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L’America rifiuta Hillary; Trump è il nuovo presidente

di Michele Paris

Metropolitan Costume Institute Benefit Reuters CLAIMA20160301 0161 18Se c’è una buona notizia nella quasi incredibile vittoria di Donald Trump è che all’America e al mondo sarà risparmiata una nuova presidenza di un membro della famiglia Clinton. Detto questo, l’ingresso di Trump alla Casa Bianca aprirà nelle prossime settimane una serie di scenari e porrà interrogativi a dir poco inquietanti. Le responsabilità per il successo del candidato Repubblicano sono in ogni caso da attribuire per intero al Partito Democratico, alla sua deriva destrorsa, alle politiche anti-sociali e guerrafondaie dell’amministrazione Obama e all’incapacità di offrire una prospettiva progressista a ciò che resta del proprio elettorato di riferimento, presentando invece una candidata tra le più screditate e reazionarie della storia degli Stati Uniti.

Le reali speranze di successo di Hillary Clinton erano svanite in fretta nelle prime ore della notte italiana, quando il leggero vantaggio registrato in stati considerati decisivi come Florida, North Carolina e Ohio ha ben presto lasciato spazio alla rimonta di Trump. La Florida, in particolare, sembrava poter essere ancora una volta in bilico fino alla fine del conteggio, ma i suoi 29 “voti elettorali” sono stati assegnati alla fine senza incertezze a Trump, in grado di raccogliere circa 130 mila voti in più della rivale.

Uno ad uno, sotto gli occhi increduli degli “anchormen” della CNN e di altri network filo-Democratici, quasi tutti gli “swing states” che Trump era in effetti obbligato a conquistare, e nei quali l’ex segretario di Stato era data in vantaggio, sono finiti nella colonna Repubblicana. Probabilmente, oltre che in Florida, fondamentale è stata la superiorità di Trump in North Carolina e in Ohio, stato quest’ultimo vinto da Obama sia nel 2008 che nel 2012.

Con ancora un percorso aperto verso la Casa Bianca, Hillary ha visto poi svanire di fatto le proprie speranze in seguito all’arrivo dei dati di altri stati della cosiddetta “Rust Belt”, generalmente orientati a votare Democratico. Scioccanti sono apparsi i risultati di Wisconsin, Michigan e Pennsylvania, diventati nel corso della nottata vere e proprie roccaforti a cui Hillary doveva aggrapparsi.

Nella mattinata di mercoledì, questi tre stati, assieme a Minnesota, Arizona, Maine e New Hampshire, erano ancora ufficialmente in bilico ma in quelli che mettevano in palio il maggior numero di “voti elettorali” il miliardario di New York sembrava avere un margine tale da rendere praticamente impossibile un recupero di Hillary. All’alba, la Associated Press aveva comunque già assegnato la Pennsylvania a Trump e poco più tardi sono arrivati i rimanenti stati necessari a chiudere i conti, spingendo quest’ultimo oltre la soglia decisiva dei 270 “voti elettorali”.

Il livello di shock che ha attraversato lo schieramento Democratico e lo staff della Clinton è apparso chiaro dalle reazioni, o dalla mancanza di esse, sui social media, mentre nella notte americana la ex first lady ha addirittura rinunciato a parlare alle migliaia di sostenitori raccolti nel suo quartier generale di New York.

Ad apparire è stato il capo della sua campagna elettorale, John Podesta, ovvero il bersaglio dell’hackeraggio che aveva portato alla rivelazione delle email compromettenti pubblicate da WikiLeaks nelle scorse settimane. L’ex capo di gabinetto del presidente Bill Clinton ha solo invitato ad attendere il conteggio finale, ma poco più tardi la stampa USA ha fatto sapere che Hillary aveva finito per chiamare Trump riconoscendo la sconfitta.

Significativamente, dopo una campagna elettorale dai toni violenti, Trump ha aperto invece il suo discorso riconoscendo il “servizio” prestato da Hillary al paese, prefigurando l’impegno che i media americani considerano inevitabile da parte di un presidente-eletto per “unire” un paese spaccato. Altrettanto rilevante è stato il riferimento alla necessità di stabilire rapporti cordiali con tutti i paesi del pianeta, a conferma di quello che può forse essere considerato uno dei pochi aspetti relativamente positivi dell’elezione di Trump.

In definitiva, se l’affermazione di Trump non è stata evidentemente a valanga, Hillary ha fallito clamorosamente su tutti i fronti. Solo poche settimane fa, la stampa USA parlava di una possibile cancellazione del Partito Repubblicano dalla mappa elettorale americana, così come di una probabile riconquista Democratica del Senato e, nella migliore delle ipotesi, della Camera dei Rappresentanti.

Non solo Hillary non è riuscita in sostanza a strappare nessuno stato tradizionalmente Repubblicano, ma, tra quelli in equilibrio, ha portato a casa solo Virginia, Colorado e Nevada. Il voto di queste presidenziali americane è stato perciò una clamorosa bocciatura dell’establishment, rappresentato principalmente da tutto ciò che incarna Hillary Clinton e dai suoi legami con i grandi interessi economico-finanziari e con l’apparato militare e dell’intelligence. A uscire con le ossa rotte dal voto è stato però anche un sistema mediatico che aveva cercato in tutti i modi di spingerla verso la Casa Bianca, non da ultimo producendo una raffica di sondaggi favorevoli alla candidata Democratica.

Ben lontani dall’assumersi la responsabilità di avere consegnato gli Stati Uniti a un presidente dalle evidenti tendenze fasciste, i politici Democratici e ancor più commentatori e analisti “liberal” hanno continuato e continueranno verosimilmente a collegare il successo di Trump a fattori che, se pure hanno influito, non sono stati determinanti.

Tra questi, in primo luogo, la mai provata interferenza del governo russo nel processo elettorale americano attraverso la penetrazione dei server di posta elettronica del partito e dello staff di Hillary Clinton. Ancor più, la galassia pseudo-progressista e i professionisti delle politiche identitarie e di genere sostengono che il fenomeno Trump sia una pura espressione di un’America retrograda, razzista e misogina che resiste il cambiamento che avrebbe determinato la sola elezione della prima donna alla Casa Bianca.

Se questa fetta di America, il cui peso è peraltro discutibile, ha indubbiamente appoggiato con entusiasmo la candidatura di Donald Trump, la sua affermazione è stata determinata in realtà dalla capacità di proporsi, sia pure soltanto in maniera apparente, come l’unico aspirante alla presidenza in grado di stravolgere l’establishment, dando voce soprattutto a una classe media e a una “working-class” che non hanno sentito se non, tutt’al più, in minima parte la “ripresa” dell’economia. Tutto ciò è stato canalizzato in una direzione reazionaria ed è stato possibile solo grazie al vuoto della sinistra americana e alla crisi irreversibile del Partito Democratico.

La ripresa dell’economia, piuttosto, sotto la gestione Obama ha beneficiato una ristretta élite, di cui fanno invariabilmente parte quegli esponenti della stampa “mainstream” che non si capacitano di come decine di milioni di elettori abbiano mancato di vedere i presunti progressi economici del paese e le rosee prospettive di un’eventuale presidenza Clinton.

La metabolizzazione della vittoria di Trump richiederà comunque tempo e le difficoltà che si prospettano sono state anticipate già mercoledì dal crollo delle borse in tutto il mondo. La storia della campagna elettorale appena terminata, così come i reali orientamenti dei poteri che controllano la politica americana, nasconde ancora molti lati oscuri, ma l’eventuale conciliazione del 45esimo presidente degli Stati Uniti con un sistema che l’ha in larga misura contrastato negli ultimi diciotto mesi non potrà avvenire senza scosse.

Allo stesso modo, la sola discussione delle varie proposte ultra-reazionarie di Trump, alcune delle quali con possibilità concrete di essere implementate vista la maggioranza Repubblicana confermata al Congresso, provocheranno gravi tensioni nel paese, a cominciare da quelle relative all’immigrazione, dalla possibile abolizione della “riforma” sanitaria di Obama e dalla nomina di giudici reazionari alla Corte Suprema.

Per il momento, alla luce del degrado che ha caratterizzato questa stagione elettorale americana e la quasi certezza che nessuno dei veri problemi sociali che affliggono gli Stati Uniti sarà risolto dopo questa elezione, è legittimo per lo meno consolarsi con la consegna probabilmente definitiva alla storia della dinastia politica clintoniana.

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