questo vogliono far pensare che Daesh sia un fenomeno isolato nella società islamica». Anche lui, come Nowel, concorda nel dire che il presidente del Krg Barzani ama i cristiani e il Kurdistan è oggi ospitale verso di loro. «Le cose, però, possono velocemente cambiare. Ti faccio un esempio: un amico curdo si è rifiutato di stamparmi dei santini l'altro giorno, nonostante fare stampe sia ciò che gli dà da mangiare. Il rifiuto per gli altri ce l'hanno dentro». Dal 2003 a oggi, i cristiani in Iraq sono passati da 1.600.000 a 300.000, di cui l'85% vive ormai nel Kurdistan, spiega Surut Al-Makdici, unico parlamentare Krg dei «Discendenti della Mesopotamia», una delle liste assire in Iraq. «Vogliamo protezione militare internazionale per i cristiani. Non possiamo andare avanti così. L'Europa ci deve aiutare, deve mandare più soldati, più armi».

Papa Francesco doveva visitare Ankawa a ottobre, ma ha rinunciato per motivi di sicurezza: «Ha fatto male» dice Al-Makdici «Dovrebbe sapere che la sua sicurezza non deriva dagli eserciti, ma da Dio». William, giovane attivista vicino al partito, non ha dubbi su chi potrebbe attivare una protezione efficace per i cristiani: «La Russia». Spiega come per lui la questione sia nazionale prima che religiosa: occorre difendere la minoranza assira, tanto in Siria quanto in Iraq. In Siria, spiega, le milizie assire Sotoro sono al momento divise in due fazioni: una, quella originaria, combatte con il Pyd e le Ypg; un'altra, che si è staccata, è fedele al governo siriano. Queste divisioni si ripercuotono qui, alcune centinaia di chilometri più a est, sulle complesse affiliazioni politiche che dividono la comunità di Ankawa, già frammentata, sul piano religioso, da tante diverse tradizioni e riti cristiani. «Gli americani sono venuti qui per prendersi i soldi, e così faranno tutti» dice dal canto suo Ilyas, ostentando cinismo. «Siamo noi, fin dall'antichità, i padroni di questa terra: non i russi, nè gli americani, non i curdi, nè gli arabi» aggiunge in un volo pindarico. «Chiunque manderà dei soldati qui, in ogni caso, non lo farà certo per i miei occhi azzurri».

 

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Il Pkk in Iraq: “Pronti a combattere l'Isis in tutto il mondo”

IMG 20160313 WA0008Raggiungiamo la città di Makhmur attraverso la strada statale che collega Erbil, nel Kurdistan iracheno, con la provincia di Niniveh, formalmente sotto il controllo del governo di Baghdad. La strada è piena di check-point dell'autorità regionale curda, dove i Peshmerga del Pdk, partito al potere in quest'area, ci fermano svariate volte e ci fanno scendere dall'auto per dei controlli. Giunti a trenta chilometri da Erbil, i Peshmerga non ci sono più. Sulla nostra destra una strada deserta conduce a Mosul, città sotto il controllo dello stato islamico. Laggiù, nel giugno 2014, il leader dell'Isil Al-Baghdadi ha dichiarato il califfato, instaurando sul territorio che da qui si spinge fino a Raqqa, in Siria, lo stato islamico.

Poco oltre, sulla nostra sinistra, la città di Makhmur appare come un'isoletta fantasma in mezzo al deserto, caratterizzata da abitazioni spoglie e prive di vita, abbandonata da molti dei suoi abitanti. Oltre il centro abitato si trova il check-point del Pkk, che ha preso il controllo dell'area da quando – come già avvenuto nella non distante città di Singal – i Peshmerga del Pdk hanno mostrato di non prendere le difese della popolazione civile, quando hanno avuto luogo incursioni e bombardamenti dello stato islamico. Subito oltre il centro abitato si trova il campo profughi di Makhmur, dove vivono migliaia di curdi. È la prima linea tra stato islamico e resto del mondo, dove a fronteggiare direttamente l'Isis sono le donne (Yja-Star) e gli uomini (Hpg) del Pkk.

Dopo un tè di benvenuto con la popolazione del campo, i pick-up delle Hpg vengono a prenderci e ci portano al quartier generale per la protezione del campo profughi, a pochi chilometri dal monte Karacho, a sud, sotto il controllo del Pkk. Il comandante Heval Jamal Andok (in foto più in basso - che si assicura che scriviamo anche “Heval”, in curdo “compagno”) si siede con noi sotto il sole per un'intervista.

 

Quali sono i principi che ispirano il vostro partito?

Abbiamo un'eredità socialista, che parte da Marx per arrivare a Lenin. Combattiamo per una società socialista. Il socialismo è il nostro primo interesse. L'Unione Sovietica, quale principale esperienza storica socialista, ha tuttavia a suo tempo commesso degli errori. In quell'esperienza l'ideologia è stata controllata dallo stato; non è stata usata per la gente, ma per lo stato. Per questo stiamo cercando di rafforzare questa ideologia cambiandola, perché se vogliamo costruire una società libera dobbiamo progettare un vero socialismo, un socialismo umano, che non sia per lo stato.

Il Pkk è nato per essere il partito dei curdi, ma in realtà altro non è che un movimento umano per una società democratica. Questo è quello che vediamo oggi in Rojava: autonomia e autogoverno, presa in carico dei problemi collettivi, gestione autonoma della società. Il Kurdistan, d'altra parte, è un luogo in cui vivono molte nazionalità diverse; per questo il nostro partito si batte per un sistema in cui le diverse nazionalità possano convivere in modo democratico e rifiuta ogni sistema basato sulla prevalenza o sul dominio di una nazione sulle altre (è il caso, ad esempio, dell'attuale sistema politico turco). Siamo contro l'idea di una nazione che rappresenti una sola identità e una sola storia.

Crediamo sia necessario un movimento mondiale per il socialismo. È necessaria una rivoluzione mondiale. La radice dei problemi non è nazionale né umanitaria, è economica. Dobbiamo vivere bene, una vita bella e felice. La logica dello stato è che esso è necessario, imprescindibile per la convivenza umana, ma questo è falso. Lo stato non può vivere senza la gente, mentre la gente può vivere benissimo senza lo stato. Noi combattenti delle Hpg e delle Yja-Star non siamo soltanto soldati, siamo in primo luogo militanti politici. Il nostro interesse non è uccidere, il nostro desiderio è vivere con gli altri e condurre una vita serena e felice, come afferma il nostro comandante Abdullah Ocalan.

 

Sappiamo che le Hpg e le Yja-Star stanno affrontando dei combattimenti in Iraq, in primo luogo contro lo stato islamico. Può dirci qualcosa in merito?

Combattiamo Daesh in Rojava, a Singal e a Makhmur. Daesh è un gruppo barbaro e selvaggio, nemico dell'umanità. Decapitano la gente e sono ostili alle donne. Nella nostra ideologia la donna è al primo posto perché è la fonte della vita. Obiettivo reale di Daesh è impadronirsi del petrolio e venderlo ai molti stati – perché sono tanti – che fanno affari con questa organizzazione. Hanno attaccato il campo profughi di Makhmur perché sanno che i profughi di Makhmur sostengono il Pkk. In generale Daesh ha tentato di invadere il Basur [Kurdistan meridionale nel nord dell'Iraq, Ndr] per fare una guerra ai curdi.

Va detto anche che Daesh ha rapporti con la Turchia, per questo attacca Makhmur, che da sempre è stato attaccato dalla Turchia perché i rifugiati che ci vivono provengono dal Bakur [Kurdistan settentrionale nella Turchia sud-orientale, Ndr] e hanno dovuto oltrepassare il confine iracheno perché attaccati dall'esercito turco. Il comportamento della Turchia è questo, in generale. Quando Daesh ha attaccato Kobane, la Turchia lo ha appoggiato. Le Ypg-Ypj, che hanno difeso Kobane, non hanno mai attaccato la Turchia, eppure la Turchia oggi le attacca.

La Turchia non vuole che le Ypg controllino il suo confine con la Siria perché vuole che Daesh continui a controllarne almeno una porzione, in modo che possa ottenere il suo canale di passaggio con il mondo esterno. Anche il governo Assad vuole controllare alcune postazioni. Lice, Cizre, Sur, Nusaybin [città del Bakur sotto attacco da parte del governo turco, Ndr] dimostrano che la Turchia si comporta come Daesh, hanno lo stesso comportamento e la stessa ideologia.

 

Avete avuto degli scontri con lo stato islamico, qui a Makhmur?

Ne abbiamo avuti diversi. Ad esempio l'8 agosto scorso Daesh ha attaccato il campo. L'area a sud di Mosul, dove si trova Makhmur, è controllata dal Pdk [il partito del presidente del Governo regionale curdo, Massud Barzani, Ndr], ma si sono ritirati e hanno lasciato campo libero a Daesh, non hanno difeso i civili di Makhmur. Lo stato non protegge le persone, e il Pdk fa propria la logica dello stato. Abbiamo evacuato la città e il campo profughi, quindi i nostri distaccamenti sono scesi dal monte Karacho, che potete vedere qui poco più a sud, e abbiamo combattuto Daesh per tre giorni con la collaborazione dell'Upk [Unione Patriottica del Kurdistan, Ndr]. Durante questa battaglia abbiamo avuto tre caduti. Inoltre un giornalista curdo, Denis Firat, è stato ucciso da Daesh sulla montagna.

A causa di queste incursioni da Mosul adesso abbiamo questo presidio fisso delle Hpg e delle Yja-Star qui, nel campo di Makhmur. Daesh può tornare ad attaccare qui in ogni momento, anche adesso potrebbe arrivare; per questo c'è bisogno della nostra presenza. È lo stesso ruolo che svolgiamo a Singal e a Kirkuk. È una decisione del nostro partito quella di dispiegare distaccamenti del Pkk in queste città irachene, altrimenti manterremmo le nostre postazioni soltanto in montagna. Il Pdk ha ampiamente dimostrato di non voler o non essere in grado di difendere i civili, quindi la nostra presenza in alcune città del Kurdistan iracheno è necessaria.

Il Pkk ha combattuto e si trova in prima linea a Kirkuk. Forse presto ci sarà un'operazione per prendere Mosul e il Pkk è pronto a contribuirvi. Mosul è una città molto importante per la storia dell'umanità. Daesh ha distrutto la cultura a Mosul, le sue rovine antichissime. Siamo pronti a combattere Daesh a Mosul. Voglio dirvi una cosa molto importante: noi siamo pronti a combattere Daesh in ogni parte del mondo, non soltanto in Kurdistan.

 

L'Iraq è stato invaso, nel 2003, dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna, e successivamente occupato da questi stati (cui se ne aggiunsero altri, tra cui Italia, Polonia, ecc.). Stati Uniti, Gran Bretagna e Italia hanno ancora dei soldati di stanza a Erbil. Qual è la posizione del Pkk nei confronti degli eserciti stranieri che operano in Iraq?

La nostra linea politica è di non prendere le parti di nessuno stato, mai. Soltanto se uno stato ci attacca siamo costretti a difenderci, e allora ci troviamo in guerra con quello stato. Quando questi stati invaderanno il nostro Kurdistan, li combatteremo. Sono stati capitalisti. Nel 2003 [quando il Pkk già aveva in Iraq il suo quartier generale, sul monte Qandil, Ndr] non avevamo alcun rapporto o contatto con gli Stati Uniti e il Regno Unito. Tra noi e loro esistono differenze ideologiche: sono stati capitalisti. Quando, però, c'è un problema di vite umane da salvare, come oggi contro Daesh, possiamo mettere in piedi con queste forze una forma di coordinamento tattico.

 

Quale pensate che sia il ruolo delle potenze occidentali in medio oriente?

Il sistema capitalista è in crisi, per questo cercano di risolvere i loro problemi qui in medio oriente, cercando di cambiare i governi e i confini secondo i loro interessi, dividendo le persone. Queste potenze ragionano secondo l'ideologia dello stato-nazione, questa è la ragione della loro presenza qui. Usa, Francia, Gran Bretagna e altri sono oggi in medio oriente perché vogliono il petrolio. Questa è la terza guerra mondiale.

Anche molte organizzazioni o Ong vengono qui, come gli stati, dicendo che devono salvare l'umanità, ma in realtà sono qui per portare avanti i loro interessi nazionali. Lo stesso vale per le Nazioni Unite: dicono di proteggere le persone, ma cosa stanno facendo a Sur, a Cizre, per proteggere i curdi che vengono in queste ore massacrati dal governo turco? Nulla. È tutto un fatto di interessi economici, è per questo che hanno arrestato la nostra leadership. Solo interessi economici, nessuna umanità. È per i propri interessi che la Germania e l'Italia hanno contribuito all'arresto di Abdullah Ocalan diciassette anni fa.

 

Di recente, decine di soldati turchi sono morti in Turchia, molti dei quali in due separati attacchi esplosivi, uno nei pressi di Lice [rivendicato dal Pkk, Ndr], nella provincia di Diyarbakir e uno ad Ankara, nella capitale della Turchia. Sappiamo che il Pkk non è coinvolto nell'attacco di Ankara del 17 febbraio, che è stato rivendicato dai Tak (Falchi Curdi per la Libertà). Qual è la vostra posizione rispetto a queste azioni?

Questi attacchi sono il risultato della crudeltà del governo turco, che ha ucciso centinaia di persone e distrutto i quartieri di intere città. I curdi non possono stare a guardare, hanno provato a rispondere a questo attacco, in cui addirittura i corpi dei civili morti vengono bruciati dalle forze speciali turche, che incendiano anche le loro case. Esiste il diritto del popolo curdo a rispondere a tutto questo. I curdi devono proteggersi combattendo Daesh come tutti gli altri loro nemici.

Esistono molte organizzazioni per la liberazione del Kurdistan, ad esempio esistono anche i Tak. Non esiste relazione militare tra il Pkk e i Tak. Ciò che ci accomuna è semplicemente il fatto di essere curdi. Ci sono anche molti altri gruppi che agiscono per il Kurdistan. Tanto i Tak quanto il Pkk attaccano soltanto obiettivi militari in Turchia, non i civili (come invece sta facendo il governo turco). I Tak hanno diritto di proteggere i curdi. Il Pkk ha diritto di proteggere i curdi. Il Pdk, l'Upk, Goran [partito d'opposizione nel Kurdistan iracheno, Ndr] hanno diritto di difendere i curdi.

 

In questo momento, in Palestina, una nuova Intifadah deve far fronte a svariate forme di attacco da parte dell'esercito israeliano. Qual è il messaggio del Pkk ai palestinesi, in questo momento difficile?

Il Pkk non è soltanto un partito curdo, si concepisce come universale, non vuole combattere soltanto per i curdi, ma per chiunque. La rivoluzione palestinese è nel nostro cuore, l'abbiamo sempre appoggiata e sempre lo faremo. La nostra lotta è la stessa, il nostro nemico è lo stesso. Sono nel nostro cuore.

 

Quale messaggio volete mandare al mondo dal deserto dell'Iraq?

L'ammirazione per il Pkk è in tutto il mondo e non ha confini, perché la nostra pratica è la stessa che troviamo ovunque in questo pianeta: cercare un vita e una società migliori. Non è facile essere guerriglieri nelle Hpg e nelle Yja-Star: bisogna cambiare vita. Imbracciamo i fucili perchè dobbiamo proteggerci. In tanti ci dicono: “Abbandonate la lotta armata, riponete le armi”. Non possiamo: abbiamo bisogno delle armi; perché questa è la realtà del Pkk: quel che diciamo, facciamo.

 

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Singal, Iraq: il Pkk nella città fantasma

IMG 20160313 WA0038 300x224Singal era una città di 500.000 abitanti nel nord dell'Iraq, abitata prevalentemente dalla comunità ezida, una popolazione di lingua curda che professa una religione diversa da ebraismo, cristianesimo e islam e affonda le sue radici nell'antica cultura zoroastriana. Oggi è disabitata e almeno per metà un cumulo di macerie, ed è attarversata soltanto dalle diverse foze armate che ne contendono il controllo: il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) da un lato, assieme alle Ybs (unità autonome ezide), e i Peshmerga del Partito democratico del Kurdistan (Pdk), forza di destra e conservatrice, dall'altro. I due movimenti politici, da sempre avversi politicamente nella storia del Kurdistan (l'uno votato alla trasformazione comunistica dei rapporti sociali, l'altro alla protezione della società tradizionale clanica in un orizzonte capitalista), trovano in questa città il loro punto più teso di confronto politico.

Singal è stata invasa dallo stato islamico il 3 agosto 2014. I Peshmerga del Pdk hanno abbandonato la cittadinanza al suo destino senza combattere, ritirandosi prima ancora che miliziani raggiungessero il centro abitato. Gran parte della popolazione è stata ammassata in fosse comuni e trucidata, o assassinata per le strade mentre cercava di fuggire. Migliaia di donne e minori sono stati ridotti in schiavitù e/o deportati, e sottoposti ai peggiori abusi fisici e psicologici. Migliaia sono state le persone che hanno preso la via dei monti a nord della città, ostacolati dai Peshmerga (per ragioni tuttora non chiare) e protetti da poche decine di guerriglieri del Pkk scesi dalle montagne, dove non pochi sfollati hanno trovato la morte per la fame e gli stenti. Anche le Ypg siriane hanno dato il loro contributo, aprendo un corridoio verso il confine con il Rojava. Oggi decine di migliaia di ezidi vivono in campi profughi allestiti in Turchia e nel Kurdistan iracheno. Ancora attendono inutilmente di tornare nelle loro case, e in molti hanno scelto la via dell'emigrazione clandestina verso l'Europa, attraverso il mare che separa la Turchia dalla Grecia.

A partire dall'autunno 2014 il Pkk ha cominciato ad inquadrare e addestrare migliaia di profughi ezidi nelle unità per la difesa di Singal, le Ybs (da non confondere con le Yps, unità curde che difendono le città del Kurdistan in Turchia, e con le Ypg, che difendono il Rojava). Il Pkk e le Ybs hanno quindi iniziato una lunga guerra riconquistando i villaggi sulle montagne e spigendosi verso il centro abitato, dove hanno preso possesso prima di alcuni edifici, poi di alcuni quartieri. Nel frattempo in città le prigioniere e i prigionieri ezidi spesso riuscivano a sottrarsi al controllo dell'Is fuggendo a piccoli gruppi verso la montagna. A fine ottobre 2015 è stato lanciato l'attacco finale per liberare Singal, ma Pkk e Ybs sono state bloccate lungo la strada che scende dalle montagne dai Peshmerga del Pdk, le cui forze erano state nel frattempo ricostituite con volontari ezidi, sempre dipendenti dal governo di Erbil. La ragione di questo atto fu che il Pdk, alleato del presidente turco Erdogan, non voleva che Singal fosse liberata prima delle elezioni turche del 2 novembre, ciò che avrebbe potuto provocare un maggior successo dell'Hdp, importante partito turco vicino al Pkk.

Dopo il 2 novembre, gli Stati Uniti (grande burattinaio del presidente del Krg e del Pdk Barzani) hanno dato l'ok per l'offensiva dei Peshmerga da nord, che sono giunti nella città già controllata in parte da Pkk e Ybs (contrariamente ad alcune ricostruzioni, le Ypg del Rojava non hanno mai partecipato ai combattimenti per la riconquista di Singal, ma hanno svolto soltanto un ruolo di protezione umanitaria per i profughi nell'agosto 2014). Gli Stati Uniti hanno bombardato la città contribuendo a provocare la ritirata verso Tel Afar dei miliziani superstiti dello stato islamico. Il 13 novembre 2015 le bandiere del Pkk e delle Ybs hanno cominciato a sventolare su alcuni edifici prima controllati dall'Is, quelle del Pdk su altri. Il presidente Barzani ha dichiarato, dopo pochi giorni, che il Pkk e le Ybs erano “forze di occupazione” a Singal, pretendendone un ritiro che non è avvenuto. Da allora tra guerriglia e Peshmerga c'è una tesa convivenza a pochi metri di distanza, con il Pkk/Ybs che controlla il nord della città distrutta e disabitata, il Pdk che controlla il sud. Permane la presenza simbolica di alcune decine di poliziotti e soldati del governo di Baghdad, in parte ezidi. Il territorio montuoso a nord di Singal è in gran parte controllato da Pkk e Ybs, mentre le principali comunicazioni stradali con il nord del Kurdistan iracheno sono controllate da check-point dei Peshmerga.

Il parlamento del gopverno regionale del Kurdistan iracheno (Krg) ha chiesto la formazione di una commissione parlamentare d'inchiesta sui fatti di Singal nell'agosto 2014, che è stata negata dalla presidenza del Kurdistan e dal governo. I media mainstream internazionali hanno mentito fin dal primo giorno, e continuano a mentire oggi, sulla situazione a Singal, per proteggere l'immagine internazionale del presidente Barzani, grande petroliere alleato di Europa e Stati Uniti. Radio Onda d'Urto e Infoaut intendono con questo e altri reportage contribuire a un'informazione autonoma su uno degli eventi più tragici della storia recente.

  

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Le prigioniere sfuggite a Daesh: «Nessuna tortura ci è stata risparmiata»

duhokNel campo profughi di Duhok vivono 4250 persone, 700 famiglie stipate in 900 container. Qualcuno del posto la definisce “una piccola Iraq”: all'interno del campo, infatti, vivono musulmani, cristiani, turcomanni e ezidi.

(la foto, del campo profughi di Duhok, è tratta dal web)

Dopo aver visitato il campo incontriamo diverse famiglie di ezidi che vivevano a Singal, ad oggi non più sotto il controllo dello stato islamico.

La stanza in cui sedevamo per terra, sopra grandi cuscini colorati, lentamente si svuota e nella saletta rimaniamo in pochi: io, tre donne, il medico che traduceva e una bambina.

Queste tre donne sono state per sei mesi torturate e violentata dall'Isis. Iniziamo chiedendo di raccontare la loro storia, così dopo un po' di silenzio una delle signore, la più anziana, prende parola: “Una volta catturate ci hanno diviso uomini e donne, degli uomini non abbiamo più saputo nulla. Arrivate in questa prigione ci hanno nuovamente divise in tre gruppi: giovani, nubili e anziane”. Una volta divise, spiega, venivano smistate nelle varie stanze e lì iniziavano le prime torture psicologiche, intente a terrorizzarle ed umiliarle. Le bambine sopra i dieci anni venivano separate dalle madri e messe in stanze singole dove venivano violentate ripetutamente. La donna che siede accanto alla signora più adulta ci guarda e con un mezzo sorriso ci dice che in questi sei mesi gli uomini dello stato islamico hanno fatto di tutto, nessuna umiliazione o violenza è stata risparmiata. Durante la detenzione spesso gli uomini di daesh arrivavano nelle stanze, puntavano le loro pistole nelle teste delle donne e le minacciavano di morte “Ora ti ammazziamo!” gridavano con la pistola piantata nella testa delle prigioniere e poi iniziavano a ridere. Quasi nessuna donna è mai stata uccisa, i loro corpi servivano vivi. L'intervista assume una forma molto narrativa in cui le donne raccontano quello che hanno vissuto in sprazzi di ricordi.

La signora più adulta racconta che nella stanza a fianco la sua c'era una bambina di dodici anni, ogni mattina per sei mesi gli uomini di daesh sono entrati e l'hanno violentata fino alla sfinimento, fino a farle perdere la forza anche di urlare.

Prende parola poi la signora che in braccio ha sua figlia e ci dice “Ogni giorno speravamo di morire pur di non stare lì, speravamo nell'arrivo della morte per smettere quest'atroce sofferenza”. Lei ha provato a fuggire due volte, la prima volta è scappata una notte quando gli uomini di daesh erano occupati fuori dalla città, racconta d'aver sbagliato strada e di aver camminato per ore a vuoto. Dopo giorni di cammino, racconta di aver attraversato villaggi vuoti, di essere entrata nelle case per procurarsi del cibo ed infine di aver incontrato degli uomini che dicevano di essere musulmani. Questi uomini l'hanno ospitata in casa, le hanno offerto del cibo e delle bevande mentre le facevano raccontare quello che aveva subito. Questi hanno poi avvertito gli uomini di daesh che arrivati in quella casa l'hanno presa e riportata in prigione. La seconda volta invece è riuscita a scappare e dopo ore di cammino ha incontrato degli ezidi che l'hanno soccorsa e sono tornati indietro a prendere le altre donne.

Raccontano come spesso alle madri veniva proposta la libertà, dicevano loro "Puoi scegliere: ti liberiamo subito ma tua figlia resta qui”. Come se questa possa essere considerata una scelta.

Gli uomini dello stato islamico avevano una lista con tutte le donne tenute prigioniere, questa lista conteneva il nome, il cognome, l'età e il credo religioso della detenuta. Una di loro mi dice “Non volevamo più lavarci né guardarci allo specchio. Non volevamo essere belle perché le più belle erano le più torturate”.

Ancora oggi non dormono bene, raccontano infatti come quello che è successo in quei mesi non potrà mai essere dimenticato.

Il fenomeno dell'Isis, fatto da fanatici fondamentalisti che le potenze occidentali supportano e utilizzano per giustificare la loro presenza in Medio Oriente, ha lasciato in queste terre segni che difficilmente potranno essere cancellati.

 

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Stato Islamico: quale verità? Voci di profughi in Iraq

2015 05 14 niles d“Se non ci fosse consenso per Daesh, Daesh non esisterebbe” dice un compagno curdo nel nord dell'Iraq. “Perchè la gente di Mosul non si ribella, non insorge? Perchè a molti di loro va più che bene”. Facciamo notare che in Siria molti combattenti di Daesh provengono dall'estero: Uzbekistan, Kazachstan, Cecenia. “Ci sono, ma non sono la maggioranza; la maggioranza sono siriani”. Difficile immaginare, d'altra parte, una forza composta da alcune migliaia di militanti, per quanto violenti e bene armati, che possa controllare una città come Mosul in Iraq, con oltre un milione di persone, se fosse da tutti, indistintamente, malvoluta. La verità è che otto anni di terribile occupazione angloamericana (e italiana), succeduta dal potere dispotico di un governo corrotto e predatorio installato a Baghdad, hanno prodotto uno stato di disperazione tale, nelle province sunnite settentrionali di Al-Anbar e Niniveh, da far apparire, a gran parte della popolazione, le milizie di Al-Baghdadi il male minore.

I racconti dei sopravvissuti all'arrivo dell'Is, ormai profughi in altre città dell'Iraq, delineano un quadro ambiguo, dove il califfato appare anche un “mostro provvidenziale” per le potenze regionali e internazionali. Fallito il brutale tentativo americano di addomesticamento degli iracheni, il paese è finito nelle mani di un partito, Al-Dawa (sciita), vicino all'Iran. La secessione sostanziale del Kurdistan del presidente Barzani, che dal 2014 ha cacciato (anche a costo di scontri armati) l'esercito di Baghdad dai suoi territori, ha rappresentato un contrappeso favorevole agli interessi opposti all'Iran: Turchia e Arabia Saudita a livello regionale, Stati Uniti ed Europa a livello globale; e che le province arabe di Anbar e Niniveh diventassero sostanziale terra di nessuno, e guadagnassero autonomia di fatto dal governo centrale, non è stato stato visto come un fatto di per sé negativo. Di questa sorta di non belligeranza politica tra Is e Occidente, secondo una strana logica di “drole de guerre”, quasi tutti i profughi fuggiti dal califfato sembrano convinti.

“Avevamo le armi per combattere e i Peshmerga curdi erano presenti in forze nel nostro villaggio; ma si sono ritirati, e ci hanno detto di fare altrettanto” racconta Hussein, un medico ezida nel campo profughi di Dawodya, provincia di Duhok (Kurdistan iracheno settentrionale). Con i suoi 4.205 profughi, tutti provenienti dall'Iraq, i suoi 99 prefabbricati e le sue 621 famiglie ezide, arabe, curde e torcomanne, il campo è, di fatto, un Iraq in miniatura. Diviso in “quartieri” secondo affinità linguistiche o religiose, che travalicano ampiamente nel sociale e nel personale, è comunque – dicono i suoi amministratori, che esibiscono dietro ogni scrivania il ritratto del presidente Barzani – “una piccola isola di pacifica convivenza e rispetto reciproco”. “Ho cercato di fuggire a nord, ma i Peshmerga mi hanno fermato a un posto di blocco” continua Hussein. “Eravamo migliaia. Solo dopo alcune ore, mentre i miliziani di Daesh sparavano sulla folla e ci inseguivano per tutta la zona, i Peshmerga sono fuggiti e siamo potuti fuggire anche noi”.

Le scene raccontate dai fuggiaschi a Dawodya o a Erbil sono le stesse che riferiscono quelli di Batman, nel Kurdistan turco, o i cristiani fuggiti da Karakosh e Mosul, oggi riparati ad Ainkawa: né l'esercito iracheno, né i Peshmerga del Pdk hanno affrontato Daesh. Un profugo di Makhmur scoppia a ridere quando gli rivolgiamo questa domanda: “Daesh non combatte mai quando entra nelle città: entra in centri ormai disertati dalle forze rivali, e combatte solo quando viene attaccato”. Popolazioni stremate, strati proletari pronti a sottomettersi a qualunque gang pur di sopravvivere, gente oppressa da decenni, che non aspetta altro che l'amministrazione della vita torni ai consigli della sharia che da secoli gestiscono le controversie nelle loro città: è lo sfondo sociale su cui si è inserito in questi due anni lo stato islamico con i suoi convogli di pick up incolonnati sulle autostrade, contro cui molti arabi sunniti, al di là delle opinioni politiche, hanno ritenuto di non aver voglia, motivo o possibilità di combattere.

Majid è arabo sunnita, ma viene da Singal, città a maggioranza ezida. Non ha ritenuto di dover restare e appoggiare i nuovi invasori. “Avevamo visto in TV quel che avevano fatto nelle altre città: uccidevano i soldati e i poliziotti, e mio fratello è poliziotto. Inoltre avevamo parenti a Qamishlo [in Siria, Ndr] che ci avevano detto per telefono: arriveranno e diranno di non voler fare del male a nessuno, poi inzieranno a uccidere poliziotti e soldati”. Sahid è torcomanno, di Mosul. Quando gli chiediamo la sua confessione religiosa, si spaventa: siamo tutti uguali, dice preso da una specie di panico: sunniti o sciiti, non fa alcuna differenza. Come quasi tutti i turcomanni di Mosul, è sciita: una fede che verrebbe rispettata da Baghdad in giù, ma che nel nord dell'Iraq può creare solo problemi. “Quando i quartieri ovest di Mosul sono stati occupati da Daesh abbiamo deciso di andarcene. Ci avrebbero ucciso tutti per la nostra religione” confessa.

Giura che il governo di Mosul, prima dell'arrivo di Daesh, era ottimo, che non c'era alcun problema. Nei quartieri ovest in cui viveva, spiega un altro uomo – padre di famiglia arabo ma cristiano – stava anche la gente più facoltosa, tra cui molti cristiani e curdi. Il lato est, oltre il Tigri, è la parte della città dove vivono le masse diseredate arabe musulmane, ci dice: lì, nei primi giorni, l'Isis ha imposto il suo potere, per poi giungere sull'altro lato, dove la gente è fuggita all'impazzata. Nonostante la rapidità della conquista della città, sarebbe sbagliato pensare che il potere salafita sia giunto dal nulla: “Io non andavo più a Mosul dal 2004, nonostante a volte ne avessi bisogno per ottenere dei documenti” racconta Hussein; “Ben prima di Daesh i salafiti erano pronti ad aggredirci o ucciderci se solo ci vedevano per strada. Perchè avrei dovuto andare in un posto così?”; e i cristiani di Ainkawa, per la maggior parte assiri, raccontano delle tasse che i salafiti pretendavano dalle famiglie non musulmane ben prima dell'invasione dell'Isis.

“Non c'era Daesh, ma c'era Al-Qaeda [che già aveva preso il nome “Stato islamico in Iraq”, Ndr]. Hanno sempre assassinato cristiani a Mosul, ma non credere che con gli sciiti vada meglio: alcuni di loro hanno ucciso un cristiano a Baghdad, l'altro giorno, perché vendeva delle birre”. Jabal è ezida, ha una buona istruzione e insegna nel campo dal mattino alla sera tutti i giorni, per 140 dollari al mese; implora una raccomandazione per lavorare come traduttore presso i giornalisti occidentali. Tutti gli danno ragione quando dice che le minoranze, in Iraq, avrebbero bisogno di protezione internazionale: “Basterebbero dieci soldati dall'Europa per proteggere Singal” dice un uomo turcomanno dall'altro lato del prefabbricato in cui siamo seduti, evidenziando il carattere mitico che qui, nel bene o nel male, assume l'immagine della forza militare straniera.

La richiesta di forze straniere va di pari passo con la protesta ingenua per il loro comportamento: “Ho visto con i miei occhi un aereo Usa sorvolare un convoglio di Daesh e aspettare che tutti i miliziani fossero in salvo prima di colpire il furgone vuoto” afferma il Mukhtar ezida del campo. Hussein gli fa eco: “Per sette giorni Daesh ha massacrato, stuprato e terrorizzato a Singal e dintorni. Soltanto dopo gli americani hanno iniziato a bombardare”. Racconta la fuga sulle montagne, la morte di un suo anziano conoscente per fame: era rimasto nascosto nella sua casa, in un villaggio abbandonato, e nessuno l'aveva visto, ma tutto attorno c'erano soltanto miliziani. “L'occidente è potente, può controllare il mondo: perché non può sconfiggere Daesh?” chiede furente un signore torcomanno, concludendo con la tipica frase: “Fanno tutto per il petrolio”. Un ragazzo sui vent'anni interviene: “Non dovete chiederci queste cose, i rapporti tra Daesh e l'America. Siamo gente senza educazione, non possiamo comprendere la politica. Io ho dovuto lasciare Mosul, è due anni che non vado a scuola”.

Chi ricostruirà la verità, le responsabilità personali e politiche, gli eventi e il contesto? I testimoni appaiono traumatizzati e impauriti, regolarmente preoccupati che le loro risposte possano innescare processi o conseguenze che non riescono a controllare. Da un lato, hanno timore a raccontare le loro storie; dall'altro, vorrebbero che esse provocassero come per magia benefici evidenti e immediati, e per questo non di rado sembrano soltanto in parte sinceri, come fossero impegnati ad aggiungere o sottrarre particolari che ritengono rilevanti, al fine di produrre a loro volta una narrazione senza chiaroscuri, dove tutto dev'essere semplice e coerente su dove sta il bene e dove sta il male. Testimonianze già raccolte dalle Ong occidentali, dal governo curdo, dalle Nazioni Unite e che ciononostante, in questa forma schietta, non hanno mai raggiunto le pagine dei nostri quotidiani: le popolazioni dell'Occidente devono a loro volta restare all'oscuro, percepire l'Iraq come un mondo incomprensibile da cui emerge soltanto una barbarie incontrollata, che può giustificare imperscrutabili tempistiche di guerra.

Le testimonianze di questi profughi raccolte dai poteri locali e internazionali, con mezzi ben più potenti e capillari di qualsiasi organo d'informazione indipendente, saranno filtrate da molteplici interessi e dalle coscienze sporche di centinaia di istituzioni, prima di finire sul tavolo di qualche ricercatore isolato e lontano, magari a sua volta preoccupato – come spesso accade – di non urtare questa fazione o quel governo. Con il tempo, l'inquinamento dei fatti e la loro organizzazione storico-concettuale, funzionale a questa o a quella narrazione della storia, prevarrà. La verità sulle conquiste dello stato islamico rimarrà per lo più sepolta nei giorni caotici dell'estate 2014, in cui tanto i politici di Baghdad quanto quelli di Erbil decisero di lasciare migliaia di città e villaggi al loro destino – con gli Stati Uniti a sorvolare dall'alto, senza intervenire. Fu geopolitica, calcolo cinico e assestamento di interessi regionali, o autentica insurrezione islamista, secessione di un pezzo di terra secondo la legge del corano e di Dio?

Appare chiaro – né sussiste contraddizione – che fu entrambe le cose; e a farne le spese furono queste persone, obbligate a vivere in tende o baracche con cinquanta o con meno dieci gradi, vittime dei razionamenti alimentari, delle paludi di fango e del vuoto di giornate vissute negli spazi aperti di cieli e montagne che paiono loro, tuttavia, prigioni. Sono tutti, senza quasi eccezione, impazienti di prendere una qualsiasi barca per l'Europa, una qualsiasi via lontano da qui; e non ritengono rilevante che forse moriranno nell'Egeo, saranno picchiati sotto il filo spinato macedone o stipati in gabbie dai poliziotti francesi a Calais. Questa storia se la vogliono lasciare alle spalle a tutti i costi, e a loro poco cambierà che cosa, un giorno, scriveranno gli storici. “Soltanto il Pkk ci ha aiutati, quando scappammo da Singal” dice Hussein. Jamal parla sottovoce, mentre passiamo in una via stretta tra due caravan: “Vorrei che a Singal governassero le Ypg”. Lo dice con aria circospetta, temendo che qualcuno del personale del campo lo possa sentire: “Sono gli unici che aiutano le persone per il solo fatto che sono persone”.

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